Pagina:Deledda - Il sigillo d'amore, 1926.djvu/236

230 il sigillo d'amore


— Sì, è tempo di andare: e tu, piccolone, non sai dove vai.

Si rimise a camminare: ma un profondo peso dietro di lui lo fermò subito. Era l’animale che non voleva più muoversi: solo scuoteva la testa, come cercando di liberarsi dal collare che lo infastidiva. Un po’ di bava gli colava dalla bocca digrignante.

L’uomo lo guardò negli occhi e non tentò di trascinarlo oltre. Quegli occhi spaventati gli dicevano che la bestia si sentiva male.

Fu un male che si manifestò subito con violenza. Il toro muggì, con un lamento cupo che risonò nel grande silenzio del tramonto come il ruggito del leone nel deserto; poi vomitò; infine si piegò sulle zampe anteriori e parve inginocchiarsi davanti alla cappella.

L’uomo non si spaurì. — È una colica — pensava. La pietà per la bestia, e la sua impotenza ad aiutarla, cominciarono a turbarlo quando il toro invece di risollevarsi si abbattè del tutto e giacque pesante come morto.

Per fortuna passò in quel momento un ragazzo in bicicletta, diretto verso il paese dove risiedeva il veterinario.

— Se tu mi fai venir subito il veterinario ti regalo due scudi — gli gridò il bifolco, senza permettergli di fermarsi: e il ragazzo corse via come una lepre.

Ma le ore passavano e nessuno arrivava.