Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/V
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LA MAESTRA PEDANI.
Egli le fu presentato il giorno stesso nell’uffizio comunale, dov’era andato a chiedere l’elenco degli obbligati della classe; elenco che, con sua maraviglia, non era anche fatto. E lì trovò pure il delegato scolastico, la prima grinta veramente spiacevole che avesse ancor visto nel villaggio: un piccolo uomo di pelo rosso brizzolato, con una papalina verde in capo e un viso giallo e acre, che parea che masticasse dell’arsenico; balbuziente per giunta, e armato di certi occhiali luccicanti, dietro ai quali non c’era modo di trovare le sue pupille. Ma tutta la sua attenzione fu attirata dalla maestra: un corpo stupendo davvero, al quale non rispondeva il viso, ch’era troppo lungo, e il naso un po’ schiacciato da una parte, e l’espressione fredda, per non dir dura; ma si poteva dire che era tanto bello il corpo, che il viso non riusciva a togliergli nulla. Non poteva avere più di ventitrè o ventiquattro anni. Al maestro ricordò una figura di guerriera con elmo e corazza che aveva visto da ragazzo davanti a un baraccone di statue di cera. Essa diceva non so che al sindaco dell’avviso d’iscrizione per le sue alunne, e nella sua voce ferma scoppiavano di tanto in tanto delle note rauche di giovinetto sulla pubertà. Poi se n’andò, salutando il Ratti senza sorridere. Uscendo subito dopo, questi la vide attraversare la piazza, e osservò che aveva il passo troppo lungo; ma portava il busto e il capo come un’imperatrice. Mentre passava davanti alla farmacia, il maestro notò che tre o quattro signori si levarono il cappello, e la seguitarono un pezzo con gli occhi. A una finestra d’una casa della piazza era affacciato il brigadiere dei carabinieri, che la guardava pure. Essa svoltò nella strada con un brusco movimento di fianco-destro.
Strada facendo, e pensando a quelle larghe spalle di guerriera, il maestro si domandò se non sarebbe stato il caso di scrivere all’avvocato Samis che egli aveva finalmente trovato in un villaggio una maestra bella e rispettata. E non s’ingannava di molto, infatti. Ma ad ottenerlo quel rispetto eran concorse varie cause eccezionali, e concorreva anche il suo carattere singolarissimo. Essa era venuta tre anni avanti a Camina, preceduta dalla fama d’un’avventura bizzarra, che le era seguita in Lombardia. Dal provveditore agli studi di Pavia era stata mandata “d’ufficio„ a sostituire una maestra fuggita da un piccolo comune riottoso, il quale, benchè lacerato dai partiti, s’era mostrato unanime nel ritenere come un’offesa alla sua dignità l’invio d’una insegnante non scelta da lui, e aveva perciò accolto sgarbatamente la bella ragazza, e fattole intendere in modo aperto che non ce la voleva. Ma avendo essa tenuto fermo senza paura e risposto altieramente alle prime provocazioni, avevan cominciato a scriverle delle insolenze oscene sui muri, e poi a dirgliene di viva voce, e infine era andata una folla a farle una tale urlata sotto le finestre, ch’essa era stata costretta a scappare. Ma il Provveditore, risoluto a far trionfare il principio d’autorità, avendo ottenuto man forte dal prefetto e indotto la maestra a tornare al suo posto, questa era stata ricondotta una sera al villaggio, in carrozza, scortata da una compagnia di bersaglieri; la quale l’aveva rinsediata marzialmente nella sua scuola, ed era rimasta lì quarantott’ore, a spese del comune. Cessati poi i disordini e tornate alla ragione le autorità, a capo d’una quindicina di giorni, la ragazza aveva chiesto un altro posto, ed era stata mandata a Camina. E qui, dopo un mese dall’arrivo, una notte, essendo scoppiato un incendio in una casa colonica fuor del paese, era accorsa tra i primi, e in mezzo ai contadini smarriti che non facevan che correre e gridare, aveva dato consigli e ordini utili, avviato il lavoro d’estinzione, offerto l’esempio della freddezza d’animo e del coraggio, fin ch’era sopraggiunto dalla città vicina, chiamato per telegrafo, un plotone di fanteria comandato da un tenente; il quale, al veder all’opera quel bel fusto di maestra con la gonnella rimboccata e un bastone alla mano, preso da una fiamma improvvisa, aveva scoccato un bacio e riscosso una bastonata. Tutte queste glorie aggiunte alla bella persona avevan provocato nel villaggio delle ardenti passioni, delle vere persecuzioni amorose, delle lettere, delle dichiarazioni temerarie, fatte a bruciapelo, perfin sulla strada. Ma avendo essa buttato le prime lettere dalla finestra, belle e aperte, e cacciato via i dichiaratori verbali con quelle dimostrazioni di fastidio e di noia, che fanno morir l’amore della ferita fatta all’orgoglio, dopo breve tempo l’avevan lasciata in pace. E nemmeno potevano gli offesi vendicarsi con la maldicenza, tanto ella vi dava poca presa, da qualunque parte si provassero a pinzarla. Aveva un carattere virile e asciutto, che si spiegava in special modo nella scuola, donde essa bandiva ogni tenerume, non citando alle alunne che esempi di atti vigorosi od eroici di donne celebri, e spingendo l’avversione alla sdolcinatezza fino a fare una guerra a morte ai vezzeggiativi e a pretendere che le ragazze si firmassero Cátera, Cárola, Giuseppa, invece di Caterina, Carolina e Giuseppina. E questo non faceva con passione, o per effetto d’un riscaldamento di fantasia; ma con costanza tranquilla, mostrando che quelle teorie venivano dal fondo della sua natura e della sua ragione, e che educava le ragazze a quel modo con la profonda certezza di fare il loro bene. Era, per conseguenza, fautrice convinta ed energica della ginnastica educativa, ed oltre agli esercizi nei banchi, faceva fare alle sue alunne la lotta nel cortiletto, dove una parte dovevano assalire e cacciare le altre da un rialto del terreno, e poi essere assalite alla volta loro; aveva l’associazione a due giornali ginnastici di Torino e di Venezia, s’esercitava in camera sua coi manubri, e nelle vacanze s’arrampicava su tutte le montagne vicine, col suo bastone da alpinista, non accompagnata che da una contadina che le portava da cambiarsi e da mangiare. E a questa idea di vita spartana si conformava in tutto; anche nella casa, dove non aveva che lo stretto necessario, fra cui un letto a branda da venticinque lire e uno specchietto largo un palmo, e nel vestire, che le andava sempre a pennello, ma era più che modesto. L’unica raffinatezza della sua acconciatura (un’abitudine della fanciullezza) eran due riccioli che le cascavan sulla fronte, ma che non sempre si ricordava di farsi, e qualche volta, nella furia, se li faceva col manico della paletta. Non era selvatica, però: andava dalle signore del paese, le quali, passata la gelosia delle sue prime conquiste, e notata in lei la mancanza d’ogni civetteria femminile, la cercavano per la sua indole originale, che riusciva nuova ogni giorno; ma in società parlava poco, e ascoltava anche meno, come se pensasse sempre a qualche cosa di estraneo. E questa era la spiegazione che si davan molti della sua invulnerabilità: doveva avere qualche amante lontano, col quale il matrimonio fosse fissato e immancabile, ed essere una di quelle anime forti e saggie che accumulano il sentimento per una data occasione, e che poi esplodono tutt’a un tratto con una forza formidabile. Credevano altri invece che fosse chiusa per natura all’amore: anzi, non riuscivano a immaginare l’amore in lei che come un’infermità che avrebbe turbato l’armonia del suo bell’organismo solido e sano. Ma essendo venuta dalla Lombardia, non si sapeva di lei nulla di certo, eccetto che le era morto il padre, medico militare, bresciano; oltrechè si sospettava ch’ella si preparasse in segreto al concorso per un posto di maestra a Torino. Ma non è a dire che le passioni, perchè tenute in rispetto, si fossero spente; chè molte duravano vivissime anche in coloro, come l’esattore ed il medico, che si vendicavano del fiasco fatto con lei contraffacendo il suo passo troppo lungo e la sua voce di maschio. Quando essa passava davanti al caffè e alla spezieria, dopo le scappellate, le si avvolgevano come serpenti intorno alla vita dei lunghissimi sguardi voraci, e le si facevano alle spalle dei commenti mentali indicibili. Ma lettere, ma dichiarazioni in viso, non più. Al maestro Reale, per aver una volta, essendo brillo, giunte le mani davanti a lei in mezzo alla strada, era toccata una tal polpetta dal sindaco, ch’egli non aveva mai più ardito di scherzare. L’unico apertamente fremebondo, che s’arrischiava ancora a pedinarla a distanza debita, torturandosi i baffi e le unghie, e che passando davanti alla scuola sgranava gli occhi al sentir la sua voce, era il brigadiere dei carabinieri, un bell’uomo pingue, impiccato in una tunica stretta che lo faceva trafelare. A veder come la guardava, si sarebbe detto: — Ora l’arresta. — E il bel mondo di Camina se ne spassava, col dovuto rispetto, però.