Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/XII

Gelosie

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GELOSIE.


Un fatto inaspettato lo turbò. Una sera a notte vide uscire il sindaco dall’uscio della sua vicina. La mattina si levò mezz’ora avanti ad aspettare ch’ella comparisse, e appena la vide alla finestra, la interrogò: essa disse della visita con tutta indifferenza, soggiungendo, per altro, che l’aveva stupita tanta degnazione: il sindaco era venuto a chieder notizie di suo padre, che aveva inteso dire si fosse aggravato improvvisamente; il che non era vero. E tagliò il discorso. Ma pochi giorni dopo fu peggio: all’uscita della lezione serale ella salutò il maestro in furia, dicendo d’esser stata chiamata alla casa comunale. Il maestro pensò con inquietudine che alla casa comunale, a quell’ora il sindaco doveva esser solo. Poi spiò dalla finestra della strada il ritorno di lei, e, vedutala, fingendo di dover uscire, discese per le scale, dove la incontrò, e le chiese notizie in quel buio, che nascondeva il suo viso ansioso. — Oh! una cosa di nulla, — rispose la maestra in tuon di scherzo: il sindaco si era voluto concertar con lei riguardo a certi parenti di alunne recidive, prima d’infligger la multa. Ma di lì a tre giorni, eccoti una visita del sindaco, solo, a tutte le classi; quindi anche alla sua. Non c’era più dubbio: l’Autorità si cominciava a infiammare. E da capo il giovane interpellò la maestra sul terrazzino. Ma questa volta essa sorrise in maniera da far sospettare che il sindaco avesse cominciato a dichiararsi. — Fa certe visite — disse; — ....un monte di parole, che non menano a nulla.... Pare che abbia del tempo da perdere.

— Chi sa! — rispose il giovane, con certa amarezza; — è così sciocco che è capace di sperare.... di non perderlo.

La maestra gli lanciò uno sguardo, corrugando le ciglia, e disse: — Con me la speranza può durar poco.

Il maestro si sentì freddo al petto, come s’ella avesse [p. 210 modifica]detto quelle parole anche per lui. E non parlò più del sindaco.

Ma la settimana dopo, un’altra chiamata al municipio: la maestra medesima glielo disse, con aria seccata, incontrandolo per la strada mentre andava. E questa volta egli non la potè cogliere al ritorno. S’affacciò la mattina dopo al terrazzino: essa non comparve. Allora egli s’andò a piantar dieci minuti prima all’uscio della scuola, e all’ora fissa la vide venire innanzi con un viso così alterato e fremente, che non s’arrischiò ad altro che a salutarla. Qualche gran che era seguito. Una dichiarazione brutale faccia a faccia? Un tentativo di violenza? Aveva l’anima sottosopra. Tornò ad aspettarla la sera sul terrazzino. Essa comparve per pochi momenti; più quieta, ma ancora pallida. — Che cosa le è accaduto? — le domandò ansiosamente il giovane. — Lei ha avuto qualche gran dispiacere! Cos’è seguìto col sindaco?

La maestra rispose con accento fermo: — Nulla. Non mette conto di parlarne.... — Egli insistè. — La prego di non insistere, — diss’ella. E ripigliò i discorsi soliti, ma pensierosa, guardando sovente giù, di là dal cortile, dov’era un folto di pini che parava la vista del fondo della valle.

E così fece per vari giorni, non permettendo al maestro, divorato dal desiderio di sapere, nemmeno di riattaccar quel discorso.

Ma una mattina ch’ella stava per lasciarlo prima del solito, e gli diceva a rivederci dando un’occhiata di là dal cortile, gli balenò un sospetto. — Si ritira prima — le domandò — per non esser veduta parlar con me? S’è forse detto qualche cosa sul conto nostro in paese? — E provò un piacere nel dir quel nostro, quasi che la parola legasse le persone come legava le idee.

La maestra sorrise con alterezza, e rispose: — Se questo fosse vero, rimarrei qui espressamente.... Ma debbo rientrare. — E per provargli la sua sincerità, lo salutò con uno sguardo più amichevole dell’altre volte. Ma era appena rientrata che il maestro, guardando giù, vide sparire fra i tronchi dei pini il cappellaccio dell’inserviente. Che fossero spiati! Egli rimase sopra pensiero. E gli cadde in mente per la prima volta che quelle conversazioni sul terrazzino, viste di [p. 211 modifica]fuori, potevan parer benissimo colloqui d’amanti. Ed erano spiati forse da un pezzo. Per conto di chi, se non del sindaco? E vide la scena di una settimana prima, come a una luce improvvisa, nella sala comunale: una dichiarazione grossolana, un rifiuto sdegnoso; lui aveva incalzato brutalmente, lei gli aveva tirato uno schiaffo; e allora era scoppiato l’orgoglio offeso: — Lei è l’amante del maestro! — A quell’idea fu preso da una vampa d’ira, e vide Carlo Lérica, con gli occhi fuor del capo, correre alla casa comunale, trattare il sindaco di bugiardo e di diffamatore.... E poi? Pazzie. La maestra screditata invece che difesa, lui cacciato via, e non l’avrebbe vista mai più. E se s’ingannava? Se, in realtà, egli non ci fosse entrato per nulla?

Ma non rimase a lungo in questo dubbio. Uscendo la mattina dopo, vide il sindaco sulla porta della farmacia, e quando fu a tre passi da lui, alzò la mano per salutarlo. Quegli voltò la schiena.

Era la dichiarazione di guerra.