Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/VII
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UN ISPETTORE AMENO.
Il maestro ebbe dunque da aspettare, oltre alla decisione del destino della Falbrizio, l’arrivo della maestra Galli, e questa doppia aspettazione gli svariò un poco l’orizzonte uniforme dell’avvenire. La primavera alpina fu precoce. Verso la fine d’aprile cominciarono a sciogliersi le nevi, e le fontane e i ruscelli a cantar da tutte le parti, e poi i prati a fiorir di margherite, e gli armenti a empir la valle del tintinnìo dei loro grandi sonagli, dominato dalle note lunghe dei corni dei pastori. E col fuggir dell’inverno, in barba alla legge “sacrosanta„ principiarono a scappar gli scolari. La media dei presenti discese d’un salto dalla cinquantina ai trentacinque, sopra settantaquattro ch’erano gli obbligati, e continuò a discendere. Il sindaco fece, sì, pagare qualche ammenda di cinquanta centesimi, minacciando di replicare; ma i parenti stessi dichiararono che accettavan l’ammenda e che n’avrebbero pagate dell’altre piuttosto di privarsi dei ragazzi di cui avevan bisogno ai lavori; e quando si venne al punto di dover infliggere le multe di tre e di sei lire a certa gente che campava con quella somma una settimana, neppure il sindaco ebbe il coraggio di farlo. Al maestro che glie ne parlò rispose: — Vedremo.... si farà. Ma sarà grazia se nel mese di maggio non si dovrà chiuder la scuola. E poi la legge è nuova. Non bisogna spaventar la gente fin dal primo anno. Stringeremo il freno a poco a poco. — E allora il maestro si rassegnò, e il giorno della venuta dell’ispettore non gli potè presentare che ventiquattro scolari su settantaquattro, come gli avanzi d’una compagnia di soldati dopo una marcia disastrosa.
L’ispettore non era quello che s’aspettava da Torino, ammalatosi improvvisamente; ma uno d’un altro circondario, che il Provveditore aveva incaricato lì per lì di compiere alla svelta il giro lasciato a mezzo dal primo. Arrivò a piedi, accompagnato da due maestri della valle, che gli portavano uno la valigia, l’altro il pastrano; e dai quali si riseppe in seguito ch’egli s’era fatto pagar da bere alle Case Rosse. Appena fu all’albergo, i maestri lo lasciarono, e il sindaco l’andò a ossequiare, in compagnia del delegato. Visitò prima le classi della maestra Pezza e del Calvi, poi quella del Ratti. Era una figura bizzarra e piacevole. Aveva quell’aria d’orso polare che danno all’uomo i capelli bianchi ed irti e gli occhi sanguigni; ma era un orso che rideva cordialmente, mostrando i rottami neri d’una dentatura da masticator di tabacco. Serrato in un soprabito troppo corto, con un cappelluccio che gli stava a stento sul capo e un grande portafogli di tela cerata sotto il braccio, poteva esser preso per un venditor di stampe girovago.
La sua visita alla classe del Ratti fu breve e allegra. Egli s’occupò in special modo dell’aspetto degli alunni. Davanti al primo interrogato esclamò: — Oh che bel faccione! — e via via: — M’interroghi un po’ quel lestofante laggiù, con quel par di lanterne nel capo: quello deve aver talento. — E quest’altro eh? dove avete preso quei colori di latte e rosa, voi, dite un poco? Costui deve rampicar su per gli alberi come una bertuccia: guardate che granfie! — Curioso, — disse poi, — che non c’è un naso aquilino in tutta la classe, e han tutti lo stesso taglio di bocca. Ci sarebbe uno studio da fare. — Ma nelle poche domande che fece, e nelle osservazioni alle risposte, mostrò acume e buon senso. E rimase soddisfatto. Distribuì molti bene al maestro, al sindaco, al delegato, agli alunni, e anche dei bene senza indirizzo, che buttava qua e là, girando continuamente per la scuola, come se avesse addosso l’argento vivo. Da ultimo rivolse un discorsetto alla scolaresca, dimostrando la necessità dello studio con un argomento nuovo, espresso in un modo che fece senso al maestro. — .... E cercar poi di non dimenticar l’imparato, perchè altrimenti che cosa succederà quando sarete grandi e andrete a fare i soldati? Che dovrete cominciar daccapo il sillabario, in un’età in cui si stenta molto di più ad imparare, e correrete rischio di trovarvi ancora mezzo analfabeti al tempo del congedo. E sapete com’è la legge ora: chi sa leggere e scrivere va in congedo; chi non sa tira avanti a servire fin che abbia imparato; e così a voi toccherebbe di veder partire i vostri compagni liberi e contenti, e di dover restar lì prigionieri, tutto il giorno a sgobbare sotto la sferza del caporale, e a sentirsi dar del testa di rapa e del somaro. — L’argomento parve che facesse impressione sugli alunni; ma parve anche al maestro che non dovesse infonder loro un soverchio ardore di vestir “l’onorata divisa.„
Uscendo, l’ispettore invitò il giovane ad accompagnarlo nell’altre visite, dicendo che gli avrebbe dovuto far prendere certi appunti, e che per quel giorno desse vacanza.
Quando furon sulla strada, si aggiunse a loro il soprintendente, che il delegato non salutò. Incontrarono poi il segretario, e l’ispettore volle che anche lui s’accompagnasse. Egli si tirava dietro quanta più gente poteva, non per darsi importanza, ma per far allegria, per dare alla visita ispettorale l’aria d’una scampagnata d’amici. E sclamava a ogni passo, guardando intorno: — Oh che bei monti! oh che bei luoghi! — e lodava l’aspetto degli abitanti, la purezza dell’aria, la salubrità delle acque.
Tutti insieme attraversarono il villaggio e si diressero verso la scuola della maestra Falbrizio. La gran lite stava per esser risolta.
Entrarono l’un dopo l’altro, in silenzio, come una pattuglia di poliziotti in una casa sospetta. E per prima cosa l’ispettore alzò gli occhi al soffitto, che quasi si poteva toccar con la mano. Poi diede uno sguardo alle pareti nere di fumo.
Il sindaco disse subito: — Ho dato già l’ordine d’imbiancare.
L’ispettore accennò un vetro che mancava.
— Sarà provveduto — s’affrettò a dire il sindaco.
E vedendo che quegli toccava col piede una lastra smossa del pavimento, soggiunse pronto: — Non capisco.... dovevano venir ieri ad accomodare.
Sopra trenta iscritte non c’erano in iscuola che sette bambine, tutte schierate nei primi due banchi. L’ispettore chiese conto delle assenti. Poi domandò alla maestra se era stata malata. Era stata malata una settimana, infatti; non s’era levata da letto che il giorno prima; e perciò l’ispettore avrebbe dovuto compatirla se trovava le bambine un po’ addietro. Mentre essa parlava, il sindaco guardava per aria.
In quel momento entrarono due consiglieri, che il sindaco aveva mandati a chiamare per render più solenne il giudizio; uno dei quali era il liquorista assessore, che si vantava di rassomigliare a Vittorio Emanuele. Tutta la compagnia, per non far confusione, si schierò di fronte ai banchi. Erano otto omenoni che contavan fra tutti quattrocent’anni, piantati in atto di giudici davanti a sette bambine alte un palmo; con le quali formavano un quadro che si sarebbe potuto intitolare benissimo: L’infanzia oppressa dall’istruzione pubblica. Una sola bimba, la più piccola, una bella batúffola coi capelli rossi, squadrava tutti quei personaggi con un visetto corbellatorio, che era un amore. Tutte le altre tremavano.
L’ispettore fece alcune domande alla maestra, la quale gli rispose in italiano, con molta cautela, spiccicando le parole lentamente, e adocchiando il sindaco ad ogni frase, perchè capiva bene che anche il suo italiano sarebbe stato messo in bilancia.
Poi l’ispettore cominciò a far leggere il sillabario. Avevan così coscienza, specie le più grandicelle, che quella era una prova pericolosa per la loro maestra, che il timore ingarbugliava loro la vista e faceva ballare i sillabari nelle loro piccole mani tremanti. Ogni tre parole dicevano uno sproposito, e ad ogni sproposito il sindaco e i consiglieri si scambiavano un’occhiata di soddisfazione.
La terza bimba si arrestò a mezzo della lettura e si mise a piangere.
La maestra fece un atto di disperazione.
— Siamo indietro — disse il sindaco.
— Non saprei ben giudicare, — rispose l’ispettore, in tuono conciliante. — Qui, evidentemente, siamo davanti a un caso di timor panico, che turba le facoltà alle scolare. Bisogna star a vedere. — E cercò di far animo alla bimba. — Su, un po’ di coraggio, biondina. Eh, che diascolo! L’ispettore non è il babau. Io voglio bene alle ragazzine. Che c’è da impaurirsi? E poi, andiamo, si tratta di far onore alla maestra.
La bimba si rimise un po’ e terminò la lettura, balbettando. Tutte le altre lessero, bene o male.
— Non c’è tanto male, — disse l’ispettore, — non c’è tanto male. Non si può pretendere miracoli. La maestra è stata malata, non è vero?
Questa ripetè di sì.
— Abbiamo avuto un inverno con molta neve, — riprese l’altro, — ci saranno stati dei giorni d’interruzione per le nevicate.
— Undici, — disse la maestra.
— Ma dunque, ma dunque, — esclamò l’ispettore, andando in su e in giù, fra la comitiva schierata e i primi banchi; — son tutte cose di cui bisogna tener conto.
Dopo questo esaminò i quaderni e scosse il capo in segno d’approvazione. Poi disse allegramente: — Oh.... ed ora? Che altro abbiamo da fare?
Il soprintendente, staccando il mento dal gozzo, borbottò una proposta: — Recitar qualche cosa a memoria?
— Ah no, non pappagallate, — rispose l’ispettore, — non ci tengo.
Il delegato sorrise sotto i baffi, carezzandosi con una mano la bazza irsuta.
Il soprintendente soggiunse: — Un po’ di geografia?
— Non c’è geografia nella prima inferiore, — ribattè il delegato, dandogli un’occhiata di traverso, che voleva dir: — Beccati questa, e sappimi dir che ore sono.
L’ispettore fece fare una piccola somma sulla lavagna a due delle più grandi, che se la cavarono. — E va bene, e va bene, — disse allora; — c’è abbastanza franchezza. Questa biondina è un botton di rosa. Non riman altro da vedere, mi sembra.
Il sindaco fremeva. — Nondimeno, — disse, non potendosi più contenere, — mi pare che qualche altra interrogazione....
— Ma che interrogazioni vuol fare? — ribattè il delegato, impaziente d’andarsene; — non vede che hanno una tremarella che non ci vedon più? C’è il caso di mandarle a casa con la febbre, in fede mia.
— Direi anch’io, — soggiunse l’ispettore, lisciando il mento alla bimba più piccola; — direi che s’è fatto quanto basta. E voi, piccola monella, che avete l’aria di ridervela di tutto il mondo, che cosa ne dite, eh, con quegli occhietti impertinenti?
Sedutosi al tavolino, tirò fuori dalla tela cerata un verbale, e rivolse alla maestra le solite interrogazioni.
Quando le domandò: — Che stipendio?... — quella si prese il gusto di tenere un momento sulle spine le autorità, fingendo di voler denunziare la pitoccheria che facevano di levarle i rotti.
— Lo stipendio, — rispose, — sarebbe.... — e guardò il sindaco, che si morse le labbra. Allora soggiunse in fretta: — È di lire 366,33. — Ma lanciò al suo nemico un’altra occhiata, che voleva dir: — Ti risparmio, — e che lo trafisse.
— Lagnanze? — domandò l’ispettore.
La maestra fece un sorriso d’ironia leggerissimo, che arrivò a destinazione, e rispose dopo una pausa: — Nessuna lagnanza.
L’ispettore finì di prender le sue note, rivolse due parole alle bimbe, raccomandò alla maestra d’aversi cura, ed uscì facendo due salti, come uno scolaro. Tutti lo seguirono. Il sindaco e i consiglieri scoppiavan dal dispetto; ma lo dissimularono bene, facendo per la strada, come soglion le autorità dei villaggi all’ispettore, molte domande di schiarimenti intorno a casi dubbi d’amministrazione scolastica; alle quali egli rispondeva con conoscenza della materia, e con bel garbo, ma di sfuggita, come se quei discorsi, distogliendolo dall’ammirazione del paese, lo tediassero. Quando furon davanti all’albergo, il sindaco e l’altre autorità convennero di ritrovarsi alle due per visitare insieme la scuola delle Case Rosse; dopo di che se n’andarono; ed essendo sopraggiunto in quel mentre il maestro Calvi, l’ispettore invitò lui e il Ratti a “tenergli compagnia„ a colezione, per barattar quattro chiacchiere e far venir l’ora convenuta. Accettarono, s’andarono a mettere a tavola. L’ispettore dipanò per due, e fu amenissimo: fece ridere i commensali, l’oste e la serva, con una profusione maravigliosa di barzellette, senza accennar mai a cose di scuola, e la tirò tanto in lungo, che i due maestri tentarono d’indurlo a moversi facendo l’atto di pagare il conto. Ma con loro gran maraviglia, e non minore amaritudine, egli li lasciò fare, non dicendo che un: — Ma scusino.... e un: — non vorrei.... — così fiacchi, che non permisero loro di rimettere in tasca il portamonete. Scendendo poi per le scale, arzillo e lesto, li trattenne un momento per le braccia, e disse a tutti e due a bassa voce, socchiudendo un occhio dopo l’altro: — Avranno entrambi un buon sussidio, si fidino a me.
Sulla piazzetta stavano aspettando il soprintendente e il sindaco: questi più rosso del solito, come se avesse trincato per consolarsi dello scacco. Il delegato non comparve per cagion della gotta, il maestro Calvi si congedò perchè sua moglie era a letto, e l’ispettore s’attaccò al Ratti, per chiacchierare strada facendo. A due a due, sotto un bel sole tepido, s’avviarono verso le Case Rosse. A metà cammino li raggiunse il segretario.
La classe della maestra Vetti era in una piccola casa bianca, distante un duecento metri dalla borgata, in mezzo ai prati: casa che un signore della valle, morendo, aveva legato al municipio, il quale l’avea ridotta a scuola facendo poco più che mettervi una campana e una corda. La scuola occupava il pian terreno, e sopra c’era un quartierino per la maestra, con una cameretta per una povera vecchia, che riceveva dieci lire l’anno dal comune per sonar la campana. Quando la comitiva arrivò, c’eran due vacche legate all’inferriata d’una finestra, che guardavan dentro, dov’era la loro guardiana, scolara.
L’ispettore fece un atto di grata meraviglia al vedersi venire incontro il visetto incipriato e studiatamente timido della maestrina. Aveva un vestito nero stringato, che faceva apparir più bianca l’infarinatura delle guance, e un nastro rosso al collo, che le stava d’incanto.
L’ispettore s’andò a sedere al tavolino di lei, che rimase da una parte, in piedi, accanto al Ratti e al segretario. Il sindaco e il soprintendente sedettero dall’altra parte, su due seggiole di paglia.
La stanza era grande e bianca. Al di sopra del tavolino, sporgeva dalla parete una specie di mensola, coperta d’una guarnizione di cotone bianco, sulla quale posava una madonnina di gesso, ravvolta in un velo di tulle, e coronata da un arco di fiori finti; e di qua e di là due vasetti di vetro azzurro, con entro fiori appassiti. Sotto la mensola c’era un ramo d’ulivo attaccato a un chiodo. Il sole di primavera abbelliva tutto.
Era una scuola delle così dette miste, e meritava il suo nome, perchè non si poteva immaginare una scuola più mista di quella. Da una parte stavano i maschi, dall’altra le femmine, una ventina in tutti; e benchè non si dovessero ammettere alunni al di là dei dodici anni, ce n’eran dei piccoli e dei grandi; fra i quali un ragazzetto sui quattordici, già quasi formato, e tre o quattro villanelle da marito, che all’entrare dell’ispettore cercarono premurosamente coi piedi nudi gli zoccoli che avevan lasciati sotto il banco. Si sarebbe sentito a occhi chiusi di essere in una scuola di campagna, e non soltanto dall’odor dell’erba che veniva di fuori.
— Vediamo — disse vivacemente l’ispettore, battendo una mano nell’altra; — facciamo qualche cosa. A suo piacere, signorina: tanto per cominciare.
La maestrina fece far la nomenclatura mimica del corpo. Tutti gli alunni dovevan nominare, secondo un ordine stabilito, le varie parti del corpo, accennandole con ambe le mani; e pronunciando la parola, ad alta voce, tutti insieme. Eseguirono. L’ispettore non potè trattenere un sorriso. Era difatti una cosa comica il veder quelle grandiglione di ragazze, con tanto di petto, far quella nomenclatura tutte serie, con cantilena di miserere, toccandosi successivamente la fronte, il naso, la bocca, le anche, come bambine d’asilo.
Lessero poi gli uni dopo gli altri, a modo loro, facendo ogni sorta di stonature bambinesche, ma serbando tutti la stessa pronunzia e la stessa cadenza uniforme, come se fosse una persona sola che leggesse, alterando la voce.
— Già — disse l’ispettore, grattandosi il mento — capisco.... Scuola mista. È la scuola più difficile. Lei lo saprà, signorina.
La signorina scrollò il capo, e raccontò le sue fatiche, facendo ogni sorta di piccoli vezzi di tortora con la testa e col collo. — Se è difficile! Il più difficile è di tener tutte le classi occupate nello stesso tempo, e anche di rimettere in corrente quelli che hanno fatto molte assenze di seguito, chè bisogna rifarsi indietro con l’insegnamento. Per esempio, veda, oggi ci ho venti tra alunni e alunne; domani saranno la metà, dopodomani il doppio, e magari tutte facce nuove da un giorno all’altro. L’affare serio è di combinar le ore della scuola con quelle della pastura. Dopo la pastura son stanchi e non vengon più. E poi, chi ha libri, chi non ne ha. Guardi, tutti i bimbi e le bimbe del primo banco non hanno nè penna nè carta. Come si fa a insegnar a scrivere? I maschi si giocan le penne per la strada, le bimbe vendon la carta. A quasi tutti sono obbligata a far fare il lavoro in scuola perchè a casa non hanno calamaio o non trovan tempo. In fine, ci son ragazze di quindici anni e bimbe di sette, e bisogna insegnare in due modi affatto diversi anche a quelle che si trovano allo stesso punto d’istruzione. È un ammattimento.
E tirava avanti con una voce di flauto, tenendo intenti l’ispettore e il sindaco, che la guardavano con la bocca aperta e con gli occhi lustri, come cullati da quella musica, non staccando lo sguardo dal suo visetto che per seguire i contorni del suo corpicino.
— Bene! — disse improvvisamente l’ispettore, battendo la mano sul tavolino, come per rompere l’incantesimo.... — facciamo un poco d’interrogazioni!
La maestra fece ad alcuni delle domande di nomenclatura sulle varie parti e suppellettili della scuola, che gli alunni fissavano ad una ad una con gli occhi larghi, come per strappar la parola dalla cosa.
A un tratto l’ispettore l’interruppe, e accennando col dito il ragazzo più grande: — M’interroghi un poco quell’attore lì — disse scherzosamente; — quello lì mi ha l’aria di saperla lunga.
— Pietro Genèri — chiamò la maestrina, dandogli uno sguardo di sfuggita, e guardando poi subito da un’altra parte.
Il ragazzo s’alzò, e benchè avesse una faccia invetriata di ladruncolo campestre, diventò rosso fin nel bianco degli occhi.
Questo parve strano al Ratti, e anche all’ispettore; e tutti e due notarono nella maestra un certo imbarazzo, benchè sorridesse. Anche il segretario sorrideva, guardando il pavimento.
L’ispettore non intese nè le domande nè le risposte, badando soltanto a osservare ora la maestra ora il ragazzo; e quando questi sedette, egli rimase un po’ pensieroso, e si grattò il mento. Poi si rivolse alla signorina, con gli occhi più lustri di prima, tenendo la penna alla mano, per far le solite domande. Il sindaco e il soprintendente s’alzarono e si fecero innanzi, per sentire e vedere.
— Età della maestra?... — domandò l’ispettore, con fare galante. — A lei si può domandare ad alta voce.
La maestra rispose con una nota soave: — Ventitrè.
— Ventitrè! — ripetè l’ispettore lentamente, come per sorseggiare la parola, e, datole uno sguardo congratulatorio, scrisse la cifra.
Domandò gli anni di servizio, lo stipendio, se avesse sussidii. Poi:
— Proposte?
— Non saprei, — quella rispose.
— Lagnanze?
— Non ho da far lagnanze.
C’era ancora una domanda. L’ispettore prese una espressione voluttuosa, e domandò con voce insinuante, smorzando la voce.
— Desiderî?
Il sindaco e anche quel gozzuto del soprintendente allungaron le labbra, come dei ghiottoni, piantando in faccia alla maestra i loro quattr’occhi luccicanti.
La ragazza abbassò gli occhi e rispose con una civetteria adorabile, quasi sospirando la parola:
— Nessuno.
Le tre Autorità inghiottirono la saliva.
— Ebbene, — disse l’ispettore, con un sospiro — scriviamo: nessuno.
E quando fu fuori col suo seguito, proruppe in esclamazioni ammirative: — Ah che bel bocconcino di maestrina! Ah che amore di ragazza! — E si lasciò andare fino a congratularsi di quel tesoro col sindaco, battendogli una mano sulla spalla, mentre quegli atteggiava il viso a un’espressione di compiacenza discreta, sotto la quale pareva che volesse insieme nascondere e far sospettare “qualche cosa.„ E così ebbe termine la visita ispettorale.
Il maestro Ratti non potè che varie ore dopo, a tavola, farsi appagare dalla bocca del segretario la curiosità che lo tormentava. Che era stato quel rossore del ragazzo, e quell’imbarazzo della maestrina, di cui anche l’ispettore s’era accorto? Ci doveva esser sotto qualche mistero. — E come c’era! Ma non era un mistero. Quel piccolo mascalzone era innamorato come un asino, e geloso a segno che pigliava a calci i suoi compagni più grandicelli quando la maestra li lodava. S’era rivelato da principio andando a rubar frutta e legumi da regalare a lei, che aveva rifiutato ogni cosa. Poi una sera sull’annottare, incontrandola per una viottola, e fingendo di disperarsi e di domandarle perdono delle sue ruberie, le aveva mangiato il grembiale dai baci. L’avevan sospeso dalla scuola, poi era stato riammesso. E da un pezzo se ne stava quieto, ma sempre cotto, studiando con molto impegno per entrare in grazia alla maestrina. Il suo maggior tormento era un maestro d’Azzorno, un bel giovane, che veniva a ronzare da quelle parti, e s’accompagnava con la Vetti qualche volta. Egli andava dicendo che gli voleva fare un occhiello nel ventre. — E sarebbe capace di farlo, — conchiuse il segretario; — se non avesse timore di lei. È innamorato.... che fa schifo. La maestrina finge di non avvedersi di nulla. Solamente bada a non gli si metter vicino quando va a correggere ai banchi: si capisce. Del resto, dicono che ha talento.... quel mandrillo.