Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/VIII

Un nuovo personaggio

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UN NUOVO PERSONAGGIO.


Due mesi dopo ci furon gli esami; i quali non diedero al Ratti alcun pensiero, quantunque il sindaco, che assistette ai verbali, dopo aver avuto un battibecco la mattina con la maestra Falbrizio, mostrasse un po’ di malumore anche con lui, forse perchè gli pareva ch’egli bazzicasse un po’ troppo la sua nemica. E cominciarono le sospirate vacanze. Lo stato della cassa non permise quell’anno al maestro di fare il viaggetto solito per riabbracciar la sorella e i fratelli; ma ebbe un compenso nel veder che i villeggianti eran pochi, e poco affiatati tra di loro, e non festaioli come quelli del piano, dove la natura non offrendo allettamenti e il caldo prolungando l’uggia della città, bisogna cercar distrazioni nel chiasso delle brigate. Non di meno, gli davan noia anche quei pochi, davanti ai quali egli si sentiva riaprir le ferite già rimarginate dell’orgoglio, e ogni volta che vedeva di lontano, per la strada del villaggio, brillare i colori d’un vestito di signora, svoltava in un vicolo, come all’apparire d’un antico offensore; ma non senza un segreto rammarico, chè gli durava sempre quel desiderio istintivo di levarsi e di farsi stimare in una classe più alta della sua. E un caso impreveduto venne ad attirarlo per forza in mezzo alla gente ch’ei fuggiva.

Stava una mattina nella sua camera leggendo un riassunto delle Conferenze pedagogiche d’un ispettore, che il Calvi gli aveva imprestate, quando picchiò all’uscio e gli si presentò in atto cortese un signore d’una cinquantina d’anni, di viso intelligente e fine, che gli parve d’aver visto altre volte.

— Il maestro Ratti? — domandò con certa cordialità giovanile, senz’ombra d’ostentazione. — Lei non [p. 186 modifica]mi conosce? — Il maestro non lo riconosceva, infatti. Eppure era un consigliere del comune, venuto due volte a Altarana nello scorso inverno, per ventiquattr’ore. E disse con garbatezza spigliata il perchè della sua visita. — Vengo qui a passar l’estate; sento dire: c’è un maestro giovane; dico: andiamo dal maestro giovane: parleremo di scuola. Ed eccomi qui. Non badi alla maniera un po’ strana. Son così fatto. Ho l’entratura brusca. Siedo senza cerimonie.

Il maestro rimase un po’ stupito e della degnazione e del modo di presentarsi; e subito osservò una certa dissonanza che c’era su quel viso tra la bontà degli occhi e la bocca stizzosa. Aveva l’aria d’un uomo che nutrisse per natura dei sentimenti nobili e dicesse per abitudine delle malignità: buono di cuore e scettico di giudizio, come se ne danno tanti. In ogni modo il maestro s’accorse alla prima d’aver dinanzi una persona assai superiore d’intelligenza e d’educazione a quelle con cui era assuefatto a vivere. Lo ringraziò, gli domandò in che maniera lo potesse servire.

— Chiacchierando, — rispose con grazia il signore. — Non si può domandare miglior servizio ad un uomo, in questa solitudine. Son mezzo maestro anch’io.... per la passione con cui m’occupo dell’istruzione elementare. Una delle molte ragioni per le quali mi rincresce di non aver figliuoli è di non poter studiare la scuola in loro, che è il migliore, anzi l’unico modo di studiarla per chi non fa il maestro. — E soggiunse che da un pezzo era tentato di prendere un ragazzo della campagna, di buona volontà e di talento, e di farlo studiare, per seguitare a passo a passo la trasformazione morale e intellettuale che opererebbe in lui l’istruzione e l’educazione civile, e il cambiamento progressivo, per dir così, dell’orizzonte della vita.

Il maestro gli osservò che gli avrebbe potuto dir ben poca cosa, non avendo che quattro anni d’insegnamento.

— Quattro anni sono un quarto di secolo adesso, — rispose il signore. E soggiunse con un sorriso: — Se in Italia si fossero occupati per quattro anni d’uno studio tutti coloro che dicono e stampano d’avervi “dedicato tutta la vita„ o “speso la miglior parte della gioventù„ o “sacrificato la salute„ saremmo [p. 187 modifica]la nazione più dotta del mondo. — Poi gli domandò tutt’a un tratto: — E lei come vive qui? Con chi parla? Che modo ha trovato d’ammazzar la noia? — E aspettando la risposta, accese una sigaretta.

Attratto da quella familiarità, il maestro gli disse francamente che la sola persona che gli era parsa un po’ colta era il parroco; il quale l’aveva accolto in quella strana maniera, con quella brusca professione di fede. E gli espose il suo dubbio. Non gli era sembrato un credente caldo e sincero; eppure gli aveva fatto l’impressione d’un uomo profondamente persuaso delle idee che gli aveva espresse intorno alla scuola.

— Ah! don Barca! — esclamò il consigliere. — Lei ha buon fiuto, maestro. Quello lì non crede nè a Dio nè al diavolo. Ma vede, appartiene a una categoria speciale di preti galantuomini, i quali non credono a nulla, ma sono onestamente persuasi che il non credere a nulla conduca il mondo alla dissoluzione. Non hanno la fede, ma credono alla necessità dell’istituzione religiosa, a cui non vedono che il liberalismo miscredente abbia ancor trovato nulla che ne possa fare le veci, e, sinceramente, ritengon che sia un dovere di galantuomo e di patriotta di difenderla e di farla prevalere, pel bene di tutti. E ce n’è a migliaia.... Ma già, anche nel mondo dei liberali, chi li conta i miscredenti che per la stessa ragione raccomandano l’educazione religiosa, e affidano i figliuoli ai preti, tenendolo nascosto, se possono? Ma i preti, almeno, hanno un’idea ferma e chiara in materia d’educazione: dicono: la religione che vogliamo è questa. I capi ameni sono gli educatori laici, scrittori, pedagogisti e tutta la filastrocca, che non avendo coscienza o coraggio di affermar come loro, predicano il sentimento religioso, la religione, la fede, e che so io, senz’altro. Ma che fede? Quella di san Francesco d’Assisi o quella di Giuseppe Mazzini? O la vostra? E qual’è la vostra? Come se coi ragazzi e col popolo, in religione, si potesse batter la campagna, facendo della poesia aerea, senz’affermazioni precise, senza dogmi, in una parola. La fede, così.... come si direbbe: — un po’ d’aria buona; ah! che burloni.

S’alzò, e mandando per aria delle boccate di fumo, s’avvicinò al cassettone, e si mise a rovistare i libri, [p. 188 modifica]come se fosse in casa sua. S’offerse d’imprestarne al maestro. Gli avrebbe potuto dare, fra l’altre cose, una raccolta di giornali scolastici, lasciatagli da un fratello professore, morto l’anno avanti; nella quale il maestro avrebbe trovato molte cose utili e divertenti. Poi gli domandò: — A proposito, è venuta la nuova maestrina?

Il giovane gli rispose di no, che non sarebbe venuta che alla fine di settembre; e, per dar colore alla conversazione, gli palesò il segreto dei ritratti, che aveva strappato al suo commensale.

Il consigliere lo sapeva. Non aveva nemmeno voluto immischiarsi in quell’affare. I concorsi, per lui, erano una cosa ridicola, quando non erano una birbonata. Una ventina di poveri maestri o maestre, presi all’amo d’un annunzio di concorso, spendevano cinque o sei lire in posta e in carta bollata per mandare al municipio titoli e certificati di moralità, penalità, sanità, e magari anche il ritratto.... e poi accadeva spesso che il titolare era già fissato prima, un favorito del sindaco, o un raccomandato del provveditore, o un protetto dell’ispettore scolastico, o una creatura del deputato del collegio. Ora poi, — soggiunse — domandano anche la fotografia delle maestre. Tanto varrebbe che pubblicassero nelle quarte pagine dei giornali: — Si cerca una bella ragazza così e così, per servizio del comune. — Non vede come vanno alzando d’anno in anno le pretensioni? C’è già dei comunelli che vogliono il maestro celibe senza prole, e che non abbia più di trent’anni, e dicono che daranno la preferenza a chi abbia compiuto il corso ginnasiale, o conosca il francese o il tedesco, e il disegno d’ornato, e abbia una tintura di scienze fisiche e chimiche. L’anno scorso un municipio voleva un maestro che sapesse sonare il pianoforte e avesse una bella voce. Credo che non aggiungesse come condizione sine qua non che avesse cantato al teatro della Scala. Tutta questa roba per settecento lire all’anno, siamo giusti, è un voler la merce per niente. Ora vedremo questa bellezza. Quanti anni ha?

Il maestro glielo disse: venticinque.

— Capita bene, — rispose il consigliere. — Lei già si sarà fatta un’idea, o non tarderà a farsela. Non ha avuto ancora nessun urto?... Tanto meglio. Le auguro [p. 189 modifica]di tutto cuore che non abbia ad averne mai. Ma saprà che l’amministrazione è in mano a un branco di guatteri e di bovari. Avrà visto che facce. Eppure, paion quasi uomini come gli altri, quando le cose vanno pel loro verso. Ma provi un poco a scalfir la pelle a un di loro. Caro maestro, lei è giovane: non può conoscere nè il mondo vecchio nè il nuovo. Avrà sentito parlare della muffa dell’aristocrazia, dei semidei terrestri che ci trattavano come gente d’una razza inferiore. Ma quella era cortesia appetto alla superbia dei vaccari in carica! Quelli almeno disprezzavano soltanto la gente disotto. Questi invece sputano in basso, in alto, intorno, e sono invariabilmente orgogliosi, prepotenti e mal creati con tutte le classi sociali.

Ma qui tagliò netto, come se fosse pentito d’aver fatto quella sfuriata in una prima conversazione, e riprese il tuono allegro per invitare il maestro ad andarlo a trovare a casa, in un villino giallo, posto di sopra al paese, dalla parte delle Case Rosse, dove non avrebbe trovato che sua moglie, e avrebbero preso il caffè insieme discorrendo; e gli troncò in bocca i ringraziamenti, mettendosi il dito sotto il naso, con un fare amichevole, in atto d’intimargli silenzio. — E mandi a prender la raccolta dei giornali scolastici, — gli gridò dalla scala.