Il primo libro delle lettere (Aretino)/II. Al re di Francia
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II
AL RE DI FRANCIA
Procura di dimostrare che la prigionia in cui lo detiene Carlo V,
nonché abbassarlo, lo abbia elevato.
Io non so, cristianissimo Sire, per essere la vostra perdita uno essempio de l’acquisto altrui, chi meriti piú lode: il vinto o il vincitore; imperoché Francesco, ne l’inganno usatogli da la sorte, ha liberato l’animo dai dubbi che ella non potesse far prigione un re; e Carlo, nel dono concessogli dal caso, l'ha fatto servo, in pensare che pò fare il simile a uno imperadore. Certamente voi l’avete libero, nel veder quanto sia fragile la felicitá, onde la sprezzate; ed egli l'ha posto in servitú, nel conoscere come ella è volubile, onde ne teme: e così la Maestá Sua si è vestita de le cure, di cui si è spogliata la Vostra. Si che non vi dolete de la fortuna, che, per non avere piú a potere, ha fatto ciò che ha potuto, ponendovi ne lo stato che sète; perché, nel far ciò, le vertú che vi adornano son diventate franche: talché splendete de la piú moderata temperanza e de la piú ferma constanzia del mondo, e, nel consentire che tali vertú vi amministrino il core e la mente, fate tornar donna colei che è dea per il lamento degli uomini. Io mi credo che la Fortuna, che si acorge che gli altri perdono vincendo e che voi vincete perdendo, tenga a vile di trionfare di voi, che trionfate di lei, perché la necessitá che la guida, volendovi profondar ne l’abisso, v’ha sollevato al cielo. E ciò si comprende nel vostro sopportarla, onde imparate e a guardarvene e a conoscere che le sue contrarietá sono le lucerne de la vita di colui che non si perde seco. Ecco: la vittoria non fa beato Cesare, come pare, perché tale apparenza, per non ci essere un certo fine, è l’ombra d’una imagine di felicitade; e non sol egli, ma le stelle e la vertú, da cui deriva cotal bene, non son felici, per soprastargli il voler di Dio. Onde vi prepongo, non pur aguaglio, a ciascun vittorioso, poiché abbattete con la prudenza colei che vi ha abbattuto con la forza. Gran fatto che Augusto, del qual sète ne la potestá, non abbia se non una via da dimostrarvisi generoso, avendone voi tante da dimostrarvi magnanimo a lui! Parlo de la clemenza, che, se ne manca, si riman sogiogato dal vostro saper sofferire che egli non sia clemente, prevalendovi de la pazienza, con la qual si supera il vincitore, perché fra tutte le vertú è la piú vera, e niuna cosa può esser trovata piú degna ne l’uomo. Ma, ornandosene un re come voi, per esser ella invenzione degli dèi, non se gli pò dire «iddio»? Piú laude meritano coloro che sanno sofferir le miserie, che quegli che si temprano ne le contentezze. E un cor alto deve tollerar le calamitá e non fuggirle, perché nel tollerarle appare la grandezza de l’animo e nel fuggirle la viltá del core. Ma dove si udi mai che un tanto re ne la súbita occorrenza de la giornata facesse da se solo tutto quello che dovevano fare i capitani, i cavalieri e i pedoni? Il titolo vostro fu commesso da la vostra deliberazione a l’insegne e a le sopraveste reali, e ivi si rimase ogni sua degnitá, quando voi con la spada calda del sangue inimico faceste confessare a la Fortuna che è preso chi combatte e non chi fa combattere, affermando che le cose umane non si governano senza ragione, ma per collegazioni e nodi di cagioni secretissime a noi, destinate, inanzi agli accidenti loro, con legge immutabile. Benché le vittorie son la rovina de chi guadagna e la salute de chi perde: perché i vincitori, acecati da l’insolenzia de la superbia, si scordano di Dio e ramentansi di loro stessi; e i perdenti, ralluminati da la modestia de l’umiltá, si dimenticano di lor medesimi e ricordansi di Dio. E chi non sa che la Fortuna favoreggia quegli che se gli adormentano in grembo, per tòrgli il senno? Or non vi vergognate del crollo che ella v’ha dato, perché sareste degno d’ogni male, arossandovi de la sorte vostra. Ricogliete ciò che d’intorno a le sue molestie ha sparso la mente, appoggiandovi con tutte le doti de l’animo a la colonna de la sua fortezza, tenendo sempre desto quello spirito vivace che arse continuamente nel valor reale, le cui eccellenzie non si fanno men temere legate che sciolte. E siavi il sinistro, dove vi trovate, un freno, che non vi lasci correre a pensare, non pure a pigliare, l’imprese con temeritá, perché verrá tempo che vi sará utile e dolce la ricordanza de le cose presenti. Né per altro è piaciuto a Cristo che la Vostra Maestade sia ne l’arbitrio di quella del suo avversario, che per esser voi uomo, come è anco egli. E, se mesurate l’ombra dei corpi vostri, la trovarete né piú né meno che si fussero inanzi che l’un restasse vinto e l’altro vittorioso.
Di Roma, il 24 di aprile 1525.