Il podere (Tozzi)/XXII
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XXII.
La notte, il fontone pareva uno specchio disteso sotto la luna. Attorno, le crete rilucevano; anche perchè rendevano la luce assorbita durante il giorno.
La luna era là, e sapeva da sè la sua strada; la luna forte e bella. La Tressa scrosciava e i pioppi avevano messo la voce. Non c’era alito di vento che non si sentisse subito.
Remigio andò ad accarezzare l’aratro vecchio e scheggiato; ma sempre buono: il vomere, con la punta liscia e pulita, luccicava; quasi gli rispondesse a quel modo.
Picciòlo, dopo il bisticcio per il vitello che ripigliava vigore, non gli parlava più volentieri come prima; e perciò, benchè anche lui fosse fuori di casa, non gli si avvicinò. Remigio avrebbe voluto chiamarlo; ma stette zitto, per non dargli troppa confidenza e per paura che gli rinfacciasse quelle parole dette in un impeto d’ira: voleva imparare a contenersi con gli assalariati, perchè sentissero da sè che era buono.
Quando andò a dormire, la luna era già bassa e così vicina a un poggetto come se fosse per entrarvi dentro.
Egli guardò i soffitti di tela intonacata; che, raggrizzandosi, si sfondavano e gonfiavano. Anche i muri erano sporchi; e veniva via la calce a strusciarci a pena la punta di un dito.
Un’ora dopo la mezzanotte, fu destato da un bagliore quasi rosso; che si faceva sempre più vivo, illuminando distintamente tutto ciò che era dentro la camera. Da prima Remigio non capì che fosse, e si alzò a sedere sul letto. Poi, incuriosito e impaurito, andò alla finestra: la mucchia del grano era un’immensa fiamma; con una punta alta che il vento moveva a pena. Mandava tanta luce attorno che anche tutta la pendice del podere era illuminata.
Svegliò la matrigna; e battendo i piedi sul pavimento, gli assalariati.
Escì per il primo; e gli pareva strano che la mucchia bruciasse; tanto, qualche ora innanzi l’aveva guardata con un sentimento di calma. Le manne del grano, accese, si spandevano in terra; finendo di consumarsi. La mucchia era sempre una fiamma sola, quasi silenziosa; mentre, dentro, si sentivano scrocchiolare i chicchi del grano; come se il fuoco li masticasse.
Quando una manna era per spegnersi, restavano tanti lunghi fili di bracia; che, a poco a poco, doventava cenere! Dopo qualche minuto, anche gli assalariati erano su l’aia; mezzo svestiti, guardandosi nel viso. Nessuno parlava. Si sentivano le donne, dalle finestre, raccomandarsi, quasi sottovoce, a Dio e alla Madonna. Poi, Luigia gridò:
— Pigliate l’acqua dal pozzo e buttatela sopra!
Tordo rispose:
— È inutile. Piuttosto, guardiamo che il fuoco non si attacchi alla capanna.
Lorenzo, che aveva fatto il soldato, e s’era ritrovato ad altri incendii, disse:
— Leviamo tutto quel che c’è che possa bruciare.
Tirarono via l’aratro, scansarono il carro; e spazzarono i fuscelli e le foglie secche su l’aia. Disse Picciòlo:
— Che non entri qualche favilla in capanna! Basterebbe una favilla sola.
— L’uscio è chiuso; ma la finestra aperta.
— Bisogna chiudere anche quella.
— Bisognerebbe entrare dentro!
— Appoggiamoci, con la scala, una tavola di fuori: è lo stesso.
Trovarono una tavola e ve la puntellarono; ma le faville potevano entrare anche di tra le tegole del tetto.
— Se si provasse a buttare un poco d’acqua attorno?
— Meglio, farebbe la terra! L’acqua sì può avere soltanto un secchio per volta.
Remigio non apriva bocca: Luigia scese e gli mise un braccio attorno al collo. Egli a poco a poco le fece togliere il braccio e andò dove c’era un poco d’ombra; accanto alla parata. La mucchia intanto, aveva cambiato di forma; s’era arrembata da una parte, sbasandosi: crollava giù a tratti e a scosse: che facevano dare un lungo guizzo a tutta la fiamma.
Alla fine non restò che un monte di bracia, che si riaccendeva e si rispegneva a seconda del vento. Allora, si fece buio; nell’aia, le persone parevano nere; e si vedevano soltanto quando attraversavano davanti.
In casa, Gegia e Dinda avevano acceso il lume ad olio alla Madonna; e pregavano. Anche Cecchina, per non parere che non gliene importasse niente, s’inginocchiò dietro a loro.
Gli uomini, benchè la notte fosse umida, sudavano: s’erano seduti tutti sul carro e su l’aratro; e aspettavano ad andare in casa benchè non ci fosse niente da fare. Moscino quasi si addormentava, appoggiato al fratello. Picciòlo disse:
— Questa è stata una disgrazia che il nostro padrone non meritava.
Tordo, che aveva voglia di chiacchierare per mostrarsi intelligente, rispose:
— La mucchia non avrà mica preso fuoco da sè!
Berto, con un ghigno cattivo, approvò:
— Lo dico anch’io!
Picciòlo, a cui non importava del loro parere, riprese:
— O dispetto o disgrazia, sono un migliaio di lire perdute.
Ma gli assalariati desideravano di non parlare, e Picciòlo disse a Luigia che singhiozzava:
— Padrona, bisogna rimettersi alla volontà di Dio.
Ella gli chiese:
— Sarà restato punto grano nel mezzo della mucchia?
Berto fu pronto a rispondere:
— È impossibile: se non abbrustolito, s’è cotto di certo. Domattina vedremo.
Remigio si mosse dalla parata e disse:
— Andate in casa.
Picciòlo rispose:
— Io, ormai, non prendo più sonno!
Remigio gli disse, con dolcezza:
— Non importa: andate a riposarvi.
— E lei non va?
— Andrò anche io.
Luigia gli disse:
— Non chiudo la porta.
Perchè lo lasciassero in pace, le promise:
— Ora vengo.
Ma restò su l’aia.
Dove non erano arrivate le vampate calde della fiamma, tutto restava fradicio di guazza. Non ci si vedeva più; con un’ombra così fitta, come se non esistesse più niente. Egli non sapeva che fare; e gli pareva che l’incendio della mucchia fosse già di un tempo lontano. Quando ricominciò a poter pensare, si faceva giorno; e, benchè nelle vallate fosse nebbia, un chiarore umido e fresco si allargava sempre di più sopra i campi. Il cielo impallidiva e pareva che l’aria lo lavasse; e le caligini, che prima erano grige, doventavano leggere e bianche. Allora, apparve la prima luce dell’alba; e tutte le cose ripresero colore: da prima sbiadite, ma poi con luccichii che abbagliavano.
Su l’aia egli vide il monte della cenere e della paglia nera. Perchè non era fuggito? Perchè non fuggiva prima di rivedere qualcuno? Ma, chi sa da dove, un gallo cantò: allora, sentì che cominciava un’altra giornata: ne sentì chiaramente, lo stacco e la differenza. Il gallo cantò un’altra volta; e Remigio quasi ebbe paura di non essere più in tempo a ricominciare la vita con tutti gli altri uomini.
Verso la mezzanotte. Chiocciolino era passato davanti alla Casuccia; con un branco di vitelli, che portava di Maremma per conto di un mercante. Briaco e mezzo stordito dal vino, vide la mucchia del grano; e l’ombra sua fino nella strada: allora, pensò di darle fuoco.
Lasciò andare avanti i vitelli; che, scalpicciando alzavano una strisciata di polvere splendente in mezzo alla luce della luna.
Nell’aia cavò la scatola dei fiammiferi, e ne accese uno; ma lo spense, soffiandoci. Stette lì almeno un quarto d’ora; poi accese un altro fiammifero e lo mise tra le manne: la paglia s’accese subito.
Egli saltò nella strada, e cominciò a picchiare bastonate ai vitelli; perchè andassero al trotto. Quando fu vicino a Siena, si volse a dietro; e vide giù, nelle incertezze dei campi, il fuoco.
A giorno fatto, Luigia disse a Remigio che avvertisse i carabinieri. La sera, andò alla Casuccia un brigadiere; che nè meno scese da cavallo; e, lisciandosi i baffi, chiese quanto tempo la mucchia aveva messo a bruciare. Poi, non sapendo quel che dire, mise a galoppo il cavallo: la serata limpida lo invogliava a correre.