Il patrizio e l'artista/II
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II.
La notte avvolgeva nelle tenebre silenti tutta la città. In una meschina stanzuccia di un pian terreno, al lume di una candela una donna stava intenta a lavorare. Il volto pallido ed affilato in cui eran dipinti i patimenti e gli stenti; bianchi i capelli che le contornavano le tempia, povere le vesti che la cuoprivano. In fondo alla stanza, fra l’ombre ei distingueva appena sopra il guanciale di un povero letticciuolo lo scarno volto di una giovinetta immersa in un profondo letargo. La donna a quando a quando vinta dalla spossatezza, abbassava il capo sul petto, le cadeva il lavoro di mano e restava un momento immobile: ma subito si riscuoteva, e volgendo il volto verso la malata sospirava sommessamente e, come facendo forza a sè stessa, ponevasi di nuovo a lavorare; ma di nuovo il sonno la sorprendeva; finalmente dopo un lungo contrasto tra il bisogno e la volontà, la stanchezza le vinse le forze, e s’addormentò.
Ma in breve la veniva a ridestare il rumore della porta che si apriva, e, come a lei, anche alla fanciulla veniva rotto il sonno. Era comparso sulla soglia il nostro artista, il quale avanzatosi, con il più grande abbattimento depose sopra una tavola, che era li presso, il suo quadro. — Oh Giacomo mio! — esclamò la madre, andandogli incontro piena d’affetto. Egli con voce che rivelava il massimo scoraggiamento: — Oh mamma, disse, io non ho potuto portarti nulla! Io sono un disgraziato; la mia arte non basta a sostentarvi! Ed ora, ora che sperava col tenue guadagno ricavato da questo mio lavoro, che avevo con tanto affetto, con tanta sollecitudine compilo, di potervi recare qualche sollievo, ora ho dovuto sottopormi al capriccio di un ricco, ho dovuto soffrire un rifiuto.... un avvilimento!... E nel dire queste parole, respingendo da sè la madre, non udendo la voce della sorella che a sè lo chiamava, uscì precipitoso nella strada!
Agitate dai più cupi pensieri, acceso da una specie d’esaltazione, sapendo che stava per mancare il pane alla sua sventurata famiglia, aveva presa inavvedutamente la direzione dell’Arno. Egli cammina a passo veloce, concitato: non vede nulla, non sente, non desidera più nulla; solo, ad un tratto s’arresta. Il cielo è coperto di nuvole, un silenzio profondo regna d’intorno. Egli fìssa gli occhi su quel volume d’acque gorgoglianti; un sinistro pensiero l’assale; ei l’accoglie, protende le braccia, e sta per slanciare il salto, quando la luna, squarciata una nuvoletta che la celava, riflette la sua pallida luce sulle acque. Quella luce improvvisa, mesta, soave, parve l’apparizione di una divinità che lo respingesse dall’empio attentato: si ritrasse inorridito, ed in folla gli sorsero in mente le immagini della sua povera ed infelice madre, della sua sorella, della sua fidanzata; pensò al loro dolore, pensò che poteva esser loro utile abbandonando un’arte che dopo la morte del padre suo ei non poteva più esercitare, e che facendo abnegazione di sè stesso ei poteva vivere ancora per il loro vantaggio. Pose una mano sul cuore a frenarne i violenti bàttiti, e facendo di sè magnanimo sacrifizio propose a sè stesso di potere con un sollecito e sicuro guadagno essere il sostegno della sua famiglia.
Camminò tutta la notte agitatissimo lungo l’Arno, e quando fu giorno si diresse alla volta del suo studio per dare un ultimo addio ai suoi lavori, e quindi partecipare alla famiglia la sua irrevocabile risoluzione. Ma la vista dei suoi quadri, delle sue opere incompiute, ridestò nella sua povera anima una nuova e tremenda battaglia tra l’amor dell’arte e l’amor filiale. Quel ch’ei patisse allora non si può descrivere: un sudore gelido gli bagnava la fronte, un sorriso d’amarezza gli sfiorava le labbra scolorite, dagli occhi innavvertite gli cadevano le lacrime, ed egli ancora non sapeva risolversi ed abbandonare tutte le illusioni, tutte le speranze, tutti i fantasmi di gloria che avevano abbellita la sua giovinezza!