Fabrizio. Credete a quel ch’io dico.
Io fui, quand’era in Napoli, di don Roberto amico;
E quando il lazzarone per strada a me si appressa.
Rinnovo nel vederlo la maraviglia istessa.
Più volte di tal cosa ho seco ragionato;
Dice che da altri ancora fu per error chiamato,
E che trecento volte il capitan creduto,
Quelli della milizia gli diero il benvenuto.
Trovandosi in bisogno mi confidò il briccone,
Che fingersi quell’altro avea la tentazione;
E che se gli riusciva trovar simili spoglie,
Volea di don Roberto deludere la moglie.
Cavaliere. Stolto! colla consorte passar per suo marito?
Fabrizio. Son più di sedici anni, ch’è il capitan partito.
Colle immagini impresse del volto, e la figura,
Scommetto che il marito lo crede a dirittura.
È ver che nella voce non ha gran somiglianza,
Ma questo può confondere del tempo la distanza.
Un che dal Nuovo Mondo credesi ritornato,
Il metal della voce può ancora aver cangiato;
Pronto sarei l’impresa a garantire anch’io.
Cavaliere. E ben, codesta favola che giova al caso mio?
Fabrizio. Emmi venuto in testa, per fare una finzione,
Vestir coll’uniforme codesto lazzarone.
Un abito ho trovato da un rigattier romano,
Colla divisa istessa che usava il capitano,
Con spada e con bastone all’uso militare,
Che meglio a don Roberto farallo assomigliare.
Ciò in pensar mi è venuto, dopo lo scoprimento
Che di donna Isabella fe’ noto il nascimento.
Lasciò la moglie incinta il capitan Roberto;
Ma nè lui, nè la sposa, non lo sapean di certo.
Dunque in faccia del mondo può dir, può sostenere...
Cavaliere. Il Duca mio germano parmi colà vedere:
Seco è il prence Fernando. Vien meco in altra parte.