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poco male; ma ricordatevi di pulire la gabbia, e di dare, tutte le mattine, cinque tarme al rosignolo, e, a mezzodì, un po’ di carne tritata, e che il suo cassettino sia sempre pieno di farina e formaggio; e l’acqua rinnovata».
Era un usignolo non di nido ma silvano, preso con le reti e donato a Beatus da un suo scolaro, campagnolo, in una di quelle grandi gabbie rusticane, fatte di cannucce, con la vôlta di tela verde. Era lungo, aristocratico, grigio perla nel ventre. Le zampine e il becco erano di una delicatezza quasi immateriale. Non era nè domestico, nè ribelle: accettava la sua prigionia e per quanto Beatus avesse cercato di farsi conoscere da lui, mai non fu riconosciuto. Passeggiava per la gabbia con signorilità, quasi sapesse che era inutile spiegare la virtù delle ali. Ma si elevava pei bacchetti, senza sforzo, come per virtù di calamita che attraesse il suo corpo leggero. Beatus gli rivolgea parole gentili, ma lui non torcea per vezzo la testolina ai richiami, ma tenea in avanti quel suo becco sottile con l’alterezza di una fronte.
«Ed è giusto — diceva Beatus — che non mi riconosca per nutrimento che io gli dia.»