Il mistero del poeta/XXXIII
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XXXIII.
Non cercai di veder Violet al suo arrivo. Dal momento in cui mi scrisse «cedo» mai mai cosa alcuna mi fu più dolce che obbedire a un desiderio dell’amica mia, contrario al mio egoismo, ai desiderî miei. Io spero avere così amata una tale creatura, avere così usato un tal dono di Dio il meno indegnamente possibile. Solo mi permisi di andare verso le sei della mattina, allo sbarco del vaporetto che corre continuamente fra Bingen e Rüdesheim, essendo sicuro, per la lettera di Violet, ch’ella non sarebbe arrivata così per tempo. Mi trattenni colà un’ora a godere profondamente, ma tranquillamente, il momento futuro in cui sarebbe passata lei e io avrei dovuto starmene lontano. Ascoltando i mormorii della corrente veloce che spumava e luccicava sulle catene tese delle barche, non potevo fare a meno di pensare che forse anche il mio prossimo tempo felice passerebbe velocemente. A quest’idea non potevo reggere, la cacciavo da me con orrore.
Passai gran parte della giornata nei boschi del Niederwald, parlando alle piante e alle ombre, cercando e trovando con gran commozione il bianco Waldmeister del Bahnhofswald d’Eichstätt, declamando come un ebbro, per le verdi solitudini, i versi di quel giorno:
Bevo e mi veggo sorgere dentro al pensier profondo |
Alle cinque precise entravo nel villino Steele, Il domestico annunciò il mio nome in un salotto terreno dalle finestre gotiche, cui le invetriate a piccoli ottagoni, dipinte, davano ben poca luce. Per un momento, venendo dal sole, non vidi nulla. La voce di Violet disse «buona sera» e distinsi lei che mi veniva incontro porgendomi la mano. Accennò tosto coll’altra mano a una seconda ombra che si avvicinava. «La signora Steele» diss’ella. Si sentiva vibrar nella sua voce una repressa gioja, ma ella era tuttavia perfettamente signora di sè, aveva l’usata grazia disinvolta. La signora Steele mi diede il benvenuto molto cordialmente, mi strinse forte la mano e mi presentò ad alcune altre ombre femminine e mascoline, pronunciando il mio nome con una sicurezza che mi fece piacere come se vi sentissi un poco dell’amore di Violet che doveva avermi nominato a lei ben di sovente. Ella condusse, o per meglio dire, lasciò cadere la conversazione in modo che in breve tempo i suoi visitatori, uno ad uno, se n’andarono. Quando uscì l’ultimo il cuore mi batteva da spezzarsi.
— Se permette — mi disse la signora — vado ad avvertire mio marito.
Rimasto solo con Violet, me le accostai rapidamente. Ella si alzò in piedi, mi piegò, abbracciandomi, la testa sul petto. Nè lei, nè io potemmo proferire parola. Non avevamo più senso del mondo esteriore e neppur coscienza di esistere divisi.
Fu lei la prima che alzando il viso e gli occhi velati, smarriti in una felicità intensa, disse sotto voce:
— Mi ami?
Presi il caro viso fra le mani, lo trassi a me senza rispondere, posai le labbra sulle sue labbra, mi si oscurarono gli occhi, mi parve aspirar tutta l’aria, tutta la luce, tutta la vita del mondo. Udimmo in quel momento le voci dei signori Steele, ed avemmo appena il tempo di separarci. Quanto a me non potevo ancora parlare. Per fortuna gli amici di Violet intesero e parlarono sempre loro. Sulle prime non capii affatto ciò che dicevano; palpitavo ancora nella tempestosa gioja del momento appena trascorso, avevo i sensi troppo pieni di lei. Poco a poco intesi che mi consideravano una vecchia conoscenza, che sapevano già tanto di me e della famiglia. Avevano udito per la prima volta il mio nome non da miss Yves ma da una signora di Kreuznach, che aveva tenuto con me una corrispondenza letteraria. Mentre la signora Steele mi raccontava questo, Violet si ritirò.
— Un mese fa — disse allora ridendo il signor Steele, che mostrava non più di quarant’anni — non mi sarei certo immaginato d’avere così presto una figlia fidanzata.
Si entrò così nell’argomento. Dopo avermi fatto i maggiori elogi di Violet e avermi parlato di suo padre, ch’era stato forse il più caro e intimo amico della famiglia Steele, il signore e la signora mi dissero che tenevano da miss Yves l’incarico di raccontarmi cosa fosse accaduto a Norimberga dopo ch’ella vi era ritornata da Eichstätt. Ma Violet ricomparve prima che il racconto fosse incominciato, e il signor Steele rise molto della sua fretta.
La signora ci propose di uscire nel giardino, cui lei e suo marito desideravano, dopo la lunga assenza, dare un’occhiata. Presto mi trovai solo con Violet ed ella si lasciò cadere sopra un sedile rustico, pallida, con una espressione cupa negli occhi. Mi spaventai.
— No, no — diss’ella — sono troppo felice.
Sedetti accanto a lei. Ci guardavamo in silenzio, e certo il mio viso esprimeva una segreta angustia, perchè Violet mi stese la mano e la sua fisionomia irrigidita mutò improvvisamente, si ricompose in un sorriso dolcissimo.
— Ho paura di perderti — mormorò, e mi strinse la mano con un vigore di cui non l’avrei creduta capace; l’espressione cupa di prima le ricomparve in viso per un istante.
— Violet — susurrai. — Sposa mia.
I suoi occhi si velarono, la sua dolce voce mi disse con timida passione:
— Per sempre?
— Per sempre, per sempre. — Il mio cuore, mentre scrivo, risponde ancora così.
Non parlammo più. L’odor fresco del verde, il brillar del puro sereno, la nostra felicità, eran così dolci a godere in silenzio! Solo quando vide ritornare gli Steele, Violet mi disse:
— Domattina venga alle undici; mi troverà qui.
— Venga? — diss’io — mi troverà?
— Vieni — rispose Violet sorridendo — mi troverai. Ma per noi soli, finora; quando ci saranno altri, dirò ancora Lei. Domani — soggiunse piano e timidamente — spero avere da te...
Non osò compiere la frase e intanto sopraggiunsero gli Steele. Pigliai presto congedo; il signor Steele mi accompagnò a casa.
Egli potè allora finalmente raccontarmi la crisi di Norimberga. Al suo ritorno da Eichstätt miss Yves vi era stata accolta dagli zii con la freddezza la più accigliata. Costoro avevano ricevuto dal professor Topler un biglietto, in cui egli, riconoscendo di non poter rendere felice la signorina, si scioglieva da ogni impegno. I compagni di Violet, Luise von Dobra e suo padre, erano stati immediatamente sottoposti a un interrogatorio, riuscito alquanto burrascoso perchè Luise aveva arditamente difesa la amica sua e perorata la mia causa. Gli Yves non avevano poi parlato alla nipote per sei giorni, durante i quali non si sapeva se avessero chieste altre informazioni o scritto a Topler o che diavolo avessero fatto. Finalmente, una mattina, avevano espressa a Violet, in forma solenne, la loro disapprovazione, ed ella non era riuscita a persuaderli di non avere colpa alcuna, di essersi mantenuta sempre fedele, per parte sua, all’impegno preso col professor Topler, benchè avesse detto ben chiaro fin da principio che non lo amava. Gli zii le dichiararono che la famiglia Yves aveva già troppo sofferto per l’infelice, mal consigliato matrimonio di uno de’ suoi membri con una persona straniera e cattolica, perchè essi potessero consentir mai che il fatto si rinnovasse. Rispondendo lei che non era affatto risoluta di prender marito, gli zii le imposero di promettere formalmente che mai non avrebbe sposato l’italiano. Violet respinse una simile proposta. Coloro insistettero e le accordarono otto giorni per decidersi, aggiungendo che se non promettesse non potrebbe continuare a vivere sotto il loro tetto. La Provvidenza aveva voluto che gli Steele capitassero a Norimberga, di ritorno da un viaggio in Sassonia, proprio in quei giorni. La loro amica soffriva crudelmente. Sentiva, da un lato, quanta gratitudine dovesse ai suoi parenti; dall’altro lato le riusciva impossibile di subire una simile pressione. Gli Steele s’interposero, ma senza frutto. Allora miss Yves si decise e accettò l’ospitalità loro per un tempo breve, non conoscendo ancora le mie idee circa l’epoca del matrimonio e dovendo forse recarsi prima in Inghilterra presso una vecchia cugina che le aveva sempre mostrato benevolenza.
Il signor Steele non dubitava che sarebbe rimasta a Rüdesheim fino al matrimonio. Gli dissi allora che per parte mia intendevo di affrettarlo il più possibile, e che ne avrei parlato a Violet l’indomani.