Il mistero del poeta/VI
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VI.
Avevo la febbre dell’impazienza; alle quattro e mezzo fui al posto del convegno. Sapevo che Mrs. Yves sarebbe venuta sola, perchè il marito aveva passato una cattiva notte ed era rimasto a letto. Venne infatti sola, qualche eterno minuto dopo le cinque. Aveva un elegante costume celeste, con pizzi neri al collo e al seno, collana e pendenti di monetine romane d’oro. Il collo non m’era parso mai tanto puro di forma e di candore, il viso tanto delicato. Teneva in mano il volume di Leopardi. Credetti doverle chieder subito di suo marito. Arrossì ancora e mi rispose tanto sotto voce che non l’intesi.
Voleva sapere se la Luisa della mia novella fosse una persona reale. Le risposi che non era, ma che aveva molte linee e colori di persone vere. Non capiva questo metodo: le pareva che dovesse necessariamente uscirne una creazione senza individualità, vaga e falsa nell’insieme. Si acquietò alla mia ragione che anche in natura è così, che ciascuno di noi somiglia per qualche linea o per qualche colore ad alquanti altri; e che il fonder bene queste linee e questi colori è appunto il più delicato e difficile lavoro dell’artista. Bisogna con le note comuni comporre un accordo che abbia varie dissonanze e un suono suo proprio.
— È vero — diss’ella. — Non ci avevo pensato. Ma crede Lei che si possa veramente trovare una Luisa? Che ci sia qualcuno davvero incapace d’amare due volte?
— Sì signora.
— Io no. Ho cento volte meno fede di Lei nell’ideale, io.
La sua voce era così sommessa! Pensai sentirvi un’amarezza tanto profonda che ne rimasi muto, accorato. Ma ruppi subito il silenzio, affrontai per istinto l’argomento dove sentivo un’ombra e un pericolo. Dissi che vi è, sì, una sublime poesia nella creatura mite, umile, di fantasia scarsa e di cuore profondo, che ama una volta sola; ma che vi hanno pur nature nobili, tanto impetuose di cuore che facilmente si feriscono nel loro slancio, perdono, per così dire, i sensi dell’amore e della fede, giacciono come morte, come aquile stordite dal fulmine; ma poi si muovono, si alzano, si slanciano ancora. Sono nature ricche di energia vitale, forti di volontà, alate di fantasia, che amerebbero una volta sola se s’incontrassero; nature attive e potenti che amano come il cielo ama la terra nelle tempeste di primavera, sciogliendo in un’altra anima ogni intimo gelo, traendone tutto ch’è vita, ch’è verde e fiore.
Mrs. Yves mi guardò senza rispondere. Non sono io un morto che parla, non posso dire il vero senza rispetti umani? Bevvi nel suo lungo sguardo un’ammirazione inebbriante. Solo per questo rispetto della vanità fui sempre, amica mia, poeta vero; prima di amare come amo adesso dubitavo del paradiso, non sapendo come vi si potesse avere ammirazione o esser felici senza di essa. Mi parve che il lungo sguardo dicesse pure: è proprio così? Lo ha provato Lei? La signora non proferì parola e aperse il volume di Leopardi.
— Volevo anche domandarle qualche cosa di Leopardi — disse, sfogliandolo. — Amo tanto Leopardi, io. E lei, ama più Leopardi o Manzoni?
— Leopardi.
— Oh, anche Lei. Come ne sono contenta! Non è vero ch’è più grande?
— No, è assai meno grande, ma lo amo di più.
— Oh, — diss’ella chiudendo il libro, — non capisco questo. Mi spieghi.
Le spiegai il mio sentimento.
— Scusi — mi disse poi senza pronunciarsi. — Lei che parlava di nature nobili, vuol dirmi cosa pensa di questi versi?
Cercò nel volume la Ginestra, e mi fece leggere i versi che incominciano:
Nobil natura è quella |
— Penso — risposi — che abbraccerei Leopardi e piangerei con lui, e gli direi: che poeta sei e che cieco! Questa nobil natura che si contrappone così grande e forte alla madre maligna degli uomini, chi te l’ha infusa? La stessa madre maligna? No. Te la sei creata tu? No, no. Ma bisogna dunque che tu abbia un padre benigno; e questo fonte di bene, chi è? Sai perchè ti ha fatto un tal dono! Sai cosa ti domanda, cosa ti prepara? Tutta la tua nera filosofia cade.
— Come dev’esser felice, Lei, — disse Mrs. Yves — di pensare così. Io non posso. Io non credo che sia un bene neppur la natura nobile. E poi non credo nella stabilità di alcun sentimento umano. Mi hanno detto di Leopardi ch’ebbe anche lui paura di morire.
Le osservai, un po’ tristemente, che non sapevo come le potessero piacere, con queste idee, i miei versi.
— Oh sì — diss’ella — tanto mi piacciono. Amo di poter sognare che ha ragione Lei, che vi sono veramente degli esseri, dei sentimenti come quelli che immagina Lei. Vorrei almeno essere sicura che Lei ci crede. E vorrei anche persuadermi che gli uomini non sono tanto piccini, miseri come mi paiono, e che questa vita vale qualche cosa, vale la pena di essere continuata, in questo o in un altro mondo.
Io pendevo dalle sue labbra, avido di penetrare il segreto del suo cuore. Credetti d’intravvedere un passato d’impetuoso amore e di dolor mortale, un presente di ghiaccio e di silenzio, ma con i primi manifesti segni della seconda vita. Quand’ebbe finito di parlare la guardai muto, non come un amante, bensì come un medico indagatore e dubbioso. Arrossì lievemente e mi disse:
— Cosa pensa di me?
— Ch’è ammalata e che non deve leggere Leopardi.
Sorrise e rispose:
— Lei sarebbe un medico severo. Vede che non leggo mica solamente Leopardi; leggo anche libri di buona fama e timorati come i Suoi.
Replicai che importava poco pigliasse il veleno col vino o col brodo o col caffè. Le parlai quindi del mio culto appassionato d’una volta per Leopardi, delle mie malinconie morbose d’allora, del sepolcro che m’ero scelto. La signora mi ascoltava con attenzione intensa; ebbi l’idea che mi studiasse, com’io poco prima avevo studiato lei. Volle guardar la mia rupe col cannocchiale che io le disposi. Nel porre l’occhio alla lente perdette la buona direzione; la cercammo insieme, le nostre mani si sfiorarono, Mrs. Yves non ritirò subito la sua; me ne corse in tutta la persona un brivido delizioso.
— Io non potrei salire sul Suo sepolcro — diss’ella sorridendo.
Fui sul punto di domandarle se, quando fossi morto, vorrebbe portarmi un fiore. Ero troppo agitato; non lo seppi dire. Mrs. Yves mi domandò se mi piacerebbe ancora di esser sepolto lassù, risposi che in quel momento non lo sapevo io stesso. Aspettavo che mi chiedesse spiegazione di quanto le avevo detto sulla sua voce, ma questa domanda non veniva mai. Mi chiese invece se avessi composto dei versi sullo scoglio del sepolcro e, udito che no, se ne mostrò sorpresa; mi disse che dovevo comporne. Glielo promisi sull’atto. Nè l’uno nè l’altro lo disse, ma intendemmo bene ambedue che dovevano essere per lei. Solo dopo qualche momento di silenzio ella susurrò:
— Amerei avere una memoria di questi luoghi.
Una subita angoscia mi strinse il cuore. Domandai a Mrs. Yves se intendesse partire presto.
— Sì — mi rispose con un soave accento dolente — credo che partiremo appena sarà possibile. Non siamo contenti dell’aria.
La commozione mi tolse di parlare. Non m’era mai venuta questa idea tanto ovvia, che gli Yves potevano partire; mi pareva che tutto dovesse continuar sempre così.
Credetti che si avvedesse dell’effetto delle sue parole e che cercasse mitigarlo chiedendomi finalmente, in tono sommesso, dove avessi udita la sua voce. Questa domanda così semplice mi recò infatti, in quel momento, dolcezza infinita.
— In sogno — risposi.
Ella impallidì e non disse parola. Riaperse Leopardi, ma non credo che leggesse. Ci fu un lungo silenzio.
Ripresi palpitando:
— Ho sognato la Sua voce due volte; la prima molti anni sono, la seconda son pochi mesi. Stavo tanto male in quei sogni, ero tanto misero, e la Sua voce era la vita e la speranza. Mi sono trovato male, molto male, per colpa mia, anche fuori dei sogni, e ho sempre avuto una fede così grande che incontrerei la voce viva, la persona vera!
Alcune signore venivano alla nostra volta. Dovetti accostare il mio viso a quello di Mrs. Yves, finger di leggere nel suo libro per udir il susurro della sua risposta.
— Non ne ho neanche per me. Nè vita nè speranza.
Le altre signore sedettero presso a noi. Era impossibile di parlare ancora; forse eravamo anche troppo agitati ambedue per poter parlare. Le mani di lei tremavano, il seno e le spalle salivano e scendevano.
Ed io? Non so che aspetto avessi; avevo certo un tumulto nel cuore e una nebbia sugli occhi.
Vennero ad avvertire Mrs. Yves che il signore desiderava vederla prima del pranzo. Attese un poco e poi si alzò. L’accompagnai in silenzio sino all’entrata dell’albergo.
— Le vorrei dire una cosa — mi susurrò prima di lasciarmi — ma non credo che avrò il coraggio.
— Perchè? — esclamai ansioso.
Non mi disse questo perchè; mi salutò con una grazia squisita e gli occhi suoi salirono un momento alla mia fronte. Parecchie altre volte, in quei tre giorni, ella mi aveva guardata la fronte. Perchè? Ciò mi piaceva e mi turbava insieme: era come se preferisse me a me stesso. È possibile questo? Non lo so; sentivo così.