Il mio diario di guerra/I/In trincea coi soldati d'Italia

In trincea coi soldati d’Italia

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I I - Tra il Monte Nero, il Vrsig e lo Jaworcek

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In trincea coi soldati d’Italia



9 Settembre.


Da stamani circola la notizia della nostra prossima, quasi immediata partenza per la linea del fuoco. Dove andiamo? Nessuno lo sa dire con esattezza. Non importa. L’essenziale è di muoversi. Il pensiero di passare alcuni mesi in guarnigione mi sgomentava. La notizia della partenza si è diffusa tra i plotoni, ma non ha sollevato una grande emozione. È tempo di guerra: si va alla guerra. È naturale! D’altra parte lo stato d’animo di questi richiamati dell’84 non è negativo. Uomini di trent’anni comprendono certe necessità. Vi sono molti interventisti anche all’infuori dei milanesi: ne ho conosciuto un altro, un caporale di Crespino, in quel di Rovigo. Gli elementi di lievito non mancano. Una grata sorpresa mi attende. Ricevo un biglietto che dice: «L’ex-linotipista dell’Avanti, Adolfo Giretto, ora residente a Rovigo, per mezzo dell’amico Battaglini, le manda i saluti più affettuosi, ricordandolo». Un caporale milanese che era stato destinato al deposito, se n’è tornato con zaino e fucile in compagnia per andare insieme con tutti noi al fronte. Bel gesto! Il caporale [p. 14 modifica] si chiama Mario Morani. Giornata melanconica. Prima pioggia autunnale. Sottile, silenziosa, insistente.


11 Settembre.


Stamani, insieme con altri dodici soldati, sono stato comandato di guardia al Tribunale di Guerra del 3o Corpo d’Armata. Ho assistito — come sentinella d’onore — allo svolgimento di due processi poco importanti. Primo. Un territoriale di 39 anni, imputato di abbandono di posto. Faceva il mugnaio. Un povero diavolo che è livido di paura. Il P. M. chiede un anno di reclusione, ma il Tribunale assolve. Secondo processo: quattro imputati di un furto di scarpe. È una storia complicata e noiosa. Il Tribunale condanna. Credevo, in verità, che la Giustizia Militare fosse più sbrigativa, sommaria. È invece minuziosa, analitica. Mi è apparsa più incline all’indulgenza di quella civile, per effetto, forse, di quella specie di imponderabile solidarietà professionale che si stabilisce fra uomini d’arme.

12 Settembre.


Siamo stati richiamati il 31 agosto e la nostra vita di guarnigione è già finita. Si annuncia in forma ufficiale che partiremo domattina alle 7. Si [p. 15 modifica] annuncia anche, che verso mezzogiorno il colonnello ci passerà in rivista e ci terrà una «morale». Sono le undici quando la tromba alla porta suona l’attenti: è il colonnello che entra in caserma. Usciamo nel cortile, armati senza zaino. Formiamo una specie di quadrato. Suona un’altra volta l'attenti. Il tenente colonnello parla. Discorso terra terra. Bisogna trovare altri accenti quando si è dinanzi a uomini di trenta e più anni. Bisogna considerare i soldati come uomini, non come matricole. Pei graduati c’è un supplemento di morale, fatto dal tenente Izzo. Io che sono soldato semplice, me ne vado fuori.


13 Settembre.


Ore due: sveglia e in rango. C’è da ricevere la cinquina, un paio di scarpe di fatica, una coperta da campo e una scatoletta di carne da consumare durante il viaggio. Quest’operazione dura un paio d’ore. I bersaglieri si pigiano dinanzi alla fureria. Chi fa tutto, dentro, è il sergente Fogli, ferrarese. Grida, lavora e suda come un facchino. È l’alba!

— Zaino in spalla! —

In marcia verso la stazione. Il treno è pronto, ma si parte con un lieve ritardo. Siamo 351, compresi i tre ufficiali — un tenente e due sottotenenti — che ci accompagnano. Occupiamo i vagoni. Nell’attesa, una donna, completamente vestita di nero, taglia i gruppi delle persone raccolte attorno al [p. 16 modifica] treno e si getta fra le braccia del marito che parte. Il marito, col ciglio asciutto, si divincola dolcemente dalla stretta affettuosa e incuora la donna che si allontana — adagio — con le mani sulla faccia, per nascondere le lacrime. E’ l’unico episodio patetico della partenza. Il nostro vagone è adornato di rami. Una prima scossa. Un fischio breve. Ecco: il treno va. Addio! Addio! Un agitare convulso di mani fuori dai finestrini e un gridare tumultuoso: Addio! Addio! Poi canti a voce spiegata. I mei amici gridano: Viva l’Italia! Attraversiamo la campagna bresciana. Vaste distese di verde che impallidisce sotto il sole autunnale. Lago di Garda. Non l’ho mai visto così bello! Peschiera. Cittadella grigia. Mi ricorda un anno di vita militare. Addio, vaga penisola di Sirmione incantevole! Siamo alle campagne veronesi, melanconiche, sassose. Fa caldo. Sosta a Verona. Sosta più lunga a Vicenza. A Treviso grande movimento di soldati. Un treno di feriti. Altri vagoni pieni di soldati di fanteria si accodano al nostro treno, che diventa lunghissimo e deve rallentare la marcia. Stazioni: Conegliano, Pordenone, Sacile.

Crepuscolo serale. Nel cielo che incupisce volteggia un Farman. A Casarsa lunga tappa. Si aggiungono al nostro treno vagoni di artiglieri. Un vagone scoperto porta un cannone di proporzioni spettacolose. E’ tutto circondato di fronde verdi. Uno dei serventi agita una grande bandiera tricolore. Entusiasmo generale. Saluti fra i soldati delle varie armi. Udine — quando vi giungiamo alle [p. 17 modifica] 19 — è buia. Interminabili treni per i rifornimenti sono immobili lungo chilometri e chilometri di binari. Quale somma enorme di sforzi richiede il rifornimento e vettovagliamento di un esercito che combatte! Cividale. E’ notte alta e non vedo nulla. Ci rechiamo agli accantonamenti. Càpito coi miei amici nel solaio di un contadino. Sonno profondo.


14 Settembre.


Sveglia alle cinque. Sento che le mie ossa sono un po’ ammaccate. Un’ora di marcia, con uno zaino che pesa trenta chili, mi rimetterà in forma. Siamo nel cortile dell’accantonamento e attendiamo l’ordine di partire per Caporetto. Un bambino attraversa la strada gridando:

— Un aeroplano! Un aeroplano! —

C'è infatti un velivolo austriaco, altissimo. Immediatamente entrano in azione le batterie antiaeree. Si ode distintamente il loro crepitìo. Le nuvolette verdognole degli shrapnels punteggiano l’orizzonte.

Ma il velivolo nemico, che si è tenuto sempre a una quota altissima, torna indietro.

Cividale: città simpatica. D’interessante: il monumento ad Adelaide Ristori. Qui più ancora che a Udine si ha l’impressione della guerra vicina. File interminabili di camions automobili e di carri d’ogni specie vanno e vengono incessantemente.

Scrivo queste linee nel cortile di una fattoria, durante un alt. [p. 18 modifica]Qualcuno dei miei compagni dorme. Qualcun altro scrive. Sotto un pergolato si gioca alla morra. Giunge da lontano il rombo del cannone. Io amo questa vita di movimento, ricca di umili e di grandi cose.


15 Settembre.


Tappa a San Pietro al Natisone. Primo dei sette Comuni in cui si parla il dialetto sloveno. Incomprensibile per me.

Il tenente Izzo ci ha invitati ieri sera a bere un bicchiere di congedo con lui. Egli ci accompagna sino alla linea del fuoco, poi ritornerà a Brescia, per entrare come osservatore nel corpo aviatori. Riunione fraterna, simpatica. Son con me Buscema, Morani, Tafuri, Bocconi. Stamani, sveglia alle sei. In marcia! Sole cocente. Il polverone sollevato continuamente dai camions e dalle colonne delle salmerie ci acceca.

Ecco Stupizza, l’ultimo paese italiano prima della guerra. Troviamo della birra eccellente a un prezzo discreto.

Di lì a poco giungiamo alla linea del vecchio confine. A lato della strada c’è una casa e un posto di guardia. Le insegne austriache sono scomparse.

Momento d’emozione per me che mi ricordo di essere stato nell’ottobre del 1909 sfrattato da «tutti i paesi e regni dell’Impero austriaco».

Il tenente grida:

— Viva l’Italia! — [p. 19 modifica]

Io che mi trovo in testa alla colonna ripeto il grido, ed ecco quattrocento voci gridare in coro:

— Viva l’Italia! —

Giungiamo dopo una marcia faticosa a Robich, primo villaggio ex austriaco. A Robich, tappa di alcune ore. Ci precipitiamo nell’unica osteria. Noto un bambino di sei o sette anni che si afferra al braccio di una pompa e ci serve di acqua. Gli domando:

— Come ti chiami?

— Stanko.

— E poi? —

Il bambino non capisce e non risponde. Lo domando a una ragazza che attraversa il cortile.

— Si chiama Robancich. —

Nome prettamente slavo.

Nel prato, poco lungi, un caporale, il milanese Bascialla, fa circolo. Ha ritagliata e l’ha conservata nel portafoglio una cartina della zona di guerra. Col dito teso, egli indica il famoso e misterioso Monte Nero.

Iscrizione trovata, due chilometri prima di Caporetto, su di una cappella votiva al ciglio della strada:

Nikdar Noben se ni Bil zapuscen

Kiv vartvo Marjis Bil izzogen.

Caporetto. Non ho visto che un campanile bianco con una guglia grigio-verde, sottile. Una moltitudine di soldati si affolla attorno a noi per cercare i compaesani. Ci accampiamo poco lungi dall’Isonzo, sulla nuda terra. Miei compagni di [p. 20 modifica] tenda: caporale Buscema, caporale Tafuri, caporal maggiore Bocconi. Nella notte romba il cannone, verso Gorizia. Nell’accampamento — vigilato dalle sentinelle — silenzio alto. Si sente la guerra.


16 Settembre.


Mattinata fredda. Sull’Isonzo è un velo di nebbia. La notizia del mio arrivo a Caporetto si è diffusa. Discorsi e impressioni. Due soldati d’artiglieria. Accidenti! A sentirli, il nostro esercito è quasi interamente distrutto; l’Inghilterra dorme; la Francia è spezzata; la Russia finita.

Discorsi odiosi e imbecilli che io ho sentito ripetere tante volte. I due compari — che non sono mai stati al fuoco — la piantano in tempo giusto per evitare una energica cazzottatura. Ma ecco tre bolognesi. Il loro morale è infinitamente migliore.

Durante la distribuzione del rancio, un capitano medico mi cerca tra le file.

— Voglio stringer la mano al Direttore del Popolo d’Italia. —

Pomeriggio di chiacchiere. Episodi di guerra. Esaltazione unanime degli alpini. L’Isonzo! Non ho mai visto acque più cerulee di quelle dell’Isonzo. Strano! Mi sono chinato sull’acqua fredda e ne ho bevuto un sorso con devozione. Fiume sacro! [p. 21 modifica]

17 Settembre.


Partenza. Andiamo aggregati non più al 12° bersaglieri, ma all’11°, che si trova sulla catena del Monte Nero. Un sottotenente medico rodigino che sta al comando di tappa, vuole conoscermi e salutarmi. Mi offre una eccellente tazza di caffè. Siamo in rango. Il tenente Izzo ci fa alcune raccomandazioni. Ci dice che a un certo punto della strada saremo a tiro del cannone nemico.

— Guai ai ritardatari! —

Il battaglione non sembra affatto preoccuparsi.

— Classe di ferro, l’84! —

Il «morale» è ancora più elevato. I discorsi stupidi che erano rari prima, non si odono più. C’è dell’allegria. Un artigliere di Corticella, tale Mengoni, mi accompagna per un tratto di strada.

Attraversiamo gli attendamenti delle salmerie e degli alpini. L’artigliere bolognese di quando in (filando mi precede per annunciare a gruppi di suoi amici il mio passaggio. Molti mi salutano con simpatia. Auguri! Valichiamo l’Isonzo. A Magozo — piccolo paese sloveno, dove non sono rimaste che due vecchie, le quali si nutrono col rancio dei soldati — incontriamo una colonna di prigionieri. Li circondiamo. Sono 46. Un intero plotone, con un cadetto e un sott'ufficiale. Il loro equipaggiamento è buono. Siedono su due file per terra. Molti fumano. Hanno, specie gli anziani, l’aria soddisfatta. Ma il cadetto, che sta dietro agli altri, è nervoso. Si morde le labbra. Trattiene a stento le lacrime. Il caporale Tafuri gli dice: [p. 22 modifica]— Non temete, in Italia sarete trattato bene.

Glauben Sie? — interroga dubitoso il cadetto.

E’ giovane. Non arriva ai vent’anni.

Un bersagliere di scorta mi racconta come furono catturati. Di fronte alle posizioni del 33° batt. dell’11° bersaglieri c’era una trincea dall’aspetto formidabile. La notte scorsa è stata ordinata l’avanzata. Una squadra di bersaglieri si è spinta inosservata fin sotto i reticolati e ha fatto brillare un tubo di gelatina, seguito da un assalto irrompente alla baionetta. Gli austriaci non se l’aspettavano, non sono riusciti a sparare che qualche fucilata. Hanno levate le braccia. Si sono arresi.

Bono taliano, rispettare prigioniero!

Riprendiamo la nostra marcia. Dobbiamo raggiungere la quota 1270. Siamo sulla mulattiera che va al Monte Nero. Incontriamo dei feriti. Alcuni leggeri che fumano e sorridono. Altri più gravi. Uno di essi ha il volto coperto da un giornale. Sotto si vede la faccia tumefatta e insanguinata. Due feriti austriaci. Uno leggero. Un altro più grave: deve aver le braccia spezzate. Sono diretti all’infermeria — sezione della Sanità — di Magoso.

Colonne lunghissime di salmerie. Senza i muli non sarebbe possibile le guerra in montagna. I più stanchi di noi caricano gli zaini sui muli.

Verso sera giungiamo nella zona battuta dall’artiglieria austriaca. Fischiano nell’aria — col loro sibilo caratteristico — le granate. Sono formidabili.

Qualche bersagliere è un po’ emozionato. [p. 23 modifica]Io che marcio in fondo alla colonna, incoraggio coloro che mi stanno vicini.

Passata la prima e comprensibile emozione, la marcia faticosa con zaino completamente affardellato riprende, sotto il fuoco abbastanza accelerato dell’artiglieria nemica. Una granata scoppia vicino a una colonna di muli, ma non fa vittime. Un’altra cade e scoppia in prossimità di un gruppo di bersaglieri e solleva un turbine di schegge.

Un bersagliere grida che è ferito. Ha avuto la clavicola frantumata. Un’altra granata scoppia accanto a un altro gruppo nel quale mi trovo io. Spezza diversi grossi rami di un albero. Siamo coperti di foglia e terriccio. Nessun ferito. Gli austriaci tirano a caso. Imbruna quando giungiamo al comando. Siamo attesi da un maresciallo. Siamo da dodici ore in marcia. Nessuno è rimasto indietro. E si tratta di soldati dei distretti di Cremona, Rovigo, Ferrara, Mantova, nati e vissuti nelle più basse pianure d’Italia. Vecchia e sempre giovane stirpe italica! Un bersagliere mantovano mi avvicina e mi dice:

— Signor Mussolini, giacché abbiamo visto che lei ha molto 'spirito (coraggio) e ci ha guidati nella marcia sotto le granate, noi desideriamo di essere comandati da lei... —

Sancta simplicitas!

Ci contano e ci dividono nei tre battaglioni dell’11° bersaglieri.

E’ l’ora della separazione. Il tenente Izzo, che torna a Brescia insieme con l’ottimo caporale Biagio Biagi di Cento, ci saluta. Noi, assegnati al [p. 24 modifica] 33° battaglione, riprendiamo la marcia in fila indiana. Sono le dieci. Sotto a un costone fumano le marmitte delle cucine. Ci preparano il rancio. Un po’ scarso, ma eccellente. Pasta, brodo, un pezzo di carne. Ma molti assetati chiedono invano dell’acqua. Ci stendiamo fra i macigni, all’aria aperta. Non fa freddo. Notte stellata, plenilunare.

Silenzio. Spettacolo fantastico. Siamo in alto! Siamo in alto! Già battezzati dal fuoco dei cannoni. Così si chiude la prima giornata di guerra!


Sabato, 18 Settembre.


Stamani ci hanno diviso nelle tre compagnie del battaglione. L’operazione è stata lunga. Alcuni caporali e sergenti ci hanno fatto passare il tempo, raccontandoci episodi gloriosi dell’11° bersaglieri durante i primi mesi di guerra.

Sono assegnato all’8ª. Sono con me Buscema, Morani, Tafuri. Verso sera ci muoviamo per raggiungere la nostra posizione. Invece di andare per la mulattiera, diamo la scalata — quasi verticale — al costone. Dobbiamo giungere a quota 1870. Una discreta altitudine, come si vede. L’ascensione ci abbrevia di almeno tre ore il cammino, ma è faticosa, tanto più che non abbiamo il bastone da montagna e portiamo lo zaino. Gli uomini dei «posti di collegamento» ci hanno guidato. Nessuno è rimasto indietro, ma siamo giunti a notte inoltrata. Prima di giungere alla meta, passiamo accanto a fosse di soldati italiani. Quattro o [p. 25 modifica]cinque. Mi sono chinato su una rozza croce di legno e ho letto.

Oscar De Lucia, sergente

morto il 13 settembre 1915.

Le altre croci non recano nomi. Sono fosse collettive.

Poveri morti, sepolti in queste impervie e solitarie giogaie! Io porto nel mio cuore la vostra memoria!

Ci siamo accovacciati fra i sassi, sotto le stelle.

Un ufficiale è passato fra noi e ci ha ordinato di caricare i fucili e di innastare le baionette. Nessuno, per nessun motivo, deve abbandonare il proprio posto!

Alle dieci è incominciata l’azione. Ecco il pam secco e fragoroso dei fucili italiani. I fucili austriaci affrettano il loro ta-pum. Le «motociclette della morte» incominciano a galoppare. Il loro ta-ta-ta-ta ha una velocità fantastica. Seicento colpi al minuto. Le bombe a mano lacerano l’aria. Dopo mezzanotte il fuoco è di una intensità infernale. Razzi luminosi solcano ininterrottamente il cielo, mentre si spara disperatamente su tutta la linea Raffiche di pallottole scrosciano sulle nostre teste.

— A terra! A terra! — si grida.

Ma io debbo alzarmi per cedere il mio posto a un ferito che ha le braccia massacrate dallo scoppio di una bomba. Mi chiede con voce lamentosa dell’acqua, ma il soldato portaferiti mi prega di non dargliene. Copro il ferito con la mia coperta di lana. Fa freddo. Dopo mezzanotte una [p. 26 modifica]esplosione formidabile ci fa balzare in piedi. Una mina austriaca ha fatto saltare parte del cocuzzolo occupato da un plotone dell’8a compagnia. Un grande baleno solca il cielo tempestoso e un boato profondo riempie la valle. Passano altri feriti lievi che si recano senza aiuto al posto di medicazione. 11 fuoco di fucileria diminuisce. Verso l’alba cessa. La prima notte di vita in trincea è stata movimentata ed emozionante. Di buon mattino, i nostri cannoni tempestano di proiettili le posizioni nemiche. Poi, anche i cannoni tacciono. Nella valle è la nebbia. Sulla cima dove ci troviamo, il sole. Nell’accampamento, il silenzio pieno e pensoso dei soldati all’indomani di una battaglia.