Il libro del Cortegiano/Prefazione

Prefazione

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Il libro del Cortegiano Dedica

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Nel ripublicare, corretta sopra i migliori testi, la principale fra le opere del Conte Baldassar Castiglione, alla quale va più particolarmente debitore dell’alta sua fama come scrittore, non è nostra intenzione di farla precedere dalla esposizione della vita e dall’esame degli altri scritti letterarii e politici dell’Autore; chè l’uno e l’altra aggiungeremo in luogo più opportuno dove ne publicheremo le Lettere, in parte inedite, e gli altri scritti latini e volgari. Crediamo tuttavia non inutile premettere al presente Volume alcuna parola intorno a questa sua opera, che fu accolta con universale applauso fino dal primo apparire, e che, unica nel suo genere in Italia, viene meritamente reputata fra le più leggiadre scritture che vanti la lingua nostra.

Movevasi il Castiglione, com’egli stesso riferisce, a scrivere il Dialogo del Cortegiano per la grata memoria degli anni passati a’ servigii di Guidubaldo da Montefeltro duca d’Urbino; ed, introducendo ad interlocutori i principali fra i personaggi che con lui si trovavano in quella Corte, ne traeva occasione di encomio ai principi di Urbino, ed a’ suoi compagni ed amici erigeva in quest’opera un monumento non perituro.

Nel presente Dialogo tolse il Castiglione ad imitare Platone, Senofonte, e sopratutto Cicerone, nelle opere dove cercarono ritrarre l’idea della perfetta Republica, del perfetto Re, del perfetto Oratore, come il Castiglione l’idea del perfetto Cortegiano. Se non che mal si apporrebbe chi, dalle [p. ii modifica] cose dei nostri tempi o di quelli a noi più vicini estimando gli usi del tempo del Castiglione, e dell’opera traendo giudizio dal solo titolo, credesse raccogliersi in questo libro ridotte ad arte le vanità o nequizie che troppo spesso infettano le corti. Lo stesso universale consenso, con che fino dai tempi dell’Autore quest’opera fu ricercata e tenuta in sommo pregio dentro e fuori d’Italia, dimostra come, sebbene col titolo e con la scelta degli interlocutori il Castiglione intendesse a pagare alla corte di Urbino un tributo di gratitudine e di lode, pure in realtà nel suo Dialogo non tanto espresse l’idea di un perfetto Cortegiano, quanto sodisfece ad un più vero ed universale bisogno. Il Dialogo del Cortegiano del Castiglione difatti nella massima sua parte altro non è, che un trattato di morale e di bel costume, nel quale con fine giudizio e bello stile si espone, secondo i consigli della ragione e della esperienza, di quali doti da natura e dall’arte debba essere fornito chi voglia procacciarsi la stima e l’affetto delle persone che lo circondano; soltanto in una parte del IV Libro trattandosi dei doveri del Cortegiano come tale, ed insieme di quelli del principe.

Il libro incomincia con un elogio di Federico da Montefeltro e del suo figliolo Guidubaldo duchi di Urbino, e di varii fra gli uomini insigni che praticavano in quella corte. Finge poscia l’Autore proposto da Federico Fregoso e scelto ad argomento di conversazione, il formare con parole un perfetto Cortegiano; onde si dimostrasse, «che in tutta Italia forse con fatica si ritrovariano altrettanti cavalieri così singolari, ed, oltre alla principal profession della cavalleria, così eccellenti in diverse cose,» come allora si trovavano alla corte di Urbino. Il Conte Ludovico da Canossa, al quale ne fu dato l’incarico, descrive le qualità di corpo, d’animo e di fortuna, che o per sè stesse, o nella opinione altrui, valgono ad aggiunger pregio, o siano esse dono di natura, od opera dello studio e dell’arte, come scienza di lettere, cognizione di [p. iii modifica] varie lingue, di musica, di disegno, di pittura. Nel primo libro inoltre v’ha una lunga ed importante digressione, nella quale il Castiglione esprime le sue opinioni intorno al modo di parlare e di scrivere la nostra lingua. Avendo cioè il Canossa dichiarato, doversi in ogni cosa con sommo studio fuggire l’affettazione, e perciò anche nello scrivere e nel parlare: Ludovico da Canossa condanna l’uso di parole e di modi antiquati e caduti in desuetudine; laddove Federico Fregoso vuole si adoprino, e crede aggiungano spesso grazia e gravità al discorso. Colla stessa occasione l’Autore espone la sua dottrina intorno alla ortografia: nel che, come noteremo più sotto, dà senza dubio in grave eccesso, svestendo la lingua italiana del proprio carattere, troppo concedendo alla etimologia e ritraendo la nostra lingua alla forma latina.

Federico Fregoso, quegli stesso che aveva proposto il gioco o ragionamento del Cortegiano, fu incaricato di proseguirlo la seguente sera, e nominatamente di esporre, quando e come si abbia a far uso delle buone qualità descritte dal Conte Ludovico. Essendo quindi caduta menzione delle facezie, Bernardo Bibiena ne discorre ampiamente, portandone molti esempii. Tutto questo lungo tratto, nel quale, ma non servilmente, è seguito Cicerone nel secondo Libro De Oratore, è uno dei più ameni del Dialogo, e quasi un riposo fra i gravi ragionamenti delle qualità richieste nel Cortegiano.

Tolta occasione da alcuna parola che pone in bocca a Gasparo Pallavicino contro le femine, nel terzo Libro, sotto la persona di Giuliano de’ Medici il Magnifico, l’Autore espone di quali doti debba essere ornata una perfetta Donna di Palazzo; passa indi agli elogi delle donne, e adduce esempii di molte che furono insigni per ogni genere di virtù; tratta del modo con che debbano comportarsi con chi loro parli di amore; ed infine, tornando Gaspar Pallavicino a dir mal delle donne, l’Autore, per bocca di Ottaviano Fregoso, conchiude, la verità essere nel mezzo, fra i troppi biasimi del signor [p. iv modifica] Gasparo, e le troppe laudi che da altri erano loro state prodigate.

La prima parte del quarto Libro riguarda più direttamente i doveri del Cortegiano, officio e fine del quale è guidare al bene il suo principe. Di qui si toglie occasione di parlare delle varie forme di reggimento degli stati, nonché dei doveri dei principi, e come abbiano a procurare la felicità dei loro popoli. Passa infine a trattare per bocca di Pietro Bembo delle cose di Amore, seguendo le dottrine dei Platonici; in tutto il qual tratto il Castiglione 6 mirabile di eloquenza quanto forse non in altra fra le più belle parti dell’opera: e così compionsi i discorsi della quarta sera, e il Dialogo del Cortegiano.

Il Castiglione scrisse questo Dialogo nel 1514, e compitolo in breve tempo, a più riprese diede poi opera in limarlo ed accrescerlo. Nel 1518 essendo stimolato dagli amici a darlo in luce, lo mandò a Giacomo Sadoleto e a Pietro Bembo, richiedendoli di consiglio. Lo communicò anche a Vittoria Colonna marchesa di Pescara: il che fu poscia occasione della publicazione dell’opera; poiché avendone Vittoria Colonna, contro la fede data, fatto trascrivere gran parte, onde sene sparsero copie: il Castiglione, sebbene allora distratto in altre cose, ed inoltre avesse in mente di aggiungere al libro parecchie cose, che già aveva ordinate nell’animo, pensò non dover più oltre differire a publicarlo, affinchè intanto non venisse in luce mutilo e corrotto per mano d’altri. Due lettere del nostro Autore, recentemente publicate dal Conte Valdrighi, forniscono curiose ed importanti notizie intorno alla prima edizione del Cortegiano, che il Castiglione, allora Nunzio in Ispagna, fece eseguire in Venezia presso Aldo, in foglio, l’anno 1528: bella e nitida edizione, ma macchiata di non pochi e talor gravi errori.

Poco sopravisse il Castiglione alla publicazione del suo Cortegiano, che intanto era stato l’anno stesso ristampato in [p. v modifica] Firenze dagli eredi di Filippo Giunta, edizione che fu in breve seguita da altre parecchie. Nel 1533 gli eredi d’Aldo lo ristampavano in minore formato, dicendo essere più corretto del primo, secondo l’esemplare iscritto di mano propria d’esso Autore; ma fatto sta che nulla vi è mutato, e soltanto corretti i manifesti errori di impressione. Non così la terza Aldina, fatta da Giovanni Padovano, ma ad istanza e spesa di Messer Federico Torresano d’Asola (1538); poiché in questa il testo in più luoghi è mutato in modo, da non potersi attribuire fuorché ad una più diligente collazione del manoscritto. Tracce ancor più evidenti di un nuovo esame del manoscritto si trovano nella quarta Aldina (1541), sebbene abbia pure non pochi proprii errori. L’ultima Aldina (1547) non è che una materiale ristampa della terza; come la quinta, in foglio (1545), è a un di presso una ripetizione dell’edizione originale del 1528.

Numerosissime sono le ristampe di quest’opera nel secolo decimosesto, contandosene presso a quaranta oltre le Aldine, e oltre le traduzioni che tosto se ne fecero in quasi tutte le lingue di Europa; e ben può dirsi, che fra le opere in prosa che illustrarono la letteratura italiana nel secolo di Leone X, non altra fu accolta con più universale favore. — Le anzidette edizioni, fino a quelle del Dolce del 1556 e del 1559, sono una materiale ristampa di alcuna delle Aldine. Il Dolce poi asserisce bensì avere emendato il testo secondo l’ììesemplare del proprio Autoreìì; ma è evidente ch’ei non ebbe sott’occhio il manoscritto originale, nè appare ben certo se abbia raffrontato almeno l’edizione Aldina del 1528; le mutazioni nel testo che s’incontrano nelle edizioni del Dolce scorgonsi fatte ad arbitrio, sebbene alcune colgano nel segno. Il testo del Dolce fu seguito in tutte le altre edizioni di quel secolo, compresa quella del Ciccarelli (1584), che diede il Cortegiano espurgato, e fu più volte ripetuta gli anni seguenti. Se non che appunto pei vincoli frapposti alla libera publicazione di [p. vi modifica] quest’opera, più non ne fu publicata in Italia che una sola edizione intera nei secoli decimosettimo e decimottavo, e sole tre secondo la correzione del Ciccarelli; fra le quali tuttavia è degna di memoria quella dei fratelli Volpi (1735), che, oltre all’avere restituito alcuni più innocenti fra i passi tolti dal Ciccarelli, corresse accuratamente il testo con un diligente confronto dell’edizione originale del 1528; e su questa edizione, ma coll’aggiunta dei passi omessi dal Volpi, è fatta l’edizione di Vicenza, come pure, quantunque assai negligentemente, quella di Milano detta dei Classici, dalla quale derivano tutte le edizioni posteriori.

In difetto del manoscritto originale, il quale sembra essere passato in Francia, e, venuto in potere del Professore Guglielmo Libri, trovarsi ora colla maggior parte della ricca sua biblioteca in Inghilterra:1 abbiamo creduto dover seguire esclusivamente le edizioni Aldine, tratte dall’esemplare spedito di Spagna per la stampa dall’Autore. A fondamento dell’ edizione abbiamo posto quella del 1528, la quale, non tenuto conto degli evidenti errori tipografici, pel testo e per l’ortografia appare avvicinarsi più che alcun’altra all’originale dell’Autore; nè mai da questa ci siamo dipartiti senza avvertirne in nota il lettore: sebbene siansi tenute ad accurato confronto anche le seguenti Aldine, delie quali abbiamo portato in nota le principali varianti. Restano tuttavia alcuni luoghi, dove la lezione di tutte le Aldine è evidentemente falsa; e quivi, avvertendone il lettore, abbiamo ricevuto le emendazioni del Dolce o dei Volpi, e rare volte alcuna nostra congettura. In fine dell’opera riproduciamo alcuni passi del Cortegiano diversi da quelli che si trovano nelle edizioni, i quali furono per la prima volta publicati dall’Abbate Pierantonio Serassi, tratti dalla prima bozza del Cortegiano, che si conservava e sembra conservarsi tuttora presso gli eredi del Castiglione. Nè vi ha dubio, che il confronto di quella bozza [p. vii modifica]sarebbe di grande utilità in correggere molti luoghi dubii od errati delle edizioni.

Non lieve difficoltà ci si presentava nella scelta della ortografia, in che si avessero a publicare le opere del nostro Autore. La maggior parte degli scrittori di quella età posero alla ortografia poca cura, scrivendo spesso le stesse parole con diversa forma, ora strettamente attenendosi all’etimologia, ora seguendo la pronunzia volgare. Non così il Castiglione, il quale, non nella tessitura dei periodi, ma nella scrittura dei vocaboli, reputa doversi conservare e conserva difatti la forma latina in modo, che le sue opere a’ nostri giorni riescirebbero di pressoché impossibile lettura. Noi pure opiniamo, e l’abbiamo altrove 2 dichiarato, doversi nella scrittura delle voci italiane seguire piuttosto l’etimologia, che non l’incerta ed incostante pronunzia del volgo. Ma questa regola non deve estendersi tant’oltre, che più che l’ortografia si muti la forma stessa dei vocaboli, ovvero si ammettano modi repugnanti all’indole della nostra lingua, figliola bensì della latina, ma avente regole, carattere, scrittura propria. Chi tolererebbe, che per popolo scrivessimo populo, come vuole il Castiglione, ed Hercule, ed excepto, e così via? Ritenemmo adunque bensì costantemente la forma di vocaboli adottata dall’Autore; ma quanto all’ortografia non la seguimmo se non in parte, onde non allontanarci di troppo dalla scrittura che l’Autore professa voler seguire, nè tuttavia rendere il libro illegibile.

Abbiamo conservato le più importanti fra le annotazioni dei precedenti editori, ed aggiuntone alcune nostre; alle annotazioni abbiamo premesso brevi cenni biografici sui personaggi introdotti dal Castiglione ad interlocutori nel Dialogo. Il testo fu con somma diligenza e a più riprese confrontato e [p. viii modifica] corretto sulle edizioni Aldine; lnsommo non fu da noi omessa cura o fatica, affinchè questa nostra riesca ottima fra le edizioni del Cortegiano; e simile diligenza porremo intorno agli altri scritti del Conte Baldassar Castiglione, che daremo fra breve, accresciuti di un gran numero di lettere inedite, non meno importanti per argomento, che notevoli per purezza di lingua, e per chiarezza, semplicità e nobiltà di dettato.

Carlo Vesme.


1 gennajo 1884.

{Sezione note}}

  1. Revue des Deux— Mondes, 18S2, cahier de mai, page 323.
  2. Dialogo di Santo Gregorio: Volgarizzamento di Fra Domenico Cavalca. Testo di lingua ridotto alla vera lezione da Carlo Baudi da Vesme. Torino, Stamperia Reale, 1854: nella prefazione, a pag. xii.