Il libro dei versi/Un torso
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UN TORSO
Quel torso era una Venere
Che un arcaïco scalpello
Creò ne’ suoi più fervidi
Morsi d’amor col Bello;
Oggi, marmoreo enigma
Dall’olimpico stigma,
Di tant’arte non resta
Che un busto senza testa.
Pur nelle tronche viscere
La Dea non è ancor morta,
Un’agonia di secoli
La fece fredda e smorta,
Ma nella nuda fibra
Palpita, guizza, vibra,
Quasi monco serpente,
L’Eginetica mente.
Così le fece il genio
Le piaghe sue più grame,
E le eternò il martirio
Di Mosca e di Bertrame.
Pur colle rotte braccia
Quel torso ancor m’allaccia,
E al secolo che raglia
Sembra cercar battaglia.
O monti! o cime candide
Della serena Paro!
Brezze marine! tremulo
Irradiar del faro!
Autunni e primavere
Dell’erme tue scogliere!
Delle tue dolci dune
Albe! tramonti! lune!
In alta pace estatica
Tu là dormivi, o sasso,
Nè a te giungeva l’alito
Di questo mondo basso;
Lenìan tua bianca grana
Carezze di lïana,
Ed albergavi il trillo
D’un solitario grillo.
E quando i due crepuscoli
Splendean sull’orizzonte.
Tu, coronando il placido
Profilo del tuo monte,
Lanciavi al ciel favilli
Di quarzi e di lapilli
Ed abbagliavi al piano
L’errante mandrïano.
Ma poi discese un’Attica
Gente brïaca d’arte.
Seminatrice prodiga
Di monumenti e carte;
Vider per la campagna
La magica montagna
E con gioia rubesta
Ne distaccâr la cresta.
Piombasti e fosti Venere.
Fra citaredi e schiavi
Per te strisciò la polvere
Il folto crin degli avi;
Avesti ara e ghirlande.
Sacerdotesse blande,
Languide danze e fumi
Di roghi e di profumi.
Se ti vedeva il libero
Motteggiator d’Egina
Che il genio avea del fäuno
E la barba caprina,
Per te molceva il riso
Del suo beffardo viso
E in dorica melòde
Sciogliea sull’arpa un’ode.
Poi t’ebbe Roma, emporio
Di statue e di colonne,
Teatro allor di Veneri
Com’oggi di Madonne,
Li cominciò la scoria
Del tempo e della storia
A macular con orme
Di lepra le tue forme.
Vivesti in mezzo al fremito
Dell’orgie e nei triclini
Dove fetèa la nausea
Dei tracannati vini;
Là, fra le turpi e gaie
Follie delle ambubaie
Con un osceno crollo
T’hanno fiaccato il collo.
Povera Dea! vanirono
Allor profumi e canti,
L’irriverente greculo
Ti zuffolò davanti,
Fosti bruttata al piede
Con impudiche scede
E una ciurmaglia sgherra
Ti rotolò per terra.
Sublimi tempi olimpici
E putride cloàche,
E baci di caleïdi,
E sputi di lumache,
Tutto hai provato, e l’asta
Del santo iconoclasta
E lo schiaffo plebeo
Del porco epicureo.
Ma noi questa prosaica
Gente ch’or ti raccolse,
Adoratrice instabile
D’arti sfrenate o bolse,
Oggi forse minaccia
Quelle tue monche braccia
Di più fiero dolore:
Il restäuratore.
1862, Parigi, Museo del Louvre