Il guarany/Parte Quarta/Capitolo VIII
Questo testo è completo. |
◄ | Parte Quarta - Capitolo VII | Parte Quarta - Capitolo IX | ► |
CAPITOLO VIII.
LA SPOSA.
Poco dopo gli avvenimenti or ora raccontati, Pery, appoggiato alla finestra della camera, che già avea appartenuto alla sua signora, guardava con grande attenzione un albero che si innalzava a poche braccia di distanza.
Il suo sguardo pareva studiare le curve di quei rami ritorti, la distanza, l’altezza, il diametro, come se da ciò dipendesse la soluzione di una gran difficoltà che rivolgeva nella mente.
Nell’atto che stava tutto assorto in quest’esame minuzioso, l’Indiano si sentì toccare lievemente sulla spalla da una mano timida e dilicata.
Voltossi: era Isabella che gli stava da presso, e che si era avvicinata come un’ombra, senza fare il menomo rumore.
Un pallore mortale copriva le sembianze della giovane, appena allora riavutasi da uno svenimento; ma il volto palesava una calma, o piuttosto un’immobilità che accorava.
Ritornata in sè, Isabella gettò un’occhiata per la stanza, come per accertarsi se non fosse sogno quanto avea veduto.
La sala era deserta; don Antonio era uscito per dare gli ordini opportuni; sua moglie inginocchiata nell’oratorio sopra un mucchio di rovine orava a pie’ d’una croce collocata presso l’altare.
Nel fondo della stanza, sopra il sofà, risaltava il corpo immobile del cavaliere, a’ cui piè ardeva un cero, che gettava un pallido chiarore.
Cecilia vi stava da presso, e stringeva al suo seno quel capo esanime, procurando ravvivarlo.
Quando l’occhio d’Isabella cadde sul corpo del suo amante, come attratta da una forza soprannaturale attraversò rapidamente la sala, e andò alla sua volta ad inginocchiarsi in faccia a quel letto di morte.
Ma non era per pregare che inginocchiavasi, sì bene per struggersi nella contemplazione di quel volto livido e freddo, di quelle labbra gelate, di quegli occhi spenti, che amava malgrado la morte.
Cecilia rispettò il dolore di sua cugina, e per un istinto di delicatezza, di cui soltanto son capaci le donne, comprese che l’amore, anche in faccia d’un cadavere, nella sventura stessa, conserva il suo pudore e la sua castità; uscì per lasciar che Isabella piangesse liberamente.
Poco dopo l’uscita di Cecilia, la giovane si alzò, percorse automaticamente la casa, e vedendo da lungi Pery, si avvicinò a lui e lo toccò sulla spalla.
L’Indiano e la giovane si nimicavano l’un l’altro fin dal primo dì che si erano visti; in Isabella era l’avversione per una razza che l’abbassava a’ suoi propri occhi; in Pery era quella ripugnanza naturale, che prova l’uomo all’aspetto di coloro che riconosce suoi nemici.
Perciò Pery, vedendo Isabella da fianco, rimase sommamente maravigliato, sovratutto quando si avvide del gesto supplichevole fatto dalla giovane, come se attendesse da lui una grazia.
— Pery!...
L’Indiano si sentì commosso all’aspetto di tanta sofferenza, e per la prima volta in sua vita diresse la parola a Isabella.
— Hai bisogno di Pery? diss’egli.
— Venni per chiederti un servizio. Non mel negherai, m’immagino; balbettò la giovane.
— Parla: se è cosa che Pery possa fare, egli non te la negherà.
— Mel prometti dunque? sclamò Isabella, i cui occhi brillarono d’un’espressione di allegrezza.
— Sì, Pery te lo promette.
— Vieni!
Dicendo quella parola, la giovane fece un gesto all’Indiano, e avviossi accompagnata da lui alla sala, che ancora stava deserta come prima.
Si fermò vicino al sofà, e accennando al corpo esanime del suo amante, pregò Pery a prenderlo nelle sue braccia.
L’Indiano obbedì, e tenendo dietro ad Isabella entrò in una stanza appartata in un’angolo della casa, e gettò quella salma sopra un letto, di cui la fanciulla aperse le cortine, piangendo come una sposa vedovata.
Piangeva perchè la stanza ove era entrata, era la sua camera, che trovava ancora popolata di tutti i sogni del suo amore; perchè il letto che riceveva il suo amante, era il suo letto di vergine casta e pura; perchè ella era realmente una sposa della tomba.
Pery, dopo che ebbe soddisfatto al desiderio della giovane, ritirossi e tornò al suo lavoro, che proseguiva con una costanza infaticabile.
Appena rimasta sola, Isabella sorrise; ma quel sorriso avea un non so che di quell’estasi del dolore, di quella voluttà di patimento, che fa sorridere nell’ultima ora i martiri e gli sventurati.
Trasse dal seno una scatola di vetro, ove custodiva i capelli di sua madre; vi lanciò sopra uno sguardo ardente, ma crollò il capo con un gesto e un’espressione ineffabile.
Avea cambiato di risoluzione: il secreto che chiudeva quell’arnese, la polvere sottile che appannava la faccia interna del cristallo, la morte che sua madre aveale confidato, non la soddisfaceva; era troppo rapida, quasi istantanea.
Uscì allora furtivamente e accese un cero, che collocò sul cumò allato a un crocifisso di avorio; dipoi chiuse la porta, le finestre e ogni apertura, per cui potesse penetrare la luce del giorno.
La camera rimase all’oscuro; soltanto attorno il cero che ardeva una pallida aureola s’innalzava dal mezzo delle tenebre, e illuminava l’immagine di Cristo.
La giovane s’inginocchiò e fece una breve orazione; chiedeva a Dio un’ultima grazia; chiedeva l’eternità e la felicità del suo amore, che era passato tanto rapido sopra la terra.
Terminata la preghiera, prese la luce, la pose vicino al capezzale del letto, aperse le cortine e cominciò a contemplare il suo amante con gran tenerezza.
Alvaro parea soltanto addormentato; la sua bella fisonomia non era punto alterata; la morte, imprimendo sulle sue sembianze un colore di cera e di marmo, avea soltanto reso immobile l’espressione, e fatto del gentil cavaliere una bella statua.
Isabella interruppe l’incanto della sua contemplazione per accostarsi al cumò, ove si vedeano alcune di quelle conchiglie tinte di porpora, che si colgono sulle spiaggie del Brasile, e una cestella di paglia variopinta.
Questa cestella conteneva tutte le resine aromatiche, tutti i profumi che producono gli alberi di quelle regioni; la gomma dell’aroeira, le perle del belzuino, le lacrime cristallizzate dell’embaiba e goccie di balsamo, quel sandalo del Brasile.
La giovane pose in una di quelle conchiglie la maggior parte di quei profumi, e accese alcuni grani di belzuino; l’olio di cui erano imbevuti, alimentando la fiamma, fece sì che il fuoco si comunicò alle altre resine.
Globi di fumo bianchiccio, carico di profumi inebbrianti, s’innalzarono in grosse spirali da quel turibolo, e riempirono la camera di nuvole trasparenti, che oscillavano alla luce pallida del cero.
Isabella, seduta in sulla prodicella del letto, colle mani del suo amante nelle proprie, e cogli occhi rapiti in quella cara immagine, balbettava quelle frasi mozze, quelle confidenze intime, que’ suoni inarticolati, che sono il vero linguaggio del cuore.
Talora sognava che Alvaro ancora viveva, che le susurrava all’orecchio la confessione del suo amore; ed ella gli rispondeva, come se fosse ascoltata, gli narrava i secreti della sua passione, versava tutta la sua anima nelle parole che le cadevano dalle labbra.
La sua mano dilicata spartiva i capelli del giovane, ne scopriva la fronte, ne accarezzava la faccia gelata, e vezzeggiava quelle labbra fredde e mute, come per chieder loro un sorriso.
— Perchè non mi parli? Mormorava ella dolcemente. Non conosci la tua Isabella?... Ripetimi che mi ami! Ripetimi quella parola, affinchè l’anima mia non dubiti della felicità! Te ne supplico!...
E coll’orecchio teso, le labbra semiaperte, il seno palpitante attendeva il suono di quella voce prediletta, e l’eco di quella prima ed ultima parola del suo amore infelice.
Ma solo le rispondeva il silenzio: il suo petto aspirava a stento le onde di quei profumi inebbrianti, che facevano circolare nelle sue vene una fiamma ardente.
La camera presentava allora un aspetto fantastico; nel fondo oscuro disegnavasi un cerchio rischiarato, avvolto da una folta nuvola.
In quella sfera luminosa vedevasi, come nel mezzo di una visione, Alvaro giacente sul letto, e Isabella inchinata sul volto del suo amante, cui continuava a parlare, come se egli l’ascoltasse.
La fanciulla già si sentiva venir meno il respiro; il suo seno oppresso la soffocava; e frattanto una voluttà ineffabile la inebbriava; un gaudio immenso ci avea in quell’asfissia di profumi, che si condensavano e rarefacevano l’aria.
Stupefatta, perduta, abbagliata rizzossi, il suo seno si dilatò, e la sua bocca, aprendosi a metà, si posò sulle labbra fredde e gelate dell’amante; era quello il suo primo ed ultimo bacio, il suo bacio di sposa.
Fu un’agonìa lenta, un letargo orribile, ove il dolore lottava col gaudio, ove le sensazioni racchiudevano l’estremo del piacere e della sofferenza al tempo stesso, ove la morte, torturando il corpo, versava nell’anima un effluvio celeste.
D’improvviso parve ad Isabella che le labbra di Alvaro si agitassero, che un tenue sospiro esalasse dal suo petto, ancora testè insensibile come il marmo.
Credette di illudersi; ma no: Alvaro era vivo, realmente vivo; le sue mani stringevano quelle di lei convulsivamente; i suoi occhi, brillando d’un fuoco strano, si affisavano nel volto della giovane; un alito ravvivò le sue labbra, che esalarono una parola quasi impercettibile:
— Isabella!...
La giovane mandò un fievole grido di allegrezza, di spavento e di terrore; tra le idee confuse che si affollavano nella sua mente vaneggiante, immaginò inorridita esser ella che uccideva il suo amante, che lo sacrificava per causa di un inganno fatale.
Facendo uno sforzo straordinario pervenne ad alzare il capo, e volle precipitarsi alla finestra, aprirla e dar ingresso all’aria libera; sapea che la sua morte era inevitabile, ma salverebbe Alvaro.
Se non che nell’atto che si alzava, sentì che le mani del giovane stringevano le sue, e l’obbligavano a chinarsi di nuovo sul letto; i suoi occhi incontrarono un’altra volta gli occhi del suo amante.
Isabella non ebbe più forza da resistere e compiere il suo eroico sacrifizio; lasciò cadere il capo svenuto, e le sue labbra si congiunsero nuovamente con quelle del giovane in un lungo bacio: quelle due anime sorelle, confondendosi in una sola, volarono al cielo e ripararono in seno del Creatore.
Quei globi di fumo e di profumi condensavansi ognora più, e avvolgeano come in un lenzuolo quel gruppo originale, non possibile a descriversi.
Verso le due della sera, la porta della camera scossa da un urto violento si aperse; e un turbine di fumo lanciossi da quell’apertura, e quasi soffocò le persone ivi presenti.
Queste erano Cecilia e Pery.
La fanciulla, inquieta per la lunga assenza di sua cugina, seppe da Pery che era nella sua camera; ma l’Indiano ascondea parte del vero, e non diceva in che luogo avesse riposto il corpo di Alvaro.
Ben due volte Cecilia era venuta fino alla porta, avea teso l’orecchio senza nulla udire; alla fine determinossi a battere, a chiamare Isabella, ma non n’ebbe risposta.
Chiamò Pery e gli narrò quanto accadeva; l’Indiano indovinò all’istante quello che era avvenuto, e perciò mise le spalle contro la porta e l’aperse.
Quando la corrente d’aria ebbe scacciato il fumo dalla camera, Cecilia potè entrare e vedere la scena che abbiamo descritta.
La fanciulla retrocesse, e rispettando quel mistero di un amor profondo fè un gesto a Pery e ritirossi.
L’Indiano chiuse di nuovo la porta e accompagnò la sua signora.
— Ella morì felice! disse Pery.
Cecilia fissò in lui i suoi grandi occhi azzurri e pianse.