Francesco Algarotti

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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. X


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IL COMMERCIO

POEMETTO

DI

FRANCESCO ALGAROTTI


Non io, signore, or che la patria adorna
Di tue bell’opre ai primi onor t’innalza,
E la sudata porpora ti veste,
Non io di carmi tesserò corona
Al nome tuo, di tanti eletti cigni
Minore al paragon. A te Trisalgo
Sul curvo, e d’armonia gravido legno
Scioglie un’aurea canzone: il buon Comante,
Cui diede Apollo i più bei nomi in cura,
Sulla porpora tua spargerà fiori
” Spiranti eterno Chiabreresco odore.
Ben io, signor, negli umili miei modi,
Qui della Zscopa in sulle rive ombrose
Teco sermon farò, teco, cui giova
Più meritar, che conseguir la lode.
Ma donde pur dovran movere i pronti
Versi, se non da quel, che sempre in mente
Sempre ti ha nel cuor, dal patrio bene?

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Te vidi un tempo là dove discende
Di Parigi al romor muta la Senna,
Non già in piume seder nel fasto involto,
Ma grave, e accorto di Nestorei detti
Versar fiumi dal petto in duri tempi.
” Pensoso più d’altrui, che di te stesso.
Parte maggior del Veneto destino
Anche nell’ozio tuo, bene il rammento,
L’alto ingegno nudrir d’elette cose
Era tua cura, e con acuto sguardo
Le molle esaminare, onde la grande
Macchina muove degli stati, o torna
All’antico vigor languida, e stanca.
Piagata il sen dalle civili guerre,
Povera, e sconsolata in mezzo a tanti
Dal cielo al suo terren largiti doni
Languia la Francia di quell’arti ancora
Indotta, onde Amsterdam cresceva, e Londra.
Caro a Mercurio allor surse Colberto,
Di magno Re ministro anche maggiore;
E sì fur volti i bellicosi Galli
Agli studj di pace: i bei lavori
Di seta rifiorir là dove Senna
S’accompagna con Rodano, e lunghesso
Samara imprese i bei lavor di lana
L’industre Vanrobets. Dai monti ombrosi
Scendon gli abeti al mar, nuotan le navi:

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Gl’Indici flutti corsero animose
Le franche antenne; e col cammin del sole
L’ombra si stese de’ bei gigli d’oro.
Questa immago, signor, volgevi in mente
Degna di cittadino, a cui doleva
Nostra patria mirar, quanto ahi diversa
Da se stessa, che un giorno emula a Tiro
Sorgeva, ed a Cartago, ampio del mondo
Emporio, e de’ Gangetici tesori
Dispensatrice all’infingarda Europa.
Ahi da quel di, che il Lufitano ardire
Il capo superò, la strada aperse
Ai boschi di cannella, al pepe, al mace,
E il valor Genovese a ignoti venti
Ispano abete si commise, e un nuovo
Mondo scoprio, donde per lungo mare
L’odorata vainiglia or viene, e il dolce
Sugo, che stilla dalle bionde canne,
Del Brasil l’oro, e il Potosino argento,
Volse gli occhi da noi Mercurio, e a terre
Più rimote drizzò l’alato piede.
Varcò il Traffico allora in altre mani;
E quei legni, che un dì spessi d’Egitto
Veniano, e d’Asia ai nostri lidi, altrove
Dispersi or vanne, a zefiri stranieri
Sventolando le pinte banderole,
Sull’argenteo Tamigi, all’arenoso

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Tessele, e di Garonna a’ ciechi scanni.
L’arti nostre, signor, rapinne anch’esse
Degli esteri la mano, cui l’amore
Fa del lucro più destra. Lo scarlatto
Pieno il color, morbido il filo, e denso,
Fabbrican ora oltremontane spole,
E fornace straniera or tempra e cuoce
Quel di Murano un dì nobil fattura,
Caro alle Grazie, e a Cloe, lucido arnese,
Delle tolette onor; tu ben tu ’l fai,
Spirto gentile, e certo anche ten duole
Dell’amor della patria il cuore acceso
Nè in animo gentil dolore è vano.
Qual bellica virtù cresce nei danni,
E tra l’armi, e tra il ferro ardir rinfranca;
Tale di cittadin l’invitta mente
Dagli ostacoli acquista animo, e lena,
E schiude al patrio bene ignote vie.
Troia più non sarà; dispersa al suolo
Nelle ceneri sue fuma sepolta,
E crebber di sue spoglie Argo, e Micene.
Così Giuno dicea volgendo in petto
L’antica ingiuria ancor. Ma pure Apollo
Sotto l’ombra dell’Aquila latina
Dalle antiche rovine un’altra Troia
Riforger feo, cui lavò il fianco ancora
A piè dell’Ida e Simoenta, e Xanto.

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Ma che parl’io signor; la bella pianta
Sfrondata è sì, ma non recisa al suolo.
Cerere mira, come lieta intorno intorno
Di gravi spighe i nostri campi inaura,
E dal vento percossa ondeggia, è splende,
E spesso avvien, che con la ricca messe
Vinca i nostri granai, vinca la speme.
Che farà poi se col novello ordigno
Del Tittolemo Inglese il sen più addentro.
Piaghi alla terra il Veneto bifolco,
Se meglio ei volga, e più assotigli, e rompa
Le dure ghiove, e morte alle maligne
Piante egli apporti, e nuova vita al grano?
Folta lussureggiar vedrà mai sempre
Lungo l’Adige, e il Po Sicula messe.
Guarda l’uve, signor, ch’ai nostri colli
Fanno intorno ghirlanda, e giù nel piano
Si maritano agli olmi in bei filari
Ordinate qua e là; se non che Bacco
Esso ai vendemmiator le mostra, e pare,
Che più attenta da noi cura richiegga di
Nello premerne il succo, nè minore
Cura nel scieglier di ben faldi arnesi,
Ove ribolla, è d’ogni odor sinceri;
Ond’anche il nostro vin sprezzi del mare
Il tumulto, e l’orgoglio, e in un col Cipri
Vada a imbriacar dentro all’Haremme il Turco

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Dell’Alcorano vincitor fumoso.
Che se la terra a nostre voglie avara
Nega vene d’argento, nè tra noi
Volgon torbidi d’oro i rivi, e i fiumi;
Ben Saturno ne diè benigno e largo
Dello Sveco miglior Bresciano ferro,
Utile in pace, utile dono in guerra.
Ferrea è la curva falce, e ferrea morde
L’ancora il lido, e soggiogò mai sempre
I rilucenti d’or popoli imbelli,
” Gente di ferro, e di valore armata.
Che più, signor? lungo la Brenta erbosa
Dai folti armenti a noi morbide lane.
Tende rustica Clori. I Ceneresi1
Bachi filano a noi lucide sete,
Degne dell’ago di Minerva. A queste
Non m’anteponga alcun quelle, che mira

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Nobilitar sue rive il Po superbo
Colà dove un eroe audace, e saggio
Nestore e Achille in un fa fede al mondo,
Che l’Italo valor non è ancor morto.
Nè gli animosi in mar roveri gravi,
Nè i velivoli abeti a noi, nè manca
La tarda prole del Palladio ulivo.
Tai di natura doni utili renda
Ancor più, ch’ei non sono arte, e quel Dio
Padre di bella industria, ei che far puote
Di picciol borgo una città reina.
Già non aspetti il fondachier, che i belli
Suoi lavori a cercar di là dal Sonde
Sciolga il Danese impellicciato, o il Russo:
Su per l’onde azzurrine il nero abete
Da noi si porti a’ più remoti lidi
Mercè, ch’oltra nostr’uso, abbonda, e cresce,
Ed i granari, e le officine ingombra.
Poco o nulla tra noi delle straniere
Fogge ne giovi trasferire il lusso,
Sì che lungi non dissipi, e disperga
Irreparabilmente il Venet’oro,
Folle vaghezza, anzi via via crescendo
Rompa l’oro straniero i nostri scrigni.
Sovra tutto al commercio onor si dia;
E il grato cittadin pur si sovvenga,
Che dell’Adriaca forza il miglior nerbo

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Esso ne fece, e già poteo per esso
Di Cambray la congiura, e il duro assalto
Vinegia sostener sola, e per esso
Pur empie a’ nostri di picciola terra
Tempio di libertà, seggio dell’arti
E di navi, e di gloria il mare immenso
Siccome suol l’industre pecchia allora,
Che l’opra ferve, e l’odorato timo
Spira il liquido mel; lunge animosa
Da’ bei presepi suoi cacciare i fuchi;
Cosi d’in seno alle città costoro
Sieno sbanditi, inerti sciami, ignava
Turba soltanto a nulla oprare intesa,
Peso al comun, di latrocinio scuola.
O piuttosto, signor, rimettan l’arti,
Che già tennero un tempo, onde sbandito
L’ozio turpe ne venga, e a tutti porga
Alimento l’industria, onde per noi
Beva i vivi color la nostra lana,
Nè da Gallica Aracne a bei trapunti
S’intessa, e in vaghi fiori Adriaca seta,
Quale è di Dio l’alta bontade immensa,
Che dal magno Elefante al vile insetto
Volge il provvido sguardo, e tal ne sia,
Vera immago di Dio, Principe giusto.
Aprir canali, e fabbricare ingegni
Util cosa fu sempre, onde si compia

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Con poche mani opera molta, e gente
Che qua si sparmia, altrove abbondi, e sudi.
Nè già ti smuova dalla bella impresa
Bisbigliar delle genti, obbliquo riso,
Vano pianto, o lamento, all’opre degne
Usato premio, e solita mercede.
Vorrai forse, signor, provvido all’uopo
Di città popolosa, a cui divida
Rapido fiume il sen, con ponte unire
Le divise contrade? Ecco che tosto
Un nautico clamor t’assorda, o noi
Meschini, o remo inutile, o barchetta,
Al fiume si dà un giogo, a noi la morte:
Eh volgi il ponte omai, signor, nè sia,
Che di tutti osti al bene il mal di pochi
L’ire del mare in miglior barca affronti.
Il nocchier di fiumana, Achille in terra
Per la patria il fucil la spada impugni.
Arte, o vitto non manca all’uomo industre,
E il buon legislatore a Dio simile.
Non fa col più quel, ch’ei può far col meno.
Vedi colà dai Batavi Aquiloni
Dell’aereo mulin l’ala ricurva
In giro spinta, e vedila ingegnosa
Querce annose segar, frangere il grano.
Vedi il mar d’Aquitania, e il Narbonese
Mescer lungo Pirene i pesci, e l’onda,

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E più là sotto il polo il genio Russo
La Finlandica Dori al Caspio unire.
Ma dall’opre, signor, di nostre mani
Il guardo volgi a quelle dell’ingegno,
E l’arti belle, utile parte anch’esse
Dell’Itale commercio, al suol giacere
Bisognose vedrai di Mecenate,
Molti verseggiator, pochi poeti,
Pennellisti bensì, non dipintori
Offre il secol presente; il capriccioso
Borromini or Vitruvio a scranna siede;
Marinesca è la musica, e trionfa
Sin nel tempio di Dio lussuria d’arte.
Guarda, signore, e poi tacito pensa
Quel che al buon cittadin farsi convenga,
Perchè erudito occhio Britanno ammiri
L’arti nostre sospeso, e di Ghinea
Di cambiarle con l’oro arda pur anco:
Nè debba il pellegrin fulle pareti
Rose dal tempo, e più guaste da noi
Orma invano cercar d’antico ingegno,
E si specchino ancor nelle nostr’acque
Pinte dei magni ostelli in sulla fronte
Di moderni Giorgioni opere industri.
Ma qui un nuovo Zenon di Giuvenale
Con ampia bocca udir già parmi; oh questo
È aprire, o figlio, le dannose vie

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Al lusso, a lui, che d’oriente un giorno
La frode seco, e ogni altro vizio reo
Più funesto di Marte al Lazio addusse,
E in Roma vendicò la vinta terra.
O dotto mio Zenon, degno del grave
Tuo sopracciglio, e di tua breve toga,
Poco apparasti in tua solinga cella,
Credilo a me, della ragion di stato.
Quale il Fisico esperto i velenosi
Sughi dell’erbe in chimico fornello
A salute converte, e a medicina;
Tale dai vizi popolari estrae
Saggio legislator con l’alta mente.
Forza al comun, virtù, ricchezza, onore.
S’egli dai patri beni, e non d’altronde
Tragge alimento, è vita il lusso industre
Anima, che si mesce al corpo immenso.
Dello stato, e ogni parte agita e scalda:
È il lusso il bel legame, onde a’ bisogni
Del povero sovvien l’oro del ricco.
Nè la rigida Sparta alcun rammenti,
Le ferree leggi, e i Cinici instituti
Dello Stoico Licurgo. Al cielo i rami
Poco stender potea pianta di fimo
Non ben satolla, dalla man non culta
Di dotto agricoltor. La ricca Atene
Emula bilanciò molti e molt’anni

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Lo Spartano potere, e il franse alfine
A Leutra, e a Mantinea la pingue Tebe.
Del commercio l’onor la Grecia ascose
Sotto il velame dell’Argoica nave,
Che delle merci Achive onusta il seno
Cambiolle prima a barbare contrade,
E portò vincitrice al patrio lido
L’aureo tosone, ed or naviga in cielo.
Al più saggio dei Re l’onda Eritrea
Dal dubbio Ossir solcavano le flotte
Gravide d’oro: All’Attico commercio
Lo stil volse e l’ingegno, e leggi diede
Il grave Senofonte, Attica Musa,
Di Socrate uditore, egli, che scrisse
Quel che in Asia dettò Minerva a Ciro.
Tali esempli seguire a te pur giova
Sicuro non fallir, sublime il capo
Oltre il basso tumulto, e il patrio bene.
Volgendo notte e dì nel cuor pensoso.
La bella donna tua ricca di bella
Prole, e del cinto a Citerea rapito
Di tue cure pur sia dolce conforto:
Ella, che all’Istro, ed alla Senna in riva
Nel sollecito tuo petto versava
Di conjugale amor balsamo Ibleo.
E dolce poi ti sia, spirto gentile,
Presa la cima dell’alpestro monte

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Là dove cinta d’immortal splendore
La gloria siede, e innanzi morte domo
Dell’atra invidia il redivivo mostro
Nelle pubbliche vie, nel foro udirti
Salutar padre della patria un giorno.
Dalla patria sbandir l’ozio, e alle belle
Arti, e all’industria consecrare un tempio,
Al gonfio mar robuste moli opporre,
Scavar porti e canali, alle paludi
Far l’aratro sentir, spianar le vie.
I fiumi contener, piantare i colli,
Onde crescano a noi flotte novelle,
Onde a noi scenda Argo novella un giorno.
Queste di te, signor, opere degne,
E queste son degne d’Atene, e Roma.

Note

  1. Quanto è giusto e fondato l’Elogio che il celeberrimo Autore fa dell’invittissimo Re nostro Carlo Emanuele III di fel. mem. altrettanto è insussistente la preferenza ch’egli qui da alle sete delle Venete regioni sopra le nostre, che di universal consenso passano per le migliori dell’Europa. Non potevamo trasandare senza questa osservazione un articolo di commercio che tanto interessa la causa publica della nostra Patria.