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dei padroni: lo perseguitavano peggio dei cani, col becco potente; i loro strilli si sentivano sino al fiume.
Avvertita da questo allarme, un giorno, mentre ci si trovava a passeggio sull’argine, la più giovane delle nostre ospiti, una biondina fragile e con gli occhi cerulei come quelli di Ermengarda, corse giù a vedere, armata di una fronda. Niente paura: tornò su accompagnata da un bel vecchio alto, coi folti capelli candidi, vestito decentemente ma scalzo e coi pantaloni rimboccati sulle gambe rossastre.
Dopo aver rigirato più volte fra le mani callose il cappelluccio nero, egli arrossì, e infine ci invitò ad andare a mangiare i gnocchi nel mulino che suo figlio aveva, non molto giù di lì, per la sola ragione che eravamo amici di amici.
— Poi si va a pesca: ho la barca, ch’è mia. Vero, che è mia, Ninina?
La biondina, per tutta risposta, corse di nuovo giù per la china dell’argine, andò ad avvertire i genitori e tornò con la fronda convertita in un salame lungo e sodo come un randello.
Fu una gita indimenticabile. Il fiume era azzurro e, verso le rive boscose, d’un colore denso di lapislazzuli già venato dal rosso del tramonto.
La barca andava trasportata dalla corrente, e il vecchio, dritto coi remi a fior d’acqua, ci guardava orgoglioso e commosso come personaggi straordinarî, mentre la ragazza, piegata sulla sponda di prua, immergeva la mano nell’onda e la ritraeva con strilli di gioia, quasi avesse pescato perle. Anche la sua treccia sfiorava l’acqua che la rifletteva come un serpente
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