Il cedro del Libano/La gracchia
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LA GRACCHIA
Come un cristallo o una porcellana, lievemente percossi, vibrano di una lunga nota musicale, così oggi il limpidissimo cielo del nuovo inverno è tremulo di un suono caratteristico, inconfondibile. Sono le gracchie, le belle intelligentissime cornacchie nere, tornate ancora una volta dai paesi nebbiosi del nord, che dopo aver ripreso asilo negli alti pini delle vecchie ville romane o sui cornicioni dei campanili e delle torri solcano il cielo fresco giovanile sopra i nostri giardini; e il loro grido di gioia lamentosa, grido di amore, grido che non somiglia a nessuno di altri uccelli, ma ha bensì un ritmo quasi umano, ricorda, come certi profumi, a chi da lungo tempo lo conosce, zone di vita che si credevano oramai dimenticate.
In un suo recente libro di ricordi giovanili, Ivan Bunin, il grande scrittore russo sotto la cui penna ogni parola diventa luce di poesia, ricorda spesso questi uccelli che hanno un loro mistero quasi di favola vivente.
Egli li ricorda con grazia e simpatia; forse anche perchè il suo primo e credo unico delitto fu contro uno di questi intelligentissimi volatili, che animavano i campi, i cortili, i tetti della sua pittoresca dimora, quando ancora bambino, solo per il gusto atavico e certo barbarico di adoperare un pugnale forse un giorno appartenuto a un guerriero tartaro, uccise crudelmente una povera gracchia già ferita e impotente a difendersi.
Si riscatta, il poeta, ricordando in seguito le belle irrequiete cornacchie e tingendole di un colore vivido, iridato come quello delle loro piume quando riflettono la luce della primavera. E dovunque, nel paesaggio, nei giardini, nella stessa casa dove il giovinetto irradia la pienezza della sua vita meravigliosa, un volo, un convegno, un canto di gracchie, un loro passaggio, mettono sfumature e toni di gentilezza pensierosa, che trascendono dai soliti particolari paesistici.
Ecco, mentre va a caccia col padre, vede fra chine nude e solitarie di un burrone alcune gracchie radunatesi «qua e là quasi prive di asilo allo scoperto, pensierose». Sedevano, egli dice; e realmente, quando la cornacchia riposa, si piega sulle zampe e pare seduta. «Mio padre le guardò, e disse che anche le gracchie cominciavano, come si suole nell’autunno, a radunarsi in consiglio, a pensare alla loro partenza».
Più in là, al loro ritorno dai paesi del sud, esse rianimano i luoghi cari al poeta. «Monotone, solenni e trionfanti, senza turbare il mite silenzio del giardino, gridavano le gracchie, lontano, nelle bassure delle vecchie betulle». «L’incessante, discorde grido delle gracchie, che, con impetuosa e dolorosamente felice ebbrezza, strillavano e si davano da fare in tutti i giardini circostanti...».
Poi ricade l’autunno, e anch’esse s’immelanconiscono di nuovo, con una sensibilità nostalgica, difficile a ritrovarsi in altri uccelli migratori. «Sui frontoni riscaldati dal sole delle scalinate se ne stavano piacevolmente strette, come monachelle, le gracchie di solito chiacchierine, ma ora molto quiete».
Per sette anni una giovane cornacchia nera ha abitato la nostra casa. Era un maschio, ma per lungo tempo l’abbiamo creduta, o preferito di crederla, una femmina, per la sua incomparabile bellezza, per il modo di muoversi, dirò quasi elegante, per la morbidezza delle piume, ed anche, dopo un certo periodo di addomesticamento, per la sua fiera bontà. Per una debolezza superstiziosa, o meglio per innocente astuzia, suggerita dall’amore pietoso che sentivamo per lei, a proteggerla contro la probabile avversione delle persone di servizio ed anche di qualche membro della famiglia, si era escogitato il rimedio di far credere che essa rappresentasse quasi un uccello sacro, un essere che spandeva intorno a sè un fluido benefico, una specie, insomma, di amuleto animato, un simbolo apportatore di fortuna. Ma non ce n’era di bisogno: poichè in casa tutti, e specialmente le donne di servizio, le vollero bene. Tutti, nel quartiere, la conoscevano: grappoli di ragazzi stavano di continuo arrampicati alla cancellata del giardino, per vederla e chiamarla. Dal pergolato o dalla terrazza, o anche se stava dietro la casa, essa rispondeva, e il suo strido non era sempre uguale: poichè con un istinto meraviglioso conosceva le voci amiche e quelle che non lo erano; o se anche semplicemente si beffavano di lei. Quest’istinto, più che umano, ha per lunghi anni destato in noi un senso di sorpresa e, a volte, quasi di turbamento. Poichè la nostra ospite non si sbagliava neppure un attimo sulla natura dei sentimenti dei personaggi che capitavano in casa; e a taluni andava incontro, si lasciava lisciare ed anche prendere, ad altri saltava addosso inferocita, e, se essi si indugiavano, metteva in allarme tutta la casa coi suoi stridi nemici. Guai, poi, se vedeva qualcuno portar via roba di casa: la lavandaia aveva di lei un sacro terrore ogni volta che veniva a prendere i panni.
E si sarebbe detto che conoscesse persino il carattere delle cose che gli conveniva toccare o no: certo gli oggetti lucenti, gli anelli, i bottoni, gli aghi, il ditale, le piccole monete dimenticate in qualche angolo, erano trafugati e nascosti da lei, ma bastava che io le dicessi, quando dallo spigolo del tavolo da lavoro essa mi faceva compagnia e assisteva alle mie piccole industrie: «Checca, rimetti a posto il ditale», perchè questo ricomparisse miracolosamente nel cestino del cucito. Lasciata sola, strappava sistematicamente i giornali che le capitavano sotto, quasi indispettita che, per leggerli, si trascurasse di darle attenzione; ma non toccava i libri; e, poichè anche ai miei lavori di scrittura assisteva spesso, posata sull’orlo dello scrittoio, lacerava, se gliene lasciavo l’occasione, qualche lettera e qualche nota; ma non toccò mai una delle mie cartelle; e una volta, ricordo, fra le carte intaccate dal suo becco impertinente, rispettò solo una lettera per me importantissima.
Casi? Saranno; ma curiosi e interessati. Essa girava per le stanze con piena libertà, e preferiva gli angoli più belli; spesso si nascondeva, certo per un atavico istinto, ma rispondeva, se chiamata, da una lontananza illusoria di foresta; e se non rispondeva, se anche la si cercava affannosamente fuori di casa, voleva dire che era in un ripostiglio noto a lei sola, a covare un nido immaginario. Curiosa in modo straordinario, si interessava e si rallegrava, — o si allarmava, — di ogni novità. Se i pacchetti che andavano via di casa formavano il suo tormento, quelli che arrivavano ne erano la delizia: non aveva pace finchè non vedeva il loro contenuto, e pareva volesse aiutare ad aprirli, col suo becco industre e potente, sciogliendone lo spago. Ma certi oggetti sconosciuti le destavano un inconcepibile terrore: un mio vestito a fiorellini rossi dovetti portarmelo via in campagna, perchè fu la cosa che più la costrinse, ogni volta che lo vedeva, a fuggire e nascondersi. Forse perchè questo vestito chiassoso e giovanile non era adatto per la sua austera padrona.
E come la piccola Checca era misurata, parca, sana nel suo metodo di vita! Faceva il bagno tutti i giorni, e l’acqua doveva essere più che limpida; anzi l’assaggiava, poi immergeva la testa per provarne la temperatura, e infine si spruzzava le ali o saltava dentro la catinella perchè l’abluzione fosse più completa: infine si metteva al sole, ed erano estasi veramente piene di voluttà quelle che poi la compensavano di tanti altri godimenti dei quali la sua vita schiava certamente la privava. Più selvaggio dell’animale nato per la libera vita degli spazî è certamente l’uomo che lo rende suo prigioniero: solo conforto a chi ne sente un certo rimorso è il vedere come l’animale si adatta, si affeziona, si educa spontaneamente alla sua innaturale esistenza. La nostra Checca era diventata una cornacchia perfettamente domestica: si metteva sul nostro ginocchio o sulla spalla; stava accanto al fuoco per scaldarsi; col becco tirava il lembo della sottana alla cuoca per avvertirla che sentiva l’odore della carne e farsene dare un pezzettino; dallo spigolo della tavola da pranzo assisteva ai nostri pasti, e non mangiava i cibi se non i più delicati; sbucciava i frutti, rifiutandone i semi; beveva dal bicchiere; e se uno della famiglia le faceva ingiustamente un torto, sapeva a chi ricorrere per lamentarsi e ottenere conforto. E se uno di noi era triste, o stava male, ella lo sentiva benissimo: s’immelanconiva, si metteva sulla spalliera della poltrona, o sul ferro sotto il letto del sofferente, e non mangiava, non riprendeva la solita vita finchè la vita familiare non riprendeva il suo ritmo. Ma nei sette anni ch’essa stette con noi, nulla di veramente doloroso accadde: fu un’epoca di serenità, di lavoro, di speranza: di quelle che si ricordano con riconoscenza verso Dio.