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metteva al sole, ed erano estasi veramente piene di voluttà quelle che poi la compensavano di tanti altri godimenti dei quali la sua vita schiava certamente la privava. Più selvaggio dell’animale nato per la libera vita degli spazî è certamente l’uomo che lo rende suo prigioniero: solo conforto a chi ne sente un certo rimorso è il vedere come l’animale si adatta, si affeziona, si educa spontaneamente alla sua innaturale esistenza. La nostra Checca era diventata una cornacchia perfettamente domestica: si metteva sul nostro ginocchio o sulla spalla; stava accanto al fuoco per scaldarsi; col becco tirava il lembo della sottana alla cuoca per avvertirla che sentiva l’odore della carne e farsene dare un pezzettino; dallo spigolo della tavola da pranzo assisteva ai nostri pasti, e non mangiava i cibi se non i più delicati; sbucciava i frutti, rifiutandone i semi; beveva dal bicchiere; e se uno della famiglia le faceva ingiustamente un torto, sapeva a chi ricorrere per lamentarsi e ottenere conforto. E se uno di noi era triste, o stava male, ella lo sentiva benissimo: s’immelanconiva, si metteva sulla spalliera della poltrona, o sul ferro sotto il letto del sofferente, e non mangiava, non riprendeva la solita vita finchè la vita familiare non riprendeva il suo ritmo. Ma nei sette anni ch’essa stette con noi, nulla di veramente doloroso accadde: fu un’epoca di serenità, di lavoro, di speranza: di quelle che si ricordano con riconoscenza verso Dio.

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