Il cappello del prete/Parte seconda/IX
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IX.
Un morto e un risorto.
È una brutta giornata piovosa. Le case di Santafusca avvolte nelle nubi hanno un aspetto triste e malato.
Don Antonio è moribondo.
Da ieri le donne, i vecchi, i fanciulli stanno raccolti sulla soglia della sua casa, sui gradini della scala, e pregano piangendo per la pace del vecchio padre che sta per lasciarli.
È venuto il prete di San Fedele e siede al capezzale a consolarne gli ultimi istanti.
Nessuno avrebbe mai creduto, ad onta della grave età, che il buon piovano sarebbe precipitato così d’un colpo, e di quella febbre maligna che il medico non sa definire. Speravano d’averlo ancora per molti Natali e il vecchio aveva promesso di condurre a termine certe operazioni del suo giardino...., ma Dio comanda e vuole.
Martino andava ripetendo che il cappello del prete l’aveva ucciso.
— Voi sapete — diceva — lo scrupolo e la santità di don Antonio. L’antico testamento non ha un patriarca più giusto, se non è Abramo, il quale lasciò trarre sul monte e mettere sulla catasta il proprio figlio per obbedienza di Dio. È caduto in casa il «cappello del diavolo» a seminare gli scrupoli prima, poi il castigo, poi il delitto ed il sangue,... Dio conceda almeno al santo pastore il transito del giusto!
— Dio lo conceda! — ripetevano le donne, e tornavano a pregare per la sua pace.
Don Antonio, assopito nel suo letto di morte, di tanto in tanto mandava dei gemiti, voltava la faccia come se non volesse vedere un brutto fantasma, o alzava in un estremo sforzo la mano per togliersi dal petto un’ombra che funestava le ultime visioni della sua coscienza.
La campana seguitava a piangere per lui in mezzo alla pioggia, e le case di Santafusca si chiudevano in una più bigia tristezza.
Fu con questo cielo, con quest’agonia, che il cavaliere Martellini, accompagnato dal cancelliere, da don Ciccio e da alcune guardie, arrivò a Santafusca in cerca di prete Cirillo.
La confessione del barone non poteva essere più esplicita e più tremenda. Ciò che non aveva detto prima, andava dicendo e ripetendo ora nel suo furioso delirio, mentre legato come un toro che si trae al macello, dibattevasi nelle convulsioni di una pazzia spaventosa.
Egli parlava confusamente, ridendo, fischiando, urlando, di filosofia, del dottor Panterre, di corse di cavalli, di carte, di donne, di prete Cirillo; lo chiamava per nome, lo beffeggiava, lo avvertiva di non fidarsi del cacciatore che voleva ammazzarlo, e quando la scena del cortiletto gli ritornava a mente, «u barone» diventava un terribile artista, e declamava il dramma del suo delitto con moti e con parole di cupa evidenza.
— Questa è proprio una giornataccia da funerale, — disse il cavaliere, stringendosi in uno scialle e coprendosi alla meglio col suo ombrellino dalla pioggia. E anche questa campana aiuta a creare l’ambiente. Oggi si parla tanto dell’ambiente!
Don Ciccio che camminava vicino rispose:
— Oggi si fanno in generale troppe parole; però io l’avevo detto.
— Che cosa, don Ciccio? che doveva piovere?
— Avevo detto che l’avrei trovato il mio morto.
Don Ciccio pronunziò queste parole con un mezzo sorriso di trionfo.
— Sta a vedere che ora siete contento....
— Non per prete Cirillo, poverino; ma per la vostra giustizia che disprezza i vecchi occhiali....
— Torniamo all’antico, volete dire....
— Voglio dire che l’uomo sarà sempre homini lupus.
Arrivarono alla villa. Chiamato il segretario e un fabbro, fu per la seconda volta aperto il cancello, e fu, in mezzo alla disgrazia, una piccola fortuna, che le donne, i ragazzi e la parte più paurosa della popolazione fosse raccolta a piangere e a pregare sulla soglia e sulla scala del parroco moribondo. Martino, attaccato alla corda della campana, dava i suoi colpi lenti, singhiozzanti, asciugandosi di tanto in tanto gli occhi colla manica, intercalando ai colpi qualche versetto latino tolto al libro della messa.
— Conduceteci alle scuderie, — disse il giudice al segretario.
— Le signorie vostre favoriscano per di qua.
La triste compagnia si avviò verso le scuderie.
Attraversarono una legnaia, giunsero nel cortiletto, e si arrestarono in silenzio davanti al mucchio che formavano i mattoni, la sabbia, la calce.
Tutto era ancora al suo posto, fin la leva di ferro conficcata nella calce.
— Vengano due uomini con badili, — disse il giudice.
E mentre il segretario andava in cerca degli uomini, i presenti girarono gli occhi intorno in silenzio pel triste andito.
Pioveva, e l’acqua del tetto, cadendo nel cortile, saltellava sopra un piccolo selciato. Per non bagnarsi troppo don Ciccio e il giudice si trassero verso la stalla, e stavano citando ancora l’autorità di Puffendorf, quando intesero un gemito lungo che pareva venisse di sotterra.
Era ancora il cane di Salvatore, che stormì nello strame, e fuggì attraverso le gambe di don Ciccio, che mandò un ringhio.
Il cavaliere si sforzò di sorridere, ma i muscoli della bocca questa volta erano irruginiti.
Tuttavia, non volendo perdere la sua fama di uomo di spirito, mormorò:
— «Homo homini canis»....
— È lo stesso! — si affrettò a dire don Ciccio per farsi vedere superiore a certe paure, e credo volesse dire che, o cane o lupo, l’uomo è anche lui una brutta bestia.
Vennero gli uomini coi badili e cominciarono a smuovere il materiale morto. Tolsero i mattoni, la calce, la sabbia, e misero a nudo la grossa pietra della cisterna.
*
Martino sonava ancor più lento e triste.
Il medico, facendosi largo tra le donne inginocchiate sulla scala e sul pianerottolo, disse stringendo la sua canna sotto un braccio e il fazzoletto sotto l’altro:
— La terra ha un giusto di meno, e il cielo un santo di più. Fu una congestione cerebrale.
Le donne cominciarono a rispondere alle preghiere dei morti, che il prete recitava nella stanza.
Non piangevano più, per quella sicurezza morale che vien dal fatto compiuto e dalla convinzione che non resta più nulla a sperare. La sicurezza di avere un santo di più in paradiso rendeva quelle preghiere più calde e confidenti. Non si sarebbe potuto distinguere se pregassero per don Antonio, o se già lo invocassero come un santo protettore.
Quando fu loro concesso, entrarono nella sua stanza in processione e, facendo il giro intorno al letto, baciarono le sue mani e i suoi piedi, toccarono le sue vesti, e si sparsero poi per tutta la casa, nello studiolo, lieti di immaginarlo vivo ancora, seduto nel suo seggiolone davanti a’ suoi libri, che vollero toccare colla riverenza con cui si mette la mano sul messale.
Poi, pigliando il momento che l’acqua taceva un poco e che l’aria si schiariva nel sole, uscirono nel giardino e tutti colsero una rosa per memoria, che appuntarono al petto dopo averla baciata come una reliquia.
Quando Martino cambiò campana e suonò mezzodì, la folla si riversò nella piazzuola e prese a scendere verso le case per il desinare, non più piangente, ma quasi consolata e lieta d’aver baciato le mani del santo.
Pareva una vera festa di maggio con tante rose in seno alle belle ragazze.
Scendevano tutt’insieme, vecchi, ragazze e donne, verso il centro del villaggio, quando videro venire in su, sbuffando, pallido come un fantasma, il segretario che gridava:
— Indietro, indietro.... lasciate passare!
Subito dopo la gente vide passare un grosso signore vestito di nero, avvolto in uno scialle: dietro di lui un altro signore piccolo, col cappello di pelo bianco arruffato, e dietro alcune guardie, e poi degli uomini che portavano una barella.
Portavano prete Cirillo a seppellire in terra sacra.
fine