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— Voi sapete — diceva — lo scrupolo e la santità di don Antonio. L’antico testamento non ha un patriarca più giusto, se non è Abramo, il quale lasciò trarre sul monte e mettere sulla catasta il proprio figlio per obbedienza di Dio. È caduto in casa il «cappello del diavolo» a seminare gli scrupoli prima, poi il castigo, poi il delitto ed il sangue,... Dio conceda almeno al santo pastore il transito del giusto!

— Dio lo conceda! — ripetevano le donne, e tornavano a pregare per la sua pace.

Don Antonio, assopito nel suo letto di morte, di tanto in tanto mandava dei gemiti, voltava la faccia come se non volesse vedere un brutto fantasma, o alzava in un estremo sforzo la mano per togliersi dal petto un’ombra che funestava le ultime visioni della sua coscienza.

La campana seguitava a piangere per lui in mezzo alla pioggia, e le case di Santafusca si chiudevano in una più bigia tristezza.

Fu con questo cielo, con quest’agonia, che il cavaliere Martellini, accompagnato dal cancelliere, da don Ciccio e da alcune guardie, arrivò a Santafusca in cerca di prete Cirillo.

La confessione del barone non poteva essere più esplicita e più tremenda. Ciò che non aveva detto prima, andava dicendo e ripetendo ora nel suo furioso delirio, mentre legato come un toro che si trae al macello, dibattevasi nelle convulsioni di una pazzia spaventosa.

Egli parlava confusamente, ridendo, fischiando,