Il cappello del prete/Parte prima/VII
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VII.
Troppa fortuna.
Costui, come abbiamo detto, giocava e vinceva sempre. Mentre distribuiva le carte al marchese Vico Spiano, colse la palla al balzo per tirare il discorso sulla questione della ipoteca. Senza alzare gli occhi dalle carte, gli disse:
— Fu da me ieri un certo prete a dirmi che tu avevi promesso di cedergli l’ipoteca di Santafusca.
— È vero, me ne ha parlato il mio amministratore, mostrandomi la convenienza dell’affare. Ho scritto al prete, ma non l’ho mai più visto.
— Immagino chi possa essere, — soggiunse il barone, distendendo tranquillamente le carte sulla tavola. — Io era venuto nell’idea di vendere anche quei quattro sassi, per far onore ai miei debiti di giuoco. Ma oggi la fortuna «va cangiando stile», come dice il Petrarca. Se tu hai tempo, posso rilevare io stesso la tua ipoteca....
Il barone rise forte alzando gli occhi all’orologio. Erano appena le due di notte e i gentiluomini si divertivano tanto che avrebbero fatto male a smettere così presto.
— Resto fino a coprire la somma dell’ipoteca, — disse il marchese di Spiano, — e giuoco i miei crediti.
— Poichè ho il diavolo dalla mia, non abuserò della posizione. Voltiamo queste quattro carte. Ecco qua la donna di bastone. Hai sonno, Vico?
— Un poco.
— Facciamo dunque i conti di banco. Tu mi devi ottocento lire: è poco per pagare l’ipoteca. Ma se vuoi arrischiarla tutta sul mazzo, lascio a te il taglio. Ecco qua il mio denaro.
Il marchese prese il mazzo, tagliò. Perdette.
— Ora siamo in pace, — esclamò il barone ridendo nella barba. — Con tuo comodo mi fai avere a casa quel documento. Le ombre dei vecchi Santafusca si rallegreranno. Quell’ipoteca era una macchia d’olio sopra un vecchio arazzo....
Poco dopo «u barone» stanco, affranto dalle fatiche, dalle emozioni, dal giuoco, si addormentava sopra un canapè nella sala stessa del club, e si addormentava di un sonno tenace e vischioso come la pece.
Turbata meno da sogni che da visioni rapide e sconnesse, la sua mente si ravvolgeva nel fondo oscuro di un sillogismo, che usciva dalle più cupe caverne del cervello, si affacciava rotto, lacerato, velato in parte; e dava quindi una pena insopportabile lo sforzo che in mezzo a fantasmi sucidi e piatti di ragnatele egli doveva fare per mettere insieme i brandelli di quell’argomentazione scucita, che ricadeva sul suo capo col volo pesante di un uccellaccio. Passavano in quel sonno di piombo cose luminose e cose nere, pezzi di mare, pezzi di muro grigio, macchie biancastre di calce viva, rotte scale di cantine e di sotterranei; in mezzo alle quali cose si raggirava il suo sillogismo coll’aspetto di un prete che andasse rovistando qualche cosa nelle spazzature. E quel prete non era infine che il dottor Panterre, vestito da prete, per burla, con quella sua faccia a grossi zigomi, che rideva.... e poi tornava ancora il concetto che si ficcava dolorosamente tra le pieghe della materia cerebrale e diceva: «L’uomo vale una lucertola....».
Così riposò, ronfiando col versaccio dell’orso, fino alle nove del mattino.
Quando aprì gli occhi si guardò intorno e stentò a riconoscere il luogo. La luce scialba d’una giornata piovosa entrava nei finestroni e versava la sua tristezza sui tavolini da giuoco, sulle sedie in disordine e nell’aria della sala deserta e fredda, che poche ore prima era risonata di risa, di ciarle, di pugni e di bestemmie.
Sopra un piatto d’argento brillavano le marchette di oro e i biglietti variopinti, che rappresentavano la vincita del barone, come egli l’aveva lasciata sulla tavola prima di chiudere gli occhi.
La vista di tutti quei denari richiamò alla memoria del giuocatore le ultime impressioni della notte, riconobbe il luogo, si ricordò d’aver giuocato disperatamente, e un’ultima eco del frastuono e delle ciarle della notte si risvegliò nella sua testa confusa.
Per quanto egli avesse dormito più del solito, si sentiva gli occhi affumicati, la bocca amara e un senso di tristezza in tutto il corpo, di cui non sapeva rinvenire la cagione. Quindi a poco a poco, e quasi risalendo di sensazione in sensazione, come se montasse una rapida scala a piuoli, si ricordò di aver pranzato al caffè dell’Europa, di aver trovato l’Usilli, di aver viaggiato il giorno prima, di avere.... Arrivato in cima alle sue reminiscenze, trasalì, si guardò intorno spaventato, si mise a sedere, sentì i polsi del capo battere con violenza, il cuore farsi piccino e stretto.
Per fortuna era solo.
Lasciò che passassero anche queste sensazioni. La vita è un fiume che dopo un uragano ha le acque torbide; ma lasciate passare dell’acqua, e a poco a poco il fiume andrà schiarendosi.
Toccò il bottone d’un campanello ed ordinò a Raffaello, il custode del club, un caffè con molto rhum.
Stette un poco a discorrere con lui di cose indifferenti, per abituare la voce e per muovere lo spirito.
Raccolse il denaro senza contarlo, riflettendo in cuor suo che, se la fortuna fosse arrivata un giorno prima, egli avrebbe potuto risparmiare di ammazzare il prete.
— Il paradiso e l’inferno sono in fondo a un sacchetto. Tu vi cacci la mano e tiri a sorte....
Così brontolava, scendendo lo scalone. Si sentiva stracco.... specialmente le braccia.
Giunto sulla porta, stette ad osservare svogliatamente il via-vai della gente che si rimescolava in varie direzioni, col passo lesto e dritto di chi sa dove va e quel che fa. Non pioveva più, ma l’atmosfera era bigia, carica di vapore. Le strade fangose, tetre.
Egli si sentiva una volontà piena di stoppa. Non sapeva se andare a casa, o se far visita a Marinella, o se doveva far colazione. Non aveva fame, anzi si sentiva la bocca amara ed impastata.
Passavano carrozzelle, birocci, omnibus pieni di gente: ognuno aveva un pensiero in capo, una voglia in corpo, qualche cosa da dire, da portare, da ricevere. Egli si trovava invece d’essere un uomo perduto in mezzo alla gente, precisamente come se la fatica fatta per ammazzare quel prete avesse consumata tutta la freschezza della sua vita e vivesse in sè come un uomo secco in un guscio secco.
Uno strano desiderio lo condusse verso i quartieri popolari del Mercato: ma a un certo punto si fermò. Gli sembrò che Napoli fosse piena di preti. Non ne aveva mai visti tanti. Ne spuntava uno ad ogni angolo. Forse egli ci badava per la prima volta. Quanti preti!
Cominciò ad osservare le stampe e le fotografie, davanti alla bottega d’un libraio, e si lasciò tentare a comperare i «Viaggi di Stanley nel Continente africano». Aveva bisogno di emigrare almeno col pensiero, finchè molta acqua fosse passata.
Ma sentiva già che è più facile uccidere un uomo, che uccidere un pregiudizio.
Egli non avrebbe potuto rassegnarsi a vivere così, a minuto a minuto come un orologio. Bisognava dare alla vita una buona scossa e far cadere con un colpo tutte le foglie morte.