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logio. Erano appena le due di notte e i gentiluomini si divertivano tanto che avrebbero fatto male a smettere così presto.

— Resto fino a coprire la somma dell’ipoteca, — disse il marchese di Spiano, — e giuoco i miei crediti.

— Poichè ho il diavolo dalla mia, non abuserò della posizione. Voltiamo queste quattro carte. Ecco qua la donna di bastone. Hai sonno, Vico?

— Un poco.

— Facciamo dunque i conti di banco. Tu mi devi ottocento lire: è poco per pagare l’ipoteca. Ma se vuoi arrischiarla tutta sul mazzo, lascio a te il taglio. Ecco qua il mio denaro.

Il marchese prese il mazzo, tagliò. Perdette.

— Ora siamo in pace, — esclamò il barone ridendo nella barba. — Con tuo comodo mi fai avere a casa quel documento. Le ombre dei vecchi Santafusca si rallegreranno. Quell’ipoteca era una macchia d’olio sopra un vecchio arazzo....

Poco dopo «u barone» stanco, affranto dalle fatiche, dalle emozioni, dal giuoco, si addormentava sopra un canapè nella sala stessa del club, e si addormentava di un sonno tenace e vischioso come la pece.

Turbata meno da sogni che da visioni rapide e sconnesse, la sua mente si ravvolgeva nel fondo oscuro di un sillogismo, che usciva dalle più cupe caverne del cervello, si affacciava rotto, lacerato, velato in parte; e dava quindi una pena insopportabile lo sforzo che in mezzo a fantasmi