Il cappello del prete/Parte prima/III
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III.
Alla vigilia del delitto.
Il barone stava aspettando con una certa inquietudine il suo salvatore.
Il palazzotto dei Santafusca, d’un grosso e pesante stile seicento, da molti anni abbandonato alle eriche, all’edera e alle ortiche, presentava in mezzo alla sua grande decadenza ancora qualche vestigio dell’antica suntuosità.
Un lungo viale di platani secolari menava alla casa attraverso a un parco chiuso, dove il tempo e la negligenza avevano seminato ogni sorta di erbe e di lappoli, fin sui gradini stessi della doppia scalea, che un gonfio stile rococò portava al terrazzo della casa.
Nè qui finiva l’invasione del verde. Edere e glicini e viti silvestri si arrampicavano avviluppate anche alle pareti della casa fin quasi al tetto, stendendo dei larghi tappeti lungo i muri, entrando fra le fessure delle persiane, stringendosi ai ferri delle finestre, ingombrando l’ingresso delle porte.
Dei vecchi mozziconi di statua, che una volta rappresentavano Giove o Mercurio, non erano oggi che un ammasso informe di frasche o di vilucchi, in cui il sasso nero giaceva morto e sepolto, e vedevi l’erba uscire fin dalle corrose ardesie del terrazzo, a far beate le lucertole.
L’interno era più squallido.
Tutte le vecchie suppellettili, i vasi, gli stemmi, i candelabri, i quadri preziosi avevano emigrato da un pezzo, non a pagare i debiti del padrone, ma a riempire qualche buco della vecchia nave che faceva acqua da tutte le parti. Erano molti anni che il silenzio e la miseria intristivano una casa dove quarant’anni prima aveva regnato il chiasso, il fasto e l’orgoglio d’una grande famiglia del reame.
Non parlo delle feste del principio del secolo e dei trionfi dell’altro secolo, quando i Santafusca comandavano nè più nè meno dei Borboni a Napoli.
In quei tempi i vecchi contadini avevano udito dire delle caccie rumorose e principesche del barone Nicola, che andava attorno sempre armato di pistolotto, e si raccontavano avventure tremende di rapimenti, di voluttà, di orgie, di delitti.
Che cosa era rimasto di tutta questa potenza? Nulla, anzi meno che nulla, perchè «u barone» Coriolano oggi valeva meno di un tronco di statua. Non solo egli era debitore dell’aria che respirava, ma la prigione era sua creditrice.
Queste cose rivolgeva egli stesso nella mente la mattina del famoso giovedì, mentre, passeggiando in su ed in giù per la fredda e nuda galleria che dava sul terrazzo, stava aspettando il suo prete.
Di tutto l’antico fasto non rimanevano oggi che lembi di broccato sospesi ai muri, brandelli di cornicioni dorati, le vôlte dipinte, qualche buon mosaico; ma la tristezza, il deserto, la rovina erano maggiori.
Tranne un paio di cameruccie a pian terreno, dove Santafusca aveva nascosto un letto e quattro sedie per sè, più come una tana di rifugio che per un luogo di riposo, il resto della casa era interamente vuoto. Chiuse tutte le persiane, chiuse tutte le porte, l’umido e il freddo davano a quelle vaste sale un’aria di grandi sotterranei, in cui risuonava l’eco dei passi e svolazzavano ombre misteriose.
Dove la tenebra era più fitta, per la grande quantità delle frasche, che avevano stesa una tenda sulle gelosie, i pipistrelli avevan fatto il loro sordido nido, ed «u barone» non osava accostarsi per paura di risvegliarne l’immonda tregenda.
Alla villa capitava di tempo in tempo, come un fantasma anche lui, quando era più nero e più in collera colla fortuna; ma non si fermava mai più di un giorno o due, il tempo cioè di togliere ciò che si poteva ancora scassinare della vecchia magnificenza; e se ne andava come era venuto, senza vedere nessuno, dopo aver diviso con Salvatore un pranzo alla cacciatora.
Salvatore, già avvilito da un colpo di apoplessia, vecchio di settantanni, mezzo orbo e mezzo scemo, passava il suo tempo in quel deserto, in compagnia del suo cane nero e di alcune capre ch’egli lasciava pascolare nel parco. Viveva anche lui di qualche detrito, come un vecchio sorcio, vendendo l’erba che non mangiavano le capre, coltivando quattro frasche di insalata, e raccogliendo i fichi ed i mandorli che cadevano dalle piante. Le capre ed alcune galline provvedevano al suo pranzo e alla sua cena.
Nella sua decadenza non riconosceva «u barone» che al suono imperioso della sua voce e al colore nero della barba. Allora un’antica forza svegliavasi in quel vecchio, che dormiva le sue giornate al sole, e, bene o male, Salvatore moveva le gambe e le braccia nel senso delle antiche abitudini di obbedienza e di rispetto, come un vecchio telaio guasto che conserva ancora l’ossatura del suo buon tempo.
Il barone arrivò, come dicemmo, il mercoledì, e rimase a dormire la notte alla villa.
Dormire non sarebbe la parola giusta, perchè troppe cose egli doveva pensare per poter chiudere gli occhi al sonno. Ma non fu nemmeno un vegliare ad occhi aperti. Quel trovarsi solo in un luogo così grande e deserto, alla vigilia di un fatto tanto importante, aizzato da una parte dalla paura e dai debiti, aizzato dall’altra da diaboliche suggestioni, disposto a tentare un gran colpo, ma ancora in sospetto di non aver provveduto abbastanza; quel silenzio profondo, quelle ore eterne, quel letto duro imbottito di stecchi, tutto ciò non doveva lasciarlo dormire.
Ma d’altra parte la mente si sprofondava in sogni che non avevano nulla a che fare colla realtà.
Il prete era ricco e pauroso; minacciato, tormentato, avrebbe comperata la sua salvezza col suo sangue, cioè col suo denaro. Ma come si doveva fare? e poi? e se il prete l’avesse denunciato? Non rimaneva di sicuro che di ammazzarlo.
E come si doveva fare? dove tirarlo? Il vecchio era sospettoso. Non trovando il notaio, come era stato convenuto, non avrebbe messo fuori i denari, forse egli veniva senza denari o con titoli legati al suo nome. Bisognava anche su questo punto operare con prudenza, con spirito, fargli una lieta accoglienza, indurlo a parlare, fargli vedere il palazzo, il gran salone di sopra, le cucine, le stalle, le cantine...., ripeteva il suo pensiero, sottolineando, sto per dire, questa parola...., le cantine.
Se egli poteva persuadere il prete a discendere una dozzina di gradini, fin dopo il primo portone di legno, una volta rinchiuso là sotto, non c’era ne Dio, nè Cristo, nè Belzebù, che avrebbero potuto aiutarlo. E una volta rinchiuso il battente, addio!... — C’erano dei laberinti spaventosi laggiù, avanzi ancora d’un vecchio castello medioevale, sul quale era sorta la nuova villa, e nessuno osava per paura metterci il piede.
Era proprio il paese del nulla e di nessuno, dove le cose compiute non esistono più. Ma bisognava persuadere il vecchio a discendere.... e prima bisognava sincerarsi che avesse i denari indosso, oppure bisognava strappargli dalle unghie una procura, una cambiale, qualche cosa....
«U barone» sospirava forte e si rotolava nel letto.
Qui cominciavano i sogni. Luoghi bui, antri, caverne, stalle, scuderie, grotte, bassifondi, tinaie, legnaie, pozzi, androni, solai, sotterranei neri, scale nere e umide, e molte ragnatele, grandi, forti, che lo invischiavano, lo avviluppavano, gli impedivano il passo e il movimento delle braccia, e una lotta grottesca tra lui e un grosso ragno nero, che non era in fondo che il suo prete.
— Oh! — gridò una volta, mettendosi a sedere sul letto. Albeggiava. Nel giardino e nella selva cinguettavano gli uccelli.
Una dolce memoria della sua infanzia, come se passando vicino gli ventilasse il viso coll’ala, ringiovanì e rinfrescò per un istante il suo pensiero. Oh le belle mattine, quando scendeva dal letto e correva a respirare l’aria pura, a rinfrescarsi nella rugiada che sgocciolava dalle rose fiorite! e quando usciva colla civetta a caccia, e quando s’inginocchiava al suono vivo dell’Avemaria! Era ancora la stessa campana che sonava al chiarore dell’alba. Era ancora don Antonio, il prete che lo aveva battezzato....
Ma allora era facile il problema della vita. Non c’erano i carabinieri in agguato dietro l’uscio, e non si sapeva ancora che cosa fosse un procuratore del re. Oggi era tutto cambiato. Se il prete non gli portava i denari, tra due giorni un Santafusca sarebbe stato denunciato alla procura. Questo era certo, e per un gentiluomo l’infamia è peggio della morte.
Perchè non si ammazzava? perchè non usciva da questi imbrogli feroci?
Certo meglio ammazzarsi, che farsi legare dai questurini. A questa idea, il sangue dei vecchi Santafusca ribolliva nelle sue vene, mandava un grido, saliva alla testa in un fiotto, le livide pareti si tingevano di rosso, e rosse apparivano tutte le piante del giardino.