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togliere ciò che si poteva ancora scassinare della vecchia magnificenza; e se ne andava come era venuto, senza vedere nessuno, dopo aver diviso con Salvatore un pranzo alla cacciatora.

Salvatore, già avvilito da un colpo di apoplessia, vecchio di settantanni, mezzo orbo e mezzo scemo, passava il suo tempo in quel deserto, in compagnia del suo cane nero e di alcune capre ch’egli lasciava pascolare nel parco. Viveva anche lui di qualche detrito, come un vecchio sorcio, vendendo l’erba che non mangiavano le capre, coltivando quattro frasche di insalata, e raccogliendo i fichi ed i mandorli che cadevano dalle piante. Le capre ed alcune galline provvedevano al suo pranzo e alla sua cena.

Nella sua decadenza non riconosceva «u barone» che al suono imperioso della sua voce e al colore nero della barba. Allora un’antica forza svegliavasi in quel vecchio, che dormiva le sue giornate al sole, e, bene o male, Salvatore moveva le gambe e le braccia nel senso delle antiche abitudini di obbedienza e di rispetto, come un vecchio telaio guasto che conserva ancora l’ossatura del suo buon tempo.

Il barone arrivò, come dicemmo, il mercoledì, e rimase a dormire la notte alla villa.

Dormire non sarebbe la parola giusta, perchè troppe cose egli doveva pensare per poter chiudere gli occhi al sonno. Ma non fu nemmeno un vegliare ad occhi aperti. Quel trovarsi solo in un luogo così grande e deserto, alla vigilia di