Il buon cuore - Anno XIV, n. 42 - 16 ottobre 1915/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
L’ideale della Pace :: :: ::
Quest’anno il premio Nobel per la pace, con opportuna disinvoltura, non s’affannò a ricercare il genio favorito su cui posarsi. E sta bene: che sia lecito riempir di accademici progetti e di sonanti discussioni le erudite pagine di un’opera o le orecchie delle nuove generazioni quando la dea Pace distende le ali candide sulla terra e sul mare e che a queste seducenti idealità s’inchinino persino i reggitori di Stato, pur tra i taciti e tenaci armamenti — ineluttabili diplomatiche prudenze — nessuno vorrà con severo scetticismo censurare: ma l’esaltare quei progetti e quelle discussioni adesso, fra lo straripar di tanti odi, parrebbe uno strappo alla logica ed una profanazione.
Senonchè alle piccole ed alle grandi contraddizioni ci hanno abituato con troppa efficacia i buoni papà della filosofia, la scienza più seria e da prendersi, anche nel secolo finanziario, in maggior considerazione. Così avvenne ad A. Ficnte, l’autore del popolo normale, che mentre nell’opera del 1804-05 Linee fondamentali dell’età presente, era salito alla concezione di un disinteressato cosmopolitismo con quella sua teoria: «esiste sempre uno stato egemonico (che può essere anche non la Germania) patria ideale di tutti gli spiriti più illuminati»; dopo l’infausta giornata di Jena (1806), tra il minaccioso rullo dei tamburi napoleonici, smentì quella concezione, discese entro i venerati confini della patria e contrappose al popolo misto latino (mischwolck) il popolo germanico, il normale (urwolck), e pronunziò con scarso furore all’Università di Berlino, i famosi «Discorsi della nazione
tedesca» che furono la diana educatrice delle nuove generazioni ed uno dei più grandi fattori ideali della Germania. Ma queste sono inezie: chi ripensa I idealismo pacifista degli anni scorsi ed apre gli occhi sui campi della distruzione di oggi, certe contraddizioni le comprende con grande scoraggiamento e con un po’ di scetticismo, ma senza stozzo.
Eppure come si dilunga nei sogni attraverso i tempi questo ideale di pace! Chi non:rammenta le infuocate parole di Agostino nella monumeotale opera della Città di Dio, quando ponendo le basi della prima filosofia della storia, che fu teologica, mette in cima a tutte le aspirazioni dell’umanità la parola pace come principio dominatore della storia e con lo sguardo del profeta contempla, dietro al bagliore degl’incendi umani, purtroppo molto lontano, un nuovo cielo ed una nuova terra?
E tutto il Medio Evo è caratterizzato dall’urto formidabile tra questo ideale e la selvaggia brutalità degli odi: nella medesima contrada, nello stesso castello, attorno allo stesso focolare, accanto alle scene d’implacabile vendetta palpitano sogni di misericordia, di santità e di pace che l’arte ha fatto eterni e che noi ancora oggi ripensiamo in ginocchio. La profonda impressione che fece in quell’età la prosa tumuituosa e cabalistica di Gioacchino da Fiore è nata da quel contrasto che «il calabrese abate, di spirito profetico dotato» al dir di Dante, seppe pur nel mare delle allegorie e dei numeri, esprimere con profondo pensiero. Dalla disperazione, dai flagelli e dalle guerre sta per sorgere l’avvenire riparatore, la sospirata pace. E lo stile di Gioacchino, quasi sempre contorto e metaforico, si apre talvolta, sotto l’impeto dei sentimenti e la visione della felicità, a rivi di poesia sincera: «Sarà presto raggiunto il terzo periodo dell’umanità: nel primo rilucevan le stelle, nel secondo, biancheggia l’aurora, nel terzo è giorno pieno: nel primo si vive di timore, nel secondo si riposa nella fede, nel terzo si arde di carità; nel primo la servitù servile, nel secondo la figliale, nel terzo la libertà; nel primo il Padre, nel secondo il Figliuolo, nel terzo lo Spirito. Ubi spiritus ibi libertas». E’ il grande palpito della corrente mistica: è, secondo la felice frase di Wossler, lo stato di anima escatologico, che potrà deviare nell’eresia — si sa che da Gioacchino da F., uscì il movimento eretico degli Jachimiti — ma che col fatidico nome di «Evangelium aeternum» (con questo nome furono ristampate le opere di Gioacchino a Parigi, nel 1254) pretese nientemeno che di colmare una lacuna lasciata dalla dogmatica.3attolica. Dante stesso, che converse tutti gli sforzi del poderoso genio alla resurrezione degli antichi spiriti magnanimi.e con implacabile fierezza bollò la degenerazione de’ suoi tempi, nel De Monarchia sospira al raggiungimento «della pace e della giustizia», le due parole che più frequentemente ricorrono nella.sta opera; e per il raggiungimento della pace di quaggiù indica, panacea infallibile, la distinzione e l’indivisibilità dei due poteri, lo spirituale ed il temporale. Ma venne il tempo in, cui i (ktheologica documenta» consigliati, da Dante, ’furono ripudiati: al concetto di Dio, che si pretendeva non aver fatto sufficiente. prova di sè, fu sostituita quella di Natura., Pure, tra l’incessante creazione, di. nuovi valori e la sconfinava fiducia+in-sè stessi, l’ideale di pace non si smarrì, fu più chiesta a Diala.pace,"rna. alla ragione; non più con le, paline..congiunte• alla preghiera, ma cont’occhio -profondamente,immoto sulla corrente delle vite umane:-fu,-chi-esta.non più dai mistici, ma dagli Utopistir-o, come disse Ch. Renouvier,. dagli licronisti. platonichesperanze di T. Moro! e. gl’insistenti squilli (della campana, del- filosofo calabrese! e tutte: le fantastiche ricostruzioni. dell’età dell’oro, accarezzate conia, folliadei fanciulli! Ma l’ideale dellalpace, come sogno più strettamente politico, fu maggiormente vagheggiato dall’età moderna. Ladotta opera del Del Vecchio «Sulla guerra e Fidealedella pace attraverso gli ultimi: secoli nel. movimento filosofico.e politico dell’Europa moderna», Iumeggiacon.competenza tuffi, i tentativi fatti per raggiungere quello che purtroppo, e specialmente oggi, rimane sogno e non altro. Wittaire,. l’acerbo, e talvolta paradossale confutatore.dèll’ottirronismo di ricalcando le orme di B..de,-Saint-Pierre, prospettò la possibilità della soluzione arhitraledi tutti i.conflitti fra le nazioni e di un conseguente. stato di pace e d’armonia; a dir il vero, affrontando e superando secolari ostacoli con molta disinvoltura ma _con poca profondità, secondo il giudizio-che di sè stesso dice Sansone: «Je suis com.me les petits ruisseaux; ils sont transparents parce qu’il sont peu profonds». Hant fece qualcosa di, più. Tenace idolatra della ragione e ricostruttore vigoroso con essa di tutto quello ohe alla ragione fu possibile, nell’opera del 1795: (e Perla pace perpetua: progetto filosofico» afferma, con la,lede di un uomo senza dubbi, che la pace internazionale non è uno stato immaginario e che la Natura condurrà gli uomini a realizzarla in Europa. Ma H filosofo di Konisberg è poi scettico dinanzi al decantato.mezzo dell’equilibrio, delle potenze, la seducente utopia che egli paragona alla casa di cui parla lo
Swift, che, scrupolosamente rispondente alle regole
della statica, crolla quando un passero va a posarsele
sopra. «Non l’equilibrio delle Potenze — dice Hant
— ma la moralizzazione della vita internazionale».
Colui che entro i limiti della sola ragione aveva preteso di costruire una religione, si fa ancora una volta
paladino della sua idea onnipotente. «Dichiarate la
superiorità della morale sulla politica — dice ai reggitori delle nazioni — e la pace vi sarà data come un
soprapiù».
Così l’idealismo aprioristico di Hant si apre qua e
là a soffi di evangelica bontà per finire poi ineluttabilmente in sterili e gratuite affermazioni.
Oggi? oggi il dilettantismo filosofico e letterario, le
utopistiche discussioni ordite senza fiducia e svolte
senza successo tacciono stupite: oggi il palazzo dell’Aja, snebbiato dai sogni, guarda con ironia alla bufera immane, e romba dell’urlo delle sirene infrante
sul mare, e accoglie l’eco dolorosa dei feriti sui campi. Noi non discuteremo su questa bufera nè condanneremo queste utopie; ma lasceremo passare il lungo
inconsolabile _corteo_ di mamme, di spose e di sorelle
vestite a lutto. A che dunque sono giunti gli arditi voli del nuovo secolo? Ancora spiccherà il suo volo la
canzone del Petrarca, e varcando i confini d’Italia si
cimenterà attorno alle grandi capitali?
Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica:
proverai tua ventura
fra magnanimi pochi a chi ’I ben piace.
Di lor; chi m’assecura?
l’vo gridando pace, pace, pace.
Forse la nostra età non si dibatte ancora tra gli angosciosi contrasti dell’anima medievale? sui sereni
paesaggi che Rubens amò e Rembrand innondò di luce, apparve forse la torva faccia gialla del Duca d’Alba? e sulle verdi colline abitate dai bardi è tornata a
fremere la tempesta che urlò un giorno su re Lear?
e sulle candide visioni di A. Durer, e per le sacre onde del Reno è sceso il furor d’Odino? o sulle steppe
di Russia, percorse un giorno dal. cavallo di Petofi, dal
canto melanconico di Gogol e dalle generose concitazioni della poesia di. Dolstojevscki, si è rizzata, lorda
di sangue, la spietata figura di Boris Godunof? tra le
fronde della foresta che Horolenko ascoltava estatico,
si scaglia forse la nemesi storica della morta Polonia?
Come fosche ed assettate di sangue si alzano sull’orizzonte le ombre dei Jagelloni, e sotto le celate di ferro i volti di Sobiescky e di Cosciuszcho! e come è insistente, tra gli stridii dell’aquila bianca e il bagliore
del notturno incendio di Varsavia, la preghiera del
pellegrino polacco: a O Signore onnipotente, lasciaci
ancor pregare, come gli avi nostri, sui campi di battaglia, con l’arme in pugno innanzi ad un altare composto di tamburi e di cannoni, sotto un baldacchino
formato dalle nostre aquile e dai nostri stendardi»
Cadenzato come il singulto di un salmo passa il not turno di Chopin e la litania di Mickiewicz: «Per le
ferite, per le lagrime, per le sofferenze di tutti i prigionieri, di tutti gli esiliati e di tutti i pellegrini polacchi, ci libera, o Signore!
Dove se ’n fuggì dunque il candido ideale della Pace? Non voglio creder più alle assopite idealità. Come
colui che, colto nella notte dal martellar della campana e dal baglior dell’incendio, tronca i sogni e butta
le tepide coperte, non credo più alle seduzioni di Kant,
di Hegel, di Fichte, di Condorcet; non voglio tremar
più dinnanzi alle pagine fosche di Schopenhauer e di
Hartmann: preferisco confondermi con l’immensa
turba di anime straziate che piangono al cimitero e sui
gradini dell’altare, confondermi tra questo quotidiano
infinito esalar di olocausti umani, respirar la stessa
aria di agonia e di sacrificio.
«Niente avviene senza causa — dice Eliphaz nel
libro di Giobbe — e il dolore non nasce dal suolo».
Non è dunque un sogno la legge fondamentale della
filosofia di Agostino che spiega il crollo degli antichi
imperi col trionfo finale del Cristianesimo?
Gli sforzi della ragione umana immiseriscono e la
grande anima della turba che prega ha palpiti di speranza verace. E dietro alla linea del fuoco, dell’eccidio e della rinnovata barbarie, s’alza la divina figura
di Gesù, come un giorno fra le tempeste del lago di
Palestina; la divina figura di Gesù, con le braccia
allargate sull’umanità, in un’alba di resurrezione.
E com’è solenne l’invocazione della liturgia cristiana: — Da nobis, Domine, illam quam mundus dare
non potest, pacem!
DARIO FRANCESCHI.
LA TORPEDINE
Si chiama torpedine ogni arnese esplosivo destinato ad agire, sott’acqua, contro la carena d’una nave, o contro un ostacolo qualsiasi. Ogni torpedine contiene dunque due organi essenziali: una carica esplosiva e dei meccanismi più o meno complicati che devono provocare l’esplosione. Le torpedini poi possono differire l’una dall’altra per certi organi secondari, e sopratutto per la presenza o la mancanza di organi di locomozione; vi sono delle torpedini fisse e delle torpedini mobili, e ciascuna di queste due categorie comprende, a sua volta, delle sottodivisioni. Le torpedini fisse, per es. si dividono in due classi: le torpedini di fondo, chiamate anche mine sottomarine, e le torpedini vigilanti. Le torpedini di fondo sono collocate, già in tempo di pace, nel fondo del mare, e si trovano in comunicazione colla terra per mezzo di cavi elettrici, grazie ai quali esse vengono fatte esplodere a volontà. li loro collocamento è un’opera lunga e costosa; esse contengono quantità enormi di esplodenti; ve ne sono di quelle che hanno fino a 700 chilogrammi di fulmico
tone (200 grammi di fultnieotone bastano a sradicare il più grande albero). Del resto la carica deve aumentare col crescere della profondità,. per ottenere alla superficie dell’acqua, gli effetti voluti. Di solito queste torpedini sono• collocate-sudi; una linea, a intervalli tali che nessuna-nave possa, attraversare la linea senza venire a trovarsi nelladzona Wazione di una. esse. Per difendersi contro l’azione di,.queste torpedini, si può tentare o di distruggere i locali colloaati, interra, dai quali esse vengono fatte esplodere, oppure di tagliare i cavi elettrici; ma entrambe le operazioni sono difficilissime. Un altro mezzo sarebbe quello di sacrificare una nave della propria squadra, mandandola contro la, lidelle torpedini, nel qual caso i difensori si troverebbero in questa alternativa: o di lasciar forzare il passaggio, o di cercare di distrugg.ere la nave isolata facendo esplodere la torpedine sulla quale essapassa. Ma in questo caso si avrebbe nella linea delle torpedini una breccia per la quale potrebbero passare, tutte le altre navi della squadra nemica. Tenendo conto di quest’ultima circostanza si può credere che le torpedini di fondo non possono costituire che un mezzo ’di difesa accessorio. Per quanto si può giudicare, il principale effetto d’una torpedine di fondo sulla chiglia d’una nave consiste in una dislocazione generale, la quale forse non può riuscire a far colare a fondo la nave, ma ne può compromettere gravemente la facilità’ dl manovrare. La seconda classe delle torpedini fisse comprende le così dette torpedini vigilanti, le quali sono ancorate come gavitelli, sono quasi galleggianti ed esplodono automaticamente appena vengono urtate. Oltre agli organi essenziali accennati’ più sopra, queste torpedini vigilanti sono munite di meccanismi che permettono loro di mantenersi, sott’acqua a, poca distanza dalla superficie, senza affondare e senzs risalire a galla. Esse possono essere trasportate e imbarcate a bordo di navi, per essere collocateopoi nei punti destinati; ma una volta ancorate, diventano quasi fisse, poichè se si muovono alquanto -per effetto delle onde o delle correnti marine, queste movimento è molto limitato. Naturalmente è necessarie che coloro ’che collocano queste torpedini determinino e notino con; gran cura la loro posizione, affinchè la squadra che le haucdlocate, possa attraversare la, iore linea sera rischiare di urtarle; questi arnesi’ di distruzione che esplodono appena sono toccati, sono naturalmente -ciechi- e Ferir scono tanto gli amici che i nemici. Anche le torpedini vigilanti sono destinate a chiudere il passo alle navi nemithe; a. quante sonikraiperò, esse si prestano meglio come armi offensive, e per essere più esatti, come strumenti di assedio-piuttosto che come semplice strumento di difesa e danno il massimo di utilità quando vengono adoperate da una squadra padrona del mare per bloccare il nemico in una rada. L’uso delle torpedini vigilanti richiede molte precauzioni tanto durante le ostilità, che a ostilità cessate. In tempo di guerra, una squadra minacciata da torpedini vigilanti può ricorrere a vari mezzi per difendersi contro di esse; si può, per es. provocarne l’esplosione; facendo girare nella zona che esse occupano dei galleggianti qualsiasi, oppure, si può distruggerle, mandando nella loro zona una imbarcazione la quale peschi poco e quindi non tocchi le torpedini, e dalla quale vengano affondati dei petardi che si fanno esplodere a distanza per mezzo d’una corrente elettrica. Le torpedini mobili sono anzitutto delle armi offensive e compongono totalmente o in parte l’armamento delle navi da guerra. Esse possono essere divise in tre classi, ma le prime due non hanno più che un interesse storico e nessuna marina le adopera più. Una è quella delle torpedini derivanti, specie di galleggianti carichi di sostanze esplodenti che venivano rimorchiati a una distanza più o meno grande da una nave la quale cercava di farli urtare contro la nave da distruggere. L’altra classe era quella delle torpedini portate, le quali erano fissate all’estremità di un’asta sulla prua di una nave che le portava fino a contatto immediato con la nave nemica. E’ facilè comprendere come l’uso di queste due specie di torpedini fosse molto pericoloso. Oggi non si adopera più che una terza specie di torpedini mobili, la torpedine automobile, la quale può essere lanciata ad una grande distanza e che una volta entrata nell’acqua, prosegue nella direzione voluta con mezzi di locomozione di cui è fornita. Data la loro facilità di trasporto, le torpedini automobili sono delle armi molto comode: esse costituiscono l’unico armamento delle piccole navi, chiamate appunto torpediniere. La torpedine automobile è lunga da 5 a 6 metri, e ha un diametro da 35 a 45 centimetri; si presenta nella forma di un sigaro, e a vederla navigare sott’acqua la si potrebbe prendere per un tonno gigantesco, dal corpo svelto e lungo, e dalla coda forcuta e girante; la somiglianza è tale che spesso s’ingannano persino i pesci. Nella sua parte anteriore essa ha una carica da 40 a 100 chilogrammi di materie esplosive, munita di un percussore, il quale battendo contro la nave avversaria, fa esplodere la carica. Nella parte centrale e posteriore la torpedine contiene un serbatoio e un motore ad aria compressa che mette in azione le sue due eliche. L’aria viene compressa prima di lanciare la torpedine e portata a circa 100 atmosfere nel serbatoio apposito, che occupa quasi la metà della lunghezza totale; il motore che viene fatto agire da quest’aria compressa. sviluppa una forza da 35 a 40 cavalli. Vi è poi un scompartimento speciale contenente pli apparecchi che regolano l’immersione • della torpedine, e che hanno lo scopo di mantenerla alla profon dità stabilita, che normalmente è di tre metri, e di farla navigare in direzione orizzontale. La torpedine automobile è munita inoltre di meccanismi per mezzo dei quali essa può essere fermata a una distanza voluta ed essere colata a fondo quando non raggiunga il bersaglio. Questa ultima circostanza ha molta importanza in guerra perchè elimina i pericoli delle torpedini erranti.
La torpedine viene lanciata per mezzo di un tubo
il quale serve a gettarla in acqua, dandole la direzione voluta. Durante il breve tragitto che la torpedine
fa nell’interno di questo tubo, la sua macchina motrice si mette automaticamente in azione, sicchè, quando
si trova in acqua, la torpedine prosegue da sè. I tubi
lancia torpedini sono di due specie: aerei e sottomarini. I primi si trovano a una certa altezza al di sopra dell’acqua; la torpedine viene lanciata per mezzo
di una piccola carica di polvere (da 200 a 300 grammi) e cade in mare dove si immerge alla profondità
voluta. Questi tubi aerei costituiscono l’unico armamento delle torpediniere e vengono anche disposti
sulle controtorpediniere, sugli incrociatori e sulle corazzate.
I tubi sottomarini non si trovano che a bordo delle
grandi navi; essi sono collocati a circa tre metri al
di sotto della linea di galleggiamento. La torpedine
viene espulsa per mezzo di un getto di aria compressa, e dopo entrata nell’acqua, viene ancora guidata da
un prolungamento del tubo, chiamato cucchiaio, che
viene spinto fuori della nave prima del tiro. Naturalmente i sottomarini sono provveduti anch’essi di tubi
lanciatorpedini.
Nel lanciamento di urr. torpedine il problema più
complicato è quello della mira; e cosi per lanciare una
torpedine con probabilità di successo, occorre avvicinarsi più che sia possibile al bersaglio. Durante un
combattimento, una torpediniera, prima di lanciare
una torpedine, deve cercare di avvicinarsi alla nave
nemica sino a 200 e magari a 150 metri. Perciò le torpediniere devono essere meno visibili che si possa,
e devono essere fornite di una velocità massima per
poter arrivare a portata di tiro prima che l’artiglieria
nemica possa essere diretta contro di esse.