Il buon cuore - Anno XIV, n. 26 - 26 giugno 1915/Religione

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Educazione ed Istruzione Beneficenza

[p. 203 modifica]Religione


Vangelo della domenica Va dopo Pentecoste

Testo del Vangelo.

Avvenne che nell’andare il Signore Gesù a Gerusalemme, passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea. E stando per entrare in un certo villaggio, gli andarono incontro dieci uomini lebbrosi, i quali si fermarono in lontananza, e• alzarono la voce diJenlio: Maestro Gesù, abbi pietà di noi. E»tiratili disse: andate, mostratevi ai Sacerdoti. r? mentre andavano restarono sani. E uno di essi accortosi di essere restato mondo, tornò indietro, glorificando Dio ad alta voce, è si prostrò a terra ai suoi piedi, rendendogli grazie: ed era costui un Samaritano. E Gesù disse: Non sono eglino dieci quelli che sono stati mondati? E i nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse, e gloria rendesse a Dio, se non questo straniero. E a lui disse: alzati, vattene; la ti«, fede ti ha salvato. S. LUCA, Cap.

17.

Pensieri. La storia dei dieci lebbrosi, narrata nell’odierno Vangelo, la malattia, la guarigione, l’ingratitudine, ha un riscontro nella storia di molti di noi. Ricordiamola a nostro ammaestramento; ammaestramento di conforto, ammaestramento di confusione.

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La lebbra era una gravissima malattia che affliggeva le popolazioni dei paesi d’Oriente, e che.non è scomparsa del tutto ai nosti giorni. Era malattia schifosa; copriva di ulceri) tutte le parti del corpo, facendone cadere spesso le carni a brani a brani, deturpando la figura umana nel modo più ripugnante; qualche lebbroso aveva perduto le orecchie, un altro il naso, un altro aveva dei solchi purulenti nel volto, nel petto, sulle braccia. Era una malattia contagiosa. Malattia esterna, fetente, corrompeva tutta l’aria all’intorno; un leE.giero contatt col lebbroso, +il solo respirarne l’aria che lo circondava, bastava per chè il male si diffondesse. La lebbra destava orrore, spavento; e per sè e pel timore di prenderla. Perciò if colpiti venivano per legge ordinata da Mosè allontanati inesorabilmente dal consorzio umano, relegati in luogo deserto, lontani dai villaggi e dalle città: i lebbrosi non potevano avvicinarsi ad alcuno, e sol6 lungi, alzando la loro voce supplichcvole, teicifg4n9(k invocare il soccorso di un po’ di alimentVIr.ii ester dere estenuati dalla fame. Era una cofurz imarnente dolorosa e un:iliante, perchViTle fni3O-(Ihrer [p. 204 modifica]essere una sventura, era molte volte considerata come un giusto castigo un effetto di colpa. Nel rapporto spiritraie la lebbra immagine del peccato. Il peccato è la lebbra dell’anima, e produce sull’anima le stesse conseguenze della lebbra sul corpo. Il peccato deforma l’anima; il peccato rapisce all’anima tutta la belle7aa che nasce dal possesso della grazia di Dio, rapisce all’anima tutte le virtù teologali e morali, e la riveste di tutte quelle anormalità che sono le colpe, di tutte- le specie, invidia, odio, superbia, disonestà, men ’gna, tanto cl--e l’occhio di Dio, e anche quello dell’uomo, illuminato dalla fede. guardando al peccatore, prova un sens,,di sgomento, di orrore. Il peccato, come la lebbra, è contagioso, pel cattivo esempio che si nropaga tutto all’intorno; un sol peccatore, colle massime della sua incredulità, collo scandalo dei cattivi’ discorsi, dei costumi disonesti, può corompere una famiglia, una intera comunità, un borgo, una cit+3. Arrivano dei momenti, in cui il contagio è fatto cosi generale, che il risanamento della società, non può avvenire che per uno di quei cataclismi sociali, che sz chiamano rivoluzioni, che spazzano via tutta una intera società, non più capace di vivere, perché ha e,aut:te tutte le energie, tutte le forze morali della vita. Il peccato isola il peccatore dalla società dei fedeli, ma nel senso pubblico e palese, ma nel senso spirituale, nel senso cioè che il peccatore non può più partecipare ai, beni spirituali che arricchiscono la vita interna della Chiesa, i meriti della virtù dei buoni, i meriti del sacrificio di Criato pur in mezzo alla vita comune dei fedeli, il peccatore è in un deserto, perché vive in mezzo di loro, senza vivere della loro vita. Vi ha una sola differenza,tra il lebbroso e il peccatore: il lebbroso sen`e tutto l’ornoi e, il peso della sua condizione; desidera di uscirne, e non tralascia mezzi perché il suo facile ostracismo dalla società abbia termine. Potersi presentare ai sacerdoti, per udire da essi; a ciò incaricati dalle prescrizioni della legge, la parola del proscioglimento, era per essi il giaorno più altamente felice, i1 giorno della libertà. Il peccatore invece spesso nel suo peccato, non solo non cerca di uscirne, ma vi si sprofonda maggiormente. Il sacerdote, al quale dovrebbe rivolgersi per ottenere la salute, egli lo riguarda con occhio sinistro come un peso, un incubo, tìn nemico più da fuggire che da avvicinare.

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Che cosa hanno fatto i lebbrosi appena seppero che Gesù, il profeta di Nazareth, che tante guarigioni aveva già compiuto nella Giudea e nella Galilea, veniva a passare vicino alle regioni deserte nelle quali erano stati confinati? Si levano in gruppo, corrono verso lui, e tenendosi a rispettosa distanza, umilmente e instantemente pregano: Maestro, Gestì abbi pietà di noi!

Cristo si commuove alla preghiera dei lebbrosi; il loro stato miserando dà maggiore efficacia alla

preghiera stessa: andate, dice loro, andate e fatevi vedere dai sacerdoti. Era prescrizione della legge che un lebbroso, quando pure si credesse guarito, non potesse rilasciare a sè pitente netta di guarigione ottenuta: nessuno è giudice imparziale in causa propria; si crede così facilmente ciò che si dt;sidera! Poteva benissimo avvenire che un lebbroso, credendosi guarito, non lo fosse, e reduce in famiglia, in mezzo alla società, riappiccasse, diffondesse quel morbo, che aveva reso necessario il suo precedente allontanamento. Cristo non poteva dispensarli da questa prescrizione legale? Non poteva guarirli direttamente, e dichiararli prosciolti da ogni male? Lo poteva, ma non lo ha fatto. Non lo ha fatto perchè, superiore ad ogni legge, non voleva che alcuno, prendendo pretesto dal suo esempio, non adempisse le leggi comuni esistenti. Non lo ha fatto perchè, sebbene censore del modo col quale i sacerdoti compievano i loro uffici, rispettava il loro carattere, la loro autorità, la loro missione, e voleva che il suo rispetto fosse norma del rispetto degli altri. Non lo ha fatto perché entrava nell’ordine generale della provvidenza divina, che tutti i benefici spirituali da Dio fossero comunicati agli uomini per mezzo degli uomini, stabilendo quell’esercizio di carità, di solidarietà, che tanto avvicina e onora gli uomini fra di loro, e tanto piace a Dio; quasi immagine sulla terra di quella unione che formerà la gioia più bella delle anime in cielo. Non lo ha fatto finalmente perché la condizione di presentarsi ai sacerdoti per essere dichiarati liberi dalla lebbra, doveva essere immagine di ciò che sarebbe stato imposto nella sua Chiesa, pel prosciogli(mento della colpa, la lebbra spirituale. La sicurezza (della remissione dei peccati l’uomo non può averla che per la parola e l’attestazione. del sacerdote. Da Dio o dagli uomini? Ha rivolto a sè questa domanda uno spirito scrutatore dei problemi religiosi. La grazia di Dio, la vita dell’anima, il progresso intimo d’ella coscienza del bene, è funzione che si compie direttamente tra l’anima e Dio, e perché nasca, si alimenti, si compia, è necessaria l’opera intermediaria del sacerdote? E risponde propendendo più a ritenere che la rigenerazione interna della coscienza, il progresso spirituale sia operazione diretta dell’anima con Dio, e non sia subordinata al ministero esterno del sacerdote. Il filosofo e il teologo non fu in questo caso nè abbastanza teologo nè abbastanza filosofo. Dal fatto che l’azione interna e diretta dell’anima con Dio è necessaria, è anzi ciò che costituisce la vera essenza della virtù, il vero progresso interiore dell’anima, non è lecito dedurre l’esclusione dell’azione ministeriale del sacerdote. Questa azione è pur necessaria, sebbene non la più necessaria, è necessaria sebbene non per esigenza assoluta; Dio, se avesse voluto, poteva benissimo eliminare questa azione; questa azione, anche compita con tutti i suoi elementi, non basta a [p. 205 modifica]creare la santità dello spirito. Nella proporzione e, nella misura dell’importanza dei due elementi a formare la santità dell’uomo, l’elemento interno divino e l’elemento esterno minísterialè del sacerdote, si potrà sostenere il maggior valore intrinseco del primo; ma la prevalenza del primo non vuol dire esclusione del secondo. All’azione completa, il secondo elemento è necessario quanto il primo; anzi, sotto un certo rapporto, è più necessario del primo, perchè più facilmente constatabile. Chi può essere giudice sicuro del proprio stato interno di coscienza? chi può dire con Certezza a se stesso: io sono dinnanzi a Dio oggetto d’odio e di amore? Quanto sono facili le illusioni della mente umana! Ma il dubbio non può cadere sull’atto esterno del sacerdote, che ammaestra e riconcilia; ammaestra coll’insegnamento, riconcilia col perdono.

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I lebbrosi, smanianti di togliersi di dosso il morbo che li affliggeva, non stettero un istante in dubbio sull’adempire la condizione loro imposta da Cristo di presentarsi ai sacerdoti; non dissero come dicono talvolta molti cristiani: per ottenere il perdono dei miei peccati è proprio necessario che io vada ad.ac-, cusarmene dai sacerdoti? non posso io chiedere direttamente il perdono da Dio? Dio non me lo può concedere? Sì, Dio può concedere il perdono; anzi, è Dio solo che lo può concedere. Ma appunto perchè Dio è il padrone del suo perdono, è padrone anche di stabilire le condizioni alle quali il perdono vuole che sia accordato. Sarebbe curiosa che il colpevole fissasse al giudice le forme e il modo del giudizio! La sconvenienza della domanda non sarebbe superata che dalla sfrontatezza. Eppure è ciò che fanno i peccatori, i cattivi cristiani, che, volendo ottenere il perdono dei peccati, non vogliono presentarsi ai sacerdoti, non vogliono confessarsi, si rifiutano insomma di compiere quell’atto che Dio ha esplicitamente imposto per accordare il suo perdono. Noi non saremo colpevoli di questa mancanza; alla domanda: il perdono viene da Dio o dall’uomo? Risponderemo francamente: dall’uno e dall’altro; dall’uomo per imposizione di Dio, da Dio perchè, senza di lui, a nulla vale l’opera dell’uomo. Un’altra colpa può essere presso di noi; è la colpa della quale sventuratamente si macchiarono, nella grande maggioranza, i lebbrosi dell’odierno Vangelo, la colpa della ingratitudine. I lebbrosi, all’invito di Cristo di presentarsi ai sacerdoti, non mettono tempo in mezzo, partono, e tanto è il desiderio di guarire, tanta è la fiducia di guarire, appoggiati alla parola onnipotente di Cristo, che la guarigione si opera mentre sono in viaggio, prima che i sacerdoti li abbiano veduti. E’ l’effetto istesso che la teologia morale cattolica afferma effettuarsi riguardo ai peccatori quando,

nel vivo desiderio del perdono dei peccati, riescono.,aiutati dalla grazia di Dio, a suscitare nel loro cuore un atto perfetto di contrizione; i peccati sono già loro rimessi anche prima di farne l’accusa al sacerdote, anche prima che il sacerdote pronunci le parole della assoluzione.. • I lebbrosi, con loro immensa gioia, si accorgono di essere guariti. Che avviene? Uno di essi, ed era Samaritano, forse perchè come Samaritano sentiva di dover essere -maggiormente riconoscente.a Cristo di averlo guarito, sebbene, come gli altri, non fosse Giudeo, nella piena dei sentimenti che invase il suo cuore, ubbidendo a una gentile inspirazione, ritorna immediatamente sui suoi passi, si reca a ricercar Cristo, il suo benefattore, e trovatolo, gli si prostra ai piedi e gli rende grazie. Quanto piacque a Cristo quell’atto! La sua compiacenza si rivela per contrasto nella dolorosa sorpresa di non vedersi innanzi nell’atto stesso nessuno degli altri nove. Non sono eglino dieci quei che son mondati? E i nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse? rendesse gloria a Dio, salvo questo straniero. Non è una soddisfazione personale che. Cristo chiedeva; ciò che egli desidera negli uomini è l’adempimento del loro dovere ciò che deploi-a nell’uomo che non fa il suo dovere non è tanto il bene che l’uomo toglie a Dio — Dio è sempre Dio — è il ma’.e che l’uomo fa a se stesso. Qual senso di melanconica tristezza è espresso in quelle parole: uno solo è tornato! Quelle parole, Gesù Cristo non avrebbe dovuto qualche volta pronunciare anche a nostro rig tardo? Egli ci ha pur guarito dalle nostre infermità spirituali, e fors’anche materiali; e non una ma più mite... Quale fu il nostro contegno verso di Lui? 1,o abbiamo ringraziato? ringraziato nel modo di maggior onore a Lui e di maggior vantaggio -a noi, col non ricadere nelle colpe perdonate? Che avvenne inv ece? I suoi benefici non hanno forse segnato il humero delle nostre ingratitudini?.. Oggi il perdono di. Dio, domani una nuova offesa?... O Signore! Perdonatemi le mie ingratitudini! Quanto bene voi mi avete voluto, quanto bene Voi tmi avete fatto! La mia vita non avrebbe dovuto essere che un inno rinascente di grazie verso di Voì. La mia sconoscenza nel passato diventi una ragione di maggior gratitudine, di maggior fedeltà nell’avvenire. Imiti anch’io il buon Samaritano, anch’io come lui possa udire dal vostro labbro divino la cara parola: sorgi; la tua fede ti ha salvato! Ti ha salvato col perdono e colla grazia nella vita presente, ti ha salvato coi meriti e colla gloria nella vita futura.

L’Enciclopedia dei Ragazzi è il libro più completo, più divertente, più utile, che si possa regalare. [p. 206 modifica]Le favole dell'Afganistan

Come in tutti i paesi del mondo, così anche nell’Afganistan le favole rivelano la morale e le norme di condotta seguite dal popolo. Le caratteristiche di una razza si riflettono nella sua letteratura, in quella popolare sopratutto. Le favole dell’Alfganistan dimostrano chiaramente l’ammirazione tributata dal popolo alla destrezza e all’astuzia coronata di buon successo; la loro morale non corrisponde sempre alla moralità occidentale, ma non manca di saggezza pratica, come si può giudicare da qualche apologo qui riportato. Un uomo attraversava un giorno sul suo carrello una grande maochia, quando ad un tratto scorse un grave incendio, e, avvicinatosi udì un serpe che ad alti sibili implorava soccorso. Non tenendo in nessun conto l’inimicizia del serpente per la razza Lmana, quell’uomo si mosse a pietà e, abbassato a terra il suo sacco da viaggio di modo che l’animale vi potesse entrare, portò via di lì il serpente in salvo. Poi, aperto il sacco, impose al rettile di andarsene per i fatti suoi. Al quale comando rispose la bestia.: «Non vi andrò finché io non abbia morso te e il tuo cammello.» L’uomo, offeso da così nera ingratitudine, ricordò al serpente il servizio testé resogli, e l’infida bestia arditamente replicò aver egli agito inconsultamente, data l’ereditaria ostilità esistente tra i serpenti e gli uomini, e aggiunse poi che, in fin dei conti, anche la razza umana rende sempre male per bene. Con tanta risolutezza l’uomo negò l’ingratitudine attribuita ai suoi simili, che giunse a promettere di farsi mordere dal serpente se questo potesse provare con qualche testimonianza la verità della sua asserzione. Un testimonio si presentò nella persona di una vecchia bufala. Interrogata dal serpente, questa rispose che senza dubbio l’uomo aveva per massima di rendere male ai suoi benefattori, infatti il suo padrone, appena essa aveva cessato di dargli il latte, non,attendeva che di vederla abbastanza ingrassata per ucciderla. Forte di questa testimonianza il serpente chiese all’uomo l’adempimento del contratto. L’uomo però fece osservare che erano necessari due testimoni per raggiungere la prova. Quindi col consenso del serpente fu chiamato un albero a dire la sua opinione. E l’albero, amareggiato dal fatto che, dopo aver goduto per innumerevoli anni della sua ombra nelle giornate in cui il sole era più cocente, gli uomini gli strappavano ora un ramo ora un altro, e avevano perfino l’audacia di volerlo atterrare per farne tavole, si associò completamente all’opinione della bufala. Assai perplesso l’uomo stava pensando al modo di guadagnar tempo, quando si avvicinò una volpe e chiese di che si trattasse. Udite le cose come stavano, lessa si mostrò assolutamente incredula. Come? un sacco così piccolo aveva potuto contenere un serpente così grosso? Per mostrarle come ciò fosse possibile,

il serpente non esitò a rientrare nel sacco che la volpi stessa cortesemente gli teneva aperto. Poi, vedutolo in trappola, la volpe rinchiuse con forza il sacco e lo consegnò all’uomo perchè uccidesse il suo nemico. «Un uomo saggio non deve mai lasciarsi ingannare da un nemico che implori pietà,, o altrimenti toccherà disgrazia a lui.» Questa è la morale della favola. Morale che non dà un’alta idea dei principi etici che regolano la condotta degli Afgani. La favola seguente lumeggia il grande principio che con l’astuzia è possibile ottenere ciò che con altri mezzi non si potrebbe raggiungere. Un certo mercante era in procinto di mettersi in viaggio per l’India. Prima di partire radunò la sua famiglia e. chiese a ciascuno quale dono avrebbero desiderato da lui, al ’ suo ritorno. Per ultimo egli domandò al suo pappagallo, oriundo dell’Indostan, che cosa egli potesse fare per lui in quella regione. Il pappagallo lo pregò di visitare una certa foresta dove avrebbe incontrato sicuramente arcuni pappagalli suoi amici. «Salutali da parte mia, di’ loro che io sono in gabbia e. che invidio la loro libertà. Al ritorno, non mancare di ripetermi ciò che essi avranno detto o fatto.» Il mercante fu fedele alla promessa: andò in quella foresta, trovò i pappagalli e riferì loro le parole del prigioniero. Ma con dolore vide uno di quegli uccelli, forse troppo crudelmente colpito da quelle parole, cadere a terra agonizzante, poi morire. Tornato a casa, benché egli credesse più delicato il tacere di quella morte al suo pappagallo, questo seppe indurlo a raccontare l’accaduto in tutti i particolari. Ma, oh disgrazia! La bestiola, apprendendo la morte del suo amico, ne sentì così acuto dolore da morirne infatti, dopo breve e straziante agonia, cadde ’giù sul fondo della gabbia, per non più rialzarsi. Il padrone versò lacrime amare poi, aperta la gabbia, gettò a ’terra il cadavere dello sventurato uccello. Ma questo, appena toccato il suolo, improvvisamente tornò in vita; e, scosse le ali, se ne volò in cima alla casa. Il mercante, sbalordito, chiese spiegazioni, e il pappagallo rispose d’aver ben compreso il messaggio del suo amico della foresta: «Fingi di esser morto e sarai libero». Poi, chiesto ed ottenuto il perdono del padrone così burlato, il pappagallo se ne volò via, libero, verso la sua patria. L’astuzia è la dote dello spirito maggiormente apprezzata dagli Afgani, nelle cui favole è la volpe che rappresenta generalmente la parte più bella, mentre la tigre, incarnazione della forza bruta, rimane assai spesso vittima di animali più deboli, ma più astuti. Una tigre, assoluta sovrana degli animali della sua foresta, aveva stabilito di restarsene tranquilla a casa sua, in attesa che suoi sudditi un giorno per ciascuno, le portassero il pasto quotidiano. Per qualche tempo tutto era andato bene. Ma quando venne la volta del lepre, questo invece di’ procacciare una vittima alla tigre, pensò di scuoterne il giogo una volta per sempre, e di por. fine, anzi, ai giorni della ti [p. 207 modifica]ranna. All’ora solita del pasto, la, tigre aspetta invano e furibonda. Dopo lungo ritardo ecco presentarsi il lepre ansante per una lunga corsa. La accoglienza fatta dalla tigre per essere giunto tardi e a mani vuote, fu terribile. A stento il lepre potè calmare belva un momento per spiegare il suo ritardo. «La via per giungere qui mi fu sbarrata da un’altra tigre che voleva divorarmi. Sono però riuscito a sfuggirle e mi sono affannato per correre qui ad avvisarti. Se tu o tigre, vuoi la tua vittima giornaliera per sfamarti, devi prima sgombrare la via -dalla tua rivale». Udendo questo la belva inferocita impone al lepre di guidarla subito al luogo infestato dall’altra tigre, e il lepre docilmente ubbidisce. Insieme i due animali corrono finchè giungono in vista di un pozzo presso la strada. Qui il lepre si ferma fingendo lo spavento. «Lì, lì dentro è la tana della tua rivale!!» La tigre avida di lotta, si slancia sul muricciuolo del pozzo, e guarda giù dentro. Sì, un’altra tigre la guarda minacciosa di laggiù. Un urlo, un salto e la belva è già sprofondata nell’acqua sottostante senza speranza di salvezza. Un’altra favola edificante è quella che narra la misera fine di due amici poco saggi, della rana e del topo. Questi due animali pareva non sapessero più vivere uno senza l’altro. Al topo specialmente il non poter vedere la sua amica che una volta al giorno era una pena assolutamente intollerabile. La rana, più ragionevole, non si dissimulava che per due amici il vedersi soltanto a intervalli giova piuttosto che nuocere all’amicizia. Ma alle insistenze del topo, che dichiarava necessario stabilire più stretti rapporti fra loro, la rana cedette. Entrambi decisero di legarsi ad una zampa l’estremità di una cordicella, in modo che bastasse tirar questa per trovarsi l’uno di fronte all’altra. Non giovò che molte rane dimostrassero con buoni argomenti la follia di una tale azione, che avrebbe vincolati i movimenti di ambedue gli amici. «Non importa; se morremo insieme, tanto meglio!» E insieme morirono, infatti; giacchè un avoltoio piombato sul topo, che non potè sfuggirgli avendo una zampa legata, si portò su in alto anche, la rana pendente all’altra estremità della funicella. Non così rapidametite, però, che essa non potesse udire i villani farsi beffe di lei e lodare la bravura dell’avoltoio che sapeva così bene ghermire i ranocchi. Come si vede, le favole dell’Afganistan si distinguono per una specie di spirito sardonico; ma esse hanno tutte il merito di non lasciar dubbio sulla loro morale.