Il buon cuore - Anno XIII, n. 34 - 18 ottobre 1914/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 34 - 18 ottobre 1914 Religione

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Roma e l’Australia

(I progressi di un secolo)


I vincoli fra i cattolici australiani e il centro della cristianità hanno avuto di questi giorni nuovo rinsaldo colla costituzione di una Delegazione apostolica appositamente per l’Australasia, comprendente l’Australia, propriamente detta, la Tasmania e la Nuova Zelanda e dipendente dalla Congregazione di Propaganda fide. Il Breve istitutivo, pubblicato nell’ultimo fascicolo (15 maggio) degli Acta Apostolicae Sedis reca la data del 15 aprile, e dice appunto che la nuova Delegazione ha per iscopo di «avvincere quei popoli lontani ed i loro sacri pastori con legame più stretto e più intimo alla Sede apostolica romana» e di far loro sentire «in modo più abbondante i benefizii della dilezione che per essi ha il Capo della Chiesa».

La Chiesa australiana è la più giovane della grande e grandiosa Comunione cattolica; i suoi incrementi furono però rapidissimi e davvero meravigliosi.. Questi si trovano tracciati in un libro il nome del cui autore ci ispira attualmente una profonda melanconia: Le catholicisme en Australie par l’abbè Lèmire. Quando il sacerdote deputato scriveva questo libro, nessuno sospettava — e meno di ogni altro, lui stesso — che quasi insensibilmente egli sarebbe giunto là dove ora lo vediamo; ora io ho ancora speranza che gli occhi finiranno con l’aprirsi sulla paurosità del baratro dove spes so conduce a precipitare un deviamento che a’ suoi inizi può sembrare lievissimo, impercettibile.

Un secolo fa il vastissimo continente dell’Australia non contava che qualche migliaio di cattolici dispersi e senza il conforto di nessun sacerdote: fu solo nel 1820, sotto l’influsso delle idee di tolleranza che allora avevano preso a farsi strada in Inghilterra, che il ministro delle Colonie si decise ad inviare a Sydney due sacer-

doti cattolici, con facoltà di esercitarvi il loro ministero. Come a Londra, cosi li Sidney l’unica chiesa avente diritto alla ricognizione ed alla protezione ufficiale era l’anglicana; pel cattolicismo non si aveva che un po’ d’aria e di luce, quanto bastasse a non lasciarlo soffocare. Il P. Merry ed il P. Conolly non si spaventarono per le difficoltà che li attendevano e si divisero il campo sterminato loro dato da coltivare: il primo rimase a Sydney, il secondo si recò a Hobart, nella Tasmania.

A Sydney gli ostacoli furono minori e già nel 1821, l’anno dopo la sua venuta, il padre Therry potè porre la prima pietra d’un modesto Santuario dedicato alla Madonna: esso fece poi luogo alla imponente cattedrale di Santa Maria di Sydney, madre e matrice di tutte le chiese d’Australia, onorata da Leone XIII col conferimento della porpora (1885) al suo pastore, l’arcivescovo Patrizio Moran.

La data che i cattolici australiani hanno scritta nei loro annali a carattere d’oro, anzi, di diamante, è quella del 29 luglio 1836, quando venne promulgata la legge che dichiarando cessato per la Chiesa anglicana il monopolio di religione ufficiale, poneva tutti i culti cristiani sul medesimo piede, ed il sussidio annuo fin là votato dal Parlamento per il solo anglicanesimo, veniva ripartito proporzionalmente al numero dei rispettivi aderenti e bisogni fra tutte le confessioni religiose esistenti in Australia.

Due anni prima Gregorio XVI aveva eretto il vicariato apostolico di Sydney comprendente tutta l’Australia e le isole adiacenti: il vicariato era di lì a poco costituito in archiodiocesi con a capo il benedettino francese Polding, e neanche mezzo secolo dopo i progressi compiuti indussero la Santa Sede a stabilire una legislazione uniforme per le chiese australiane. Di ciò s’erano già occupati due sinodi, riuniti uno a Sydney nel 1844 e l’altro a Melbourne nel 1869; l’opera iniziata sotto Gregorio XVI e proseguita con Pio IX, fu coronata da Leone XIII, che, innalzando al cardinalato l’arcivescovo di Sydney gli diede l’incarico di convocare e presiedere nella sua metropoli, un concilio plenario dei vescovi d’Australia.

Il concilio di Sydney fissò i limiti delle circoscrizioni diocesane, determinò il modo d’elezione dei vescovi, stabilì le feste di precetto, s’occupò della amministrazione [p. 266 modifica]dei beni ecclesiastici, della fondazione dei Seminari e di quant’altri argomenti sembrarono importanti per il prosperare della causa cattolica. Le sue decisioni formano la vera magna charta della Chiesa australiana. Questa (escluse le Filippine) conta ormai 23 diocesi, con 6 metropoli: Adelaide, Brisibane, Hobart-Town (Tasmania), Melbourne, Sydney, e Wellington (Nuova Zelanda). I fedeli vi superano il milione con circa 1500 sacerdoti. FiorentiSsime vi svolgono liberamente la loro azione le Congregazioni religiose così maschili come femminili; fra esse tiene un posto distinto quella dei redentoristi, fondata da S. Alfonso Maria de’ Liguori, che vi gode una popolarità straordinaria: vengono poi i Fratelli delle Scuole Cristiane, i Maristi, i Gesuiti; nè vi mancano — in quale angolo del mondo ormai non si trovano? — i Salesiani. Fra le Congregazioni Femminili vanno segnalate le Suore di San Giuseppe che hanno per scopo principale di procurar maestre religiose alle scuole ’di campagna; una vera benedizione per moltissime diocesi. Nel 1900 le scuole elementari cattoliche erano circa novecento, con presso a centomila scolari; ma va notato che in queste ultime cifre non figura la Nuova Zelanda. La questione scolastica è d’attualità anche in Australia: quei nostri confratelli sanno però risolverla nel modo più pratico: con aiuti generosi, con elargizioni cospicue. Queste non mancano mai alle chiese e le collette domenicali sogliono dare cifre che ’da noi, nella vecchia Europa sembrerebbero leggendarie: Non è il cattolicismo australiano quello che si ferma al borsello e I al portafogli. Anche a tale riguardo, esso si afferma vita ed azione. La testimonianza di stima e d’affetto datagli ora da Pio X è premio pienamente meritato. G. d’E. g

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FRA I MORTI DI FRANCIA

Guy de Cassagnac Dopo Peguy, il poeta mistico di Giovanna d’Arco, arrivato al tradizionalismo cattolico dalle. rive torbide del socialismo libertario, dopo Magnard, il musicista classico e aristocratico, la Francia scrive sul libro d’oro dei suoi figli caduti per la difesa della patria il nome di uno dei suoi più brillanti e simpatici giornalisti, Guy d’e Cassagnac. Eredi di una tradizione brillante e cavalleresca i due figli di Paolo Cassagnac, assumendo alla morte del padre la direzione dell’A utoritè, il vecchio e stimato organo bonapartista francese, avevano posto ogni loro cura nel conservare gelosamente intatti gli aspetti caratteristici e gli elementi sostanziali dell’opera polemica in cui si concentravano le aspirazioni e la passione della schiera piccola ’ma animosa dei partigiani di un regime forse ormai per sempre tramontato e di una dinastia cui pare

fatalmente negata ogni speranza di risurrezione. Ma se l’opera politica dei figli era, come quella del padre, destinata alla sterilità, lo spirito polemico vivacissimo del fondatore del giornale sembrava disceso per li rami attraverso la prosa nervosa dei due continuatori; contro le sopraffazioni settarie, contro il grottesco e l’odioso del giacobinismo imperante, contro la degenerazione del carattere e l’abbassamento dei valori morali e sociali che era la conseguenza naturale di una politica faziosa, che permetteva agli amici la più larga e grassa carie e minacciava agli avversari le ire e le persecuzioni di una aeterna auctoritas, i due giovani Cassagnac spezzarono le migliori lancie della loro quotidiana battaglia prima al fianco del padre, poi soli. Recentemente,’ quasi come per riposarsi un poco dalla fatica improba del battagliare continuo, da quel dovere increscioso di intingere sempre la penna nell’inchiostro più amaro e corrosivo, avevano entrambi fatta una breve incursione dal giornalismo sul teatro: l’esempio di Arturo Meyer era stato contagioso e Sarah Bernhardt, la ’veterana gloriosa delle scene parigine, aveva procurato al debutto drammatico dei fratelli Cassagnac un vero successo di curiosità: il lavoro, che non rivelava in realtà nè un temperamento scenico nè una parola originale, nè un tentativo nuovo, passò senza infamia e senza lode; era, evidentemente, una breve parentesi, il frutto di un’hora subseciva cui gli autori pei primi non attribuivano una eccessiva importanza. Ma un triste e tragico risveglio doveva togliere i polemisti dal loro intermezzo scenico: lo scoppio improvviso e inatteso della guerra europea, l’invasione della Francia, la minaccia spaventosa che sembrava uno spauracchio assurdo trasformata di un tratto nella crudele realtà, nella necessità urgente del momento. Il pericolo che l’imperante oligarchia radicale si era ostinata a non voler considerare se non come il sogno febbrile dei malati di militarismo e di nazionalismo, quel pericolo che gli stessi denunciatori non dovevano poi ritenere troppo imminente se trovavano in sè stessi la serenità sufficiente per riempire i loro ozi pacifici rivolgendosi al carro di Tespi, diventava la attualità paurosa. Allora, come già aveva fatto il loro padre nell’annè terrible, i due fratelli Cassagnac deposero la penna per impugnare la spada; non più era il tempo di parlare o di scrivere, ma quello di agire; entrambi partirono, volontari, pel terreno della guerra. Ed ora giunge la lugubre notizia, che dei due fratelli, il minore, Guy, il più’ brillante ed il più battagliero, è stato ucciso dal piombo prussiano; lo scrittore che dalle colonne del suo giornale aveva sempre, al di sopra delle passioni di parte, mostrato di nutrire una passione ed un culto, la passione ed il culto della patria, ha chiuso la sua carriera di giornalista soldato col sacrificio della sua stessa esistenza: signemus fidem sanguine. Una fede che reca il suggello del sangue dimostra l’intensità sua e la sua forza; e mai come oggi, alla prova del fuoco, nella bufera di sangue eh: l’avvolge e la sferza, la Francia ha la possibilità, anzi i ’dovere, di conoscere quali fossero veramente i suoi figli, quelli che non la pascevano di frasi vacue e di idee pervertitrici, ma le avevano consacrato la miglior parte di sè. rIA1 loro ingegno e delle loro energie, che l’amavano [p. 267 modifica]di un affetto vero e tenace, pronti a darle non chiacchiere, ma fatti. Che dei giornalisti arrestino un istante l’attenzione del pubblico, in mezzo al turbine incalzante doi tragici avvenimenti dell’ora, su questa morte che nella macabra falciatura ii— ane di tante giovani vite potrebbe anche sembrare un episodio insignificante non parrà singolare nè strano. Questa nostra fatica quotidiana è cosi spesso tenuta a vile, questa professione nostra che potrebbe essere apostolato, è cosi spesso mestiere, l’opinione pubblica, in parte a torto ed in parte a ragione, è cosi propensa a considerare il giornalista come un venditore di fumo, che il sacrificio di una nobile esistenza come quella di Guy de,Cassagnac è un po’ motivo di legittimo orgoglio per tutta la classe, per tutti i giornalisti. La leggenda repubblicana ha additato nel deputato Bau+in, caduto sulle barricate sorte contro il colpo di Stato del due dicembre, come i rappresentanti del popolo sapevano morire per venticinque franchi al giorno. La realtà dell’oggi designa nel giornalista volontario vittima del suo amore per la patria, come si sappia morire per confermare coi fatti la parola sempre altamente predicata. E se oggi fosse possibile un augurio noi vorremmo far voti perchè la morte di questo valoroso giornalista fosse doppiamente utile al suo paese; restituendogli non solo la sua libertà politica, ma anche la libertà morale. Che lo straniero ripassi le frontiere è certo un beneficio per la Francia; ma un beneficio non meno grande sarebbe per essa se entro i suoi confini i migliori •ed i più generosi dei suoi figli non fossero più sottoposti ad un regime odioso di sospetti, di soprusi, di vessazioni ora subdole ora sfacciate. Per questa liberazione, non meno che per l’altra, Guy de Cassagnac deve avere, serenamente, versato il suo sangue. Il suo paese comprenderà, intero, il significato del suo sacrificio? G. M.