Il buon cuore - Anno XIII, n. 21 - 23 maggio 1914/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 21 - 23 maggio 1914 Religione

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I lauti mezzi e gli scarsi successi

delle missioni protestanti


Il complesso, immane lavoro di propaganda che, con adatto personale, i protestanti compiono nei paesi infedeli; il numero e la grandiosità degli stabilimenti che vi fondano, sono la prova visibile e palpabile della ricchezza Con cui le missioni sono dotate. Ma donde provenie questa ricchezza? Come si raccolgono ed ammassano i tanti milioni che la formano? La risposta è facilissima e non svela punto misteri: tale dovizia ha la sua sorgente inesauribili nell’interesse che prendono alle loro missioni, e nell’obolo che per esse offrono, tutte indistintamente le Popolazioni protestanti del mondo.

«E’ un fatto singolare, — osserva in proposito uno scrittore della «Civiltà Cattolica» — questa contribuzione sistematica per la propaganda nelle popolazioni acattoliche: non v’è paese del mondo, dove sia una comunità di protestanti, chè non ci apporti il suo obolo: esso è Come una parte determinata del loro culto, della loro religione.

Quando, per cause multiple che qui non è il caso di esporre, sul finire del secolo XVIII venne a mancare alle missioni cattoliche il sussidio dei monarchi e dei governi; degli stessi Sommi Pontefici e degli Ordini religiosi spogliati dei loro beni, parve — e fu difatti — cosa stupenda che le classi meno abbienti del popolo sorgessero a sostituirsi ai grandi della terra in una delle più alte funzioni. Ma Paolina Jaricot gettando nel 1882 le basi dell’Opera della Propagazione della Fede col soldo settimanale chiesto alle povere filandaie di Lione imitava

anzi molto probabilmente copiava, quanto già da tempo era praticato dai protestanti inglesi. Difatti parecchie delle grandi città d’Inghilterra: Londra, Liverpool, Plymouth Bristol ed altre avevano già società per le missioni alle quali anche il povero poteva partecipare coll’offerta di un penny (moneta da centesimi 10) per settimana, deponendolo in cassette esposte alle porte dei templi e delle botteghe; anche le case di educazione avevano simili cassette, allo scopo di abituare i loro alunni a versarvi la monetina sottratta ad un piccolo piacere a beneficio delle missioni. E allorchè l’Opera della Propagazione della Fede, già operante da circa 13 anni, raccogliendo le elemosine di tutto il mondo cattolico radunava tra mille stenti circa 2 milioni, un foglio di Londra, «The Journal Asiatique» nel febbraio 1836 dava un resoconto del quale risultava che nella sola Inghilterra, escluse le sue colonie, si erano quell’anno raccolte per le missioni protestanti lire sterline 778.035, pari a venti milioni di nostra moneta. E quasi ciò fosse ancor poco, tale somma andò poi sempre ingrossando per cura delle Società Missionarie moltiplicatesi d’anno in anno, talchè, secondo uno studio accurato quanto imparziale dell’illustre P. Piolet S. J., oggi l’Inghilterra. ne conta 110, fra le quali alcune straordinariamente estese e fruttifere. Nè allo zelo degli inglesi cede quello dei protestanti americani, i quali nel loro doppio continente contano ben 128 società missionarie; e nel solo territorio degli Stati Uniti quattro delle più floride fra esse raccolgono annualmente circa 24 milioni. Quali poi siano anche colà le disposizioni generali delle masse verso le missioni, possiamo apprenderlo dalla testimonianza di un recente convertito dalla Chiesa Episcopale protestante, il dottore Lloyd, il quale sul Bollettino della grande associazione cattolica: la «Church Extension Society» di Chicago scriveva: «Venendo di mezzo a un popolo in cui la stessa atmosfera era satura di zelo per le missioni; dove difficilmente si teneva una predica l’esordio o la perorazione della quale non trattasse con amore delle medesime, la mia sorpresa al notare la scarsità di entusiasmo apostolico fra le popolazioni cattoliche, lo confesso, fu grande. Il punto vitale odierno del protestantesimo è il suo zelo per le missioni in patria ed all’estero: senza di esso sarebbe già perito». Nello stesso senso parla il più autorevole periodico missionario degli Stati Uniti, il «The Field Afar». [p. 162 modifica]Ma se colpisce la liberalità verso l’apostolato di paesi ricchi per il loro commercio mondiale quali gli Stati Uniti di America, l’Inghilterra e, in proporzione, la Germania ed altre nazioni, più istruttivo si è che la stessa liberalità si trovi in paesi di tutt’altre condizioni economiche. La Svezia e la Norvegia, ad esempio, hanno popolazioni per la più parte povere; tuttavia i 7 milioni di protestanti norvegesi e svedesi danno per la propaganda circa 2 milioni di lire; e per quanto si discenda fino alle più piccole e misere chiese protestanti, non se ne troverà una che non dia il pensiero e l’offerta alle missioni. Ma l’entità dei sussidi protestanti alle missioni diventa più eloquente, se si fa qualche particolare paragone coi sussidii cattolici. Per non ingenerare noia e confusione con colonne di numeri, basti un confronto che vale per tutti: la Francia che si collocò fin da principio, e si mantenne costantemente in testa alle nazioni cattoliche per generosità verso le missioni, dà annualmente all’Opera Propagazione della Fede e ad altre Opere missionarie più di 6 milioni. Eppure i 37 milioni di cattolici francesi sono ancor lontani dal fare ciò che fanno 4 milioni di protestanti scozzesi, i quali danno 7 milioni mezzo. Però noi cattolici, dopo aver dinanzi all’esempio dei nostri fratelli dissidenti abbassato il capo, lungi dall’avvilirci, dobbiamo trarne motivo di efficace resipiscenza e di santa emulazione. Un illustre missionario francese,, traducendo in un moderno aforisfa un’eterna verità, ha detto che per convertire un popolo infedele occorrono: un apostolo, un martire ed un obolo. Il Signore nella sua misericordia dai tempi più antichi fino ai nostri giorni — con quelli della Cina — ha dato alle missioni cattoliche i loro martiri del sangue. Il martire rileva direttamente da Dio. Ma l’obolo come l’apostolo, richiedono altresì il concorso dell’opera umana, e il primo — le missioni protestanti ne dan luminosa prova — produce il secondo: sia colle vocazioni che suscita la sua raccolta stessa nei paesi civili; sia col mezzo che fornisce per formare e mantenere ausiliari indigeni nei paesi selvaggi. E oggi, sotto la pressione dell’ora opportuna che fugge e degli avvenimenti che precipitano, più che mai necessitano, in tutte le missioni cattoliche della terra uomini danaro, per raccogliere la messe d’anime che dappertutto pullula abbondantissima, matura e pericolante... Il protestantesimo la circuisce; l’islamismo, piovra infernale, allunga spaventosamente su di essa i suoi viscidi tentacoli. Il P. Lacombe S. J. scrive da Trichinopoli: «In India come dappertutto, per far fronte all’eresia, abbisognano uomini e danaro; e aggiungerò che qui, nella residenza di Madras, ci vogliono molti uomini e molto denaro». E il P. Kevyn del Seminario di Scheut-le-Btuxelles, dalla Mongolia rincalza ancora più esplicitamente: «L’apostolo cattolico è al soldo dei fedeli d’Occidente; la misura della loro liberalità segna la misura del di lui progresso nelle opere dell’aposolato». A questo punto sorge spontaneamente una domanda: Quai sono i risultati di tanto lavoro e di tanto stipendio

al quale si sobbarcano i protestanti? Corrispondono essi all’ampiezza dell’uno ed all’entità dell’altro? Se per i risultati si volessero intendere soltanto le vere e profonde conversioni a protestantesimo,’ converrebbe dire che le missioni protestonti assai rassomigliano alla famosa montagna che diè in luce il proverbiale topolino. Certo vi sono tribù selvagge che avendo spiccate tendenze alla religiosità — e se ne hanno tipici esempii in Oceania — facilmente son trattate a sostituire ad un semplicismo idolatrico quella qualsiasi religione che per prima ne seduca la fantasia con templii e grandi riunioni con sermoni e cantici. Altri popoli, più evoluti, vi son portati da sentimenti più elevati e da scopi sociali. «Il cafro — scrive dal Natal, uno zelante missionario — comprende oggidì ch:. i suoi veri amici sono i missionari: egli vuole la fede, vuole il Vangelo, e se il sacerdote cattolico non è là, va al ministro protestante o. Tuttavia da calcoli fatti sui più attendibili documenti di fonte protestante, risulta che sul principio di questo secolo (1899-900-901), dopo tanti anni di javoro, il numero dei cristiani indigeni di tutte le missioni protestanti del mondo non supera in cifra tondo, i 2 milioni; di cui probabilmente soltanto un quarto battezzati, e gli altri «comunicanti»: nome con cui sogliono designarsi gli affigliati alle diverse sette che abbiano partecipato alla «Cena» almeno una volta nel corso dell’anno. Ed anche tenendo conto degli aumenti dell’ultimo decennio, la cifra dei veri protestanti indigeni non può essersi di molto elevata. Ma se poche sono le conversioni che opera il pro• testantesimo, infinito è il numero delle anime che allontana dal cattolicismo in diverso modo, e primieramente seminando l’odio tradizionale e congenito alla Riforma, contro di esso. Ancora nel Natal, da Dundee dove egli risiede, il P. Texier degli Oblati di Maria, dopo aver dette che il paese è invaso da legioni di ministri, di predicanti, di seminatori di bibbie, soggiunge: «Alcuni sono uomini rispettabili, virtuosi, pieni di zelo e di abnegazione, e quando si discute con essi si constata la loro buona fede. Ma nutriti nei pregiudizi dell’eresia, non possono che odiare i cattolici e diffidare di essi. Quando, due anni fa, il magistrato di questa città si convertì al cristianesimo colla sua famiglia, il ministro anglicano disse alla propria moglie che egli avrebbe preferito vederla atea che cattolica». (Continua).

La federazione universitaria cattolica e le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli Poniamo in vista a titolo d’onore il voto con cui il Congresso della Federazione universitaria cattolica ha deliberato che ciascun circolo promuova nel proprio seno una conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli. Questo è il più splendido frutto che sia stato raccolto dalle feste, indette l’anno scorso in ogni parte del [p. 163 modifica]mondo pel centenario dalla nascita del loro fondatore Anton Federico Ozanam; più splendido anche di quello annunziato testè in Belgio dal visconte d’Hendecourt, quando questi fece sapere che alle settemilacinquecento Conferenze finora esistenti nei vari paesi se ne erano aggiunte, dopo il centenario, altre trecentoventisette. Infatti la deliberazione giovanile presa a Bologna, con un ottimo esempio dato da quest’Italia ove l’Ozanam nacque, ripone sistematicamente nella attività caritatevole che egli attinse da S. Vincenzo la gioventù studentesca, alla quale apparteneva quando fondò la grande opera, e alla quale chiese le prime braccia. Ed è una deliberazione di significato profondo. Se le Conferenze avevano avuto uno sviluppo mirabile rispetto alla pochezza delle origini e alla cura di non far nulla di clamoroso per diffonderle; se una fioridezza, che dura già da ottant’anni, parve superare non solo le previsioni, ma perfino i primi desideri dei sette studenti strettisi intorno ad Ozanam, i quali volendo dapprincipio rimaner soli la rendevano necessariamente peritura, le conferenze dico, non avevano ancora avuto tutta la forza e l’espansione, che sarebbero richieste dal bisogno che ce n’è e dai benefici di cui sono capaci. Molti fra i giovani ardenti, che anelano alla generosa missione di adoprarsi collettivamente per la fede e pel popolo; molti fra i giovani, non ricordavano che da essi e principal• mente per essi le Conferenze furono istituite; pensavano bensì di frequentare anche queste ma parevano non considerare più come una parte fondamentale della propria azione, nè della propria formazione. Le tenevano come un buon dippiù; come un campo da coltivare per giovevole riposo, non da dedicargli le più fruttifere e attraenti fatiche; le collocavano tra le cose piamente tradizionali da conservare in vita, non tra quelle su cui poggiare le vaste speranze. Anche le Conferenze, pur continuando pian piano ad accrescersi di numero e di braccia, subivano in qualche misura quella che io chiamerei la crisi della carità. Ora il ricordo solenne che l’hanno scorso fu di Ozanam, questo ufficio pratico ha avuto di mostrare persuasivamente coll’opera ed i principi di lui quanto una tal crisi, nata in nome della modernità, fosse indebita; quanto le conferenze abbiano ragione di superarla e di ravvivare a favor proprio l’entusiasmo esercitato dapprima sui giovani; quanto ad essi ed a lui si possa applicare ciò che egli disse di S. Vincenzo: «Le grandi anime che più si avvicinano a Dio ne traggono qualche cosa di profetico: hanno una visione anticipata dei mali e dei bisogni che le età venture porteranno con sè.» In che consiste questa crisi? Da che cosa è insidiata, anche nell’animo delle collettività cattoliche, la carità spicciola, personale, nascosta? Da tre cose principalmente; primo, dal supporre che nel campo delle idee non si possa restituire alle dottrine cattoliche una piena cittadinanza e una diffusa influenza sopra il mondo che pensa e che impronta di sè la civiltà nuova, se non si adoprano a ciò le sole armi prese dalla scienza e dalla controversia scientifica. Che cosa, diventa davanti alla necessità di questa grandiosa apologia intellettuale lo spettacolo, sia pure edificante della minuta

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carità? Sembra che anche tra noi sia involontariamente penetrato qualche parte di quello spirito di Bukle, che riteneva inefficaci allo stesso progresso morale del mondo i buoni sentimenti e le buone azioni, ed ogni speranza riponeva negli acquisti e nella potenza del sapere. In secondo luogo dinanzi ai contrasti, ai danni, ai dolori che produce la quesione sociale, molti giovani si domandano se il grande obbligo di escogitare e di applicare in vaste misure j.371 potenti organizzazioni, per ministero di leggi quel che richiede la giustizia evangelica, non renda troppo meschina cosa il beneficare spontaneamente un certo numero di poveri. Sembra che essi abbiano la tentazione di ripetere ciò che all’inizio delle Conferenze lo studente Cheruel, inclinato al socialismo, diceva ad Ozanam «Che sperate di fare in otto giovani per soccorrere le miserie d’una città come Parigi? E foste anche a mille doppi sprecherebbe il tempo. Noi invece elaboriamo idee e sistemi che riformando la società ne estirperanno la miseria per sempre. In un’ora noi faremo per l’umanità ciò che voi non fareste in parecchi secoli.» Finalmente la carità quotidiana, che ci mette sott’occhi gli aspetti più fastidiosi e spesso più degradanti dell’indigenza; che si nutre di tutti i severi esercizi della pietà religiosa, incontra presso i giovani un ostacolO, non confessato, che anzi ripugnerebbero dal confessare, ma che opera sugli animi con una sorda dissuasione, ossia il timore che ne sia mortificata la giocondità della vita. Sembra che all’orecchio di essi sia giunta quella parola, con cui si fece torto ad Ozanam, anche se s’intese lodarlo; la parola che disse non aver egli avuto mai gioventù. Ebbene la figura di Ozanam così diffusamente rievocata, nelle recenti commemorazioni fu la risposta vivente a queste espressioni o tacite obiezioni. L’uomo che inventò questa specie di carità, non solo ricordò le convenienze delle lotte di pensiero, dei provvedimenti di giustizia, del culto dell’allegrezza ma fu precisamente colui, che quando nessuno pensava ancora a portare le battaglie intellettuali per la religione nella cittadella del nemico, ossia nell’un.iversità, ve le portò; che quando dal sansimonismo e dalle barricate i buoni non traevano motivo che di condannare o di tramare, udì tra i primi risuonare anche in quel turbine il divino: «Misereor super turbum», ossia comando di nuove profonde e confidenti giustizie•: che propostosi di viver sempre fra i pensieri ammonitori di Dio e dalla morte; legato da una vita di frequenti sofferenze; impostosi lo spettacolo assidue delle sofferenze altrui, serbò e volutamente coltivò e fece in ogni tempo trionfare un’indole maturalmente gioconda e atratta da ogni pura bellezza della vita. La sua carità uscì da lui associata a tutto ciò che è razionalmente fiero e attivamente giusto e lietamente giovane. Questo i giovani universitari raccolti a Bologna,hanno compreso: in virtù di questo hanno restituito agli uffici di carità ciò chela crisi aveale tolto o sminuito in mezzo alla gioventù. Essi si sono felicemente attenuti alle parole con cuí il 5 gennaio del 1855 Pio IX disse ai confratelli di S. Vincenzo: «Figli miei, io vi consacro cavalieri di Cristo. li mondo non crede alla predicazione e al sacerdozio; ma [p. 164 modifica]crede ancora alla carità», alle parola con cui Leone XIII, dando a S. Vincenzo de’ Paoli il titolo di patrono di tutte le opere caritatevoli della Chiesa universale, prese occasione a ciò dalla riunione cinquantenaria della Conferenza tenuta nel 1883 a Parigi; alle parole, con cui Pio X dichiarò ai vescovi d’ogni parte della terra nulla desiderare egli maggiormente che veder diffondeersi in ogni più remota plaga i fratelli d’Ozanam; alle parole finalmente che a titolo di supremo elogio furono scritte sulla tomba di Ozapam: «Iuvenum conquistor ad militiam Christi: acquistatore della gioventù alla milizia di Cristo». FILIPPO CRISPOLTI.