Il buon cuore - Anno XII, n. 40 - 4 ottobre 1913/Religione

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Domenica prima d’Ottobre

Testo del Vangelo.

Il Signore Gesù disse questa parabola: Un uomo aveva un albero di fico piantato nella sua vigna, e andò per cercare dei frutti da questo fico e non ne trovò. Allora disse al vignaiuolo: Ecco che son tre anni che vengo a cercar frutto da questo fico e non ne trovo: troncalo adunque: perchè occupa egli ancora il terreno? Ma quegli rispose e dissegli: Signore, lascialo stare ancora per qualche anno, fintanto ch’io abbia scalzata intorno ad esso la terra, e vi abbia messo del letame: e se darà frutto, bene, se no allora lo taglierai. E Gesù stava insegnando nella loro Sinagoga in giorno di sabato. Quand’ecco una donna, la quale da diciotto anni aveva uno spirito che la teneva ammalata, ed era curva e non poteva per niun conto guardare all’insù. E Gesù vedutala, la chiamò a sè e le disse: Donna, tu sei sciolta dalla tua infermità. E le impose le mani, e immediatamente fu raddrizzata, e glorificava Iddio. Ma il [p. 317 modifica]capo della Sinagoga, sdegnato che Gesù "’avesse curata in giorno di sabato, prese a dire al popolo: Vi sono sei giorni nei quali si convien lavorare; in quelli adunque venite per esser curati, e non nel giorno di sabato. Ma il Signore prese la parola e disse: Ipocriti, chicchessia di voi non isciog lie egli in giorno d sabato il suo bue, o il suo asino dalla mangiatoia, e lo conduce a bere? E questa figlia di Abramo, tenuta già legata da Satana per diciott’anni non doveva essere sciolta da questo laccio in giorno di sabato? E mentre diceva tali cose, arrossivano tutti i suoi avversari,- e tutto il popolo si godeva di tutte le gloriose opere che da Lui si facevano. S. LUCA, cap. 13.

Pensieri. Gesù nell’antecedenti frasi, senza difenderli, non osa condannare come rei di maggior colpa alcuni che la ferocia di Pilato aveva pochi giorni prima uccisi. Gesù ancora non osa gravare il suo giudizio sui diciotto che la torre di Siloe — cadendo — aveva sepolti sotto di sè, e conchiudeva col bisogno della penitenza se l’uomo vuole ottenere la propria salute. A proposito adunque del modo ben diverso, per non dire contrario, con cui opera Dio in confronto all’uomo Gesù narra primamente la parabola soprariferita, ed aggiunge poi il miracolo, che segue, colla eloquente difesa di sè e della sua opera innanzi all’ipocrisia del Sinedrio e dell’archisinagogo. Davvero, amici. Non so per quali ragioni noi ci adiriamo perchè tante — troppe volte noi non otteniamo o ritarda il frutto delle nostre opere buone. Noi abbiamo corretto, ripreso il fratello d’un fallo: se questi non si piega, o tarda a convincersi il nostro falso zelo si converte in ira, in intemperanza, anche in... minaccie, e più che attendere buoni e pazienti il frutto buono vogliamo la nostra soddisfazione personale, l’orgoglio nostro accontentato. Ed anche siamo... capaci (!!!) d’adirarci — come quell’archisinagogo — di vederci sfuggire il monopolio del... bene. Ben è vero che quell’impostore sa trovare un legittimo pretesto nella... violazione del riposo festivo, ma dalla risposta di Cristo appare troppo manifesta e chiara la vigliacca e nascosta ragione del suo orgoglio offeso. E’ così raro questo caso fra di noi... ai nostri beati giorni... in mezzo a tanto lusso di zelo... di sincerità? Non sentiamo il grido e la rampogna di Cristo scaturire indignata, gridare ai... troppi: Ipocrita!

Il padrone della vigna è già assai buono. Aspetta a lamentarsi solo dopo... tre anni. Notate tre anni nei quali l’azione solare si è alternata colla rugiada e la pioggia; tre anni nei quali è supponibile pensare le cure della potatura, della concimazione, ecc., quelle che un buono e solerte agricoltore suole usare non solo per ottenere un buon frutto, ma per un più forte sfruttamento.

Dopo í tre anni voleva sperare ed aveva ragione di attendere. Il suo lamento col vignaiolo è più che giustificato dalla lunga attesa, dal danno che gli deriva dall’aver occupato inutilmente dell’ottimo terreno: lo stesso ordine di tagliarla e sradicarla è la più logica delle conseguenze... Sono tre, quattro, dieci, venti, quaranta anni e più che Dio — il buon padrone — attende,da noi; che indaga nel nostro spirito in cerca del dolce frutto della verità, dei frutti convertiti in soavi frutti di opere buone e sante di elevazione, e forse noi — più che l’albero sterile — abbiamo inutilizzato il lavoro della verità — sole splendido — abbiamo trascurato l’azione della grazia divina nei sacramenti, nella pietà, nell’azione religiosa, forse abbiamo — non dico occupato — ma trascurato, reso nullo ed inoperoso un battesimo, che in altre terre, altrove avrebbe dato ubertosissimi frutti?!... Il padrone muove lamento: ma quanta bontà, tolleranza, pietà in quel. lamento: nella minaccia si tradisce il dispiacere, tanto vero che è subito accettata la preghiera del vignajolo d’attendere ancora, di aspettare meglio da un’azione, che si attribuisce quasi come trascurata: incolpa se non l’albero, nr,n l’intemperie, ecc... E noi? Quanto diversi! non diamo tempo, siamo insofferenti: nella nostra bontà — quando è bontà — usiamo il precipitare: ed anzichè essere il vignajolo pietoso, siamo gli intolleranti che spingono a rovina, ad abbandono. Oh! via! non nego che al nostro zelo possano opporsi resistenze terribili superbia, capricci, passioni, fervore di gioventù, febbre di piacere... Non gridiamo al padrone: taglia! spezza! castiga! no! Preghiamo attenda ancora: promettiamo un maggior lavoro, un’azione migliore... chissà se domani... E se nel nostro zelo, nel nostro lavoro noi avessimo a trovare — genitori, amici, fratelli, superiori, colleghi, tutti, tutti! non una scusa pietosa, ma l’unica, la sola, il vero inciampo a ciò che l’albero — lo spirito dei nostri simili — non sa e può fruttificare? Possiamo noi condannare? B. R.

TETTERRTURA COLONIALE

L'Egitto d'Italia

Così Giuseppe Piazza definisce il Benadir, dopo averlo studiato in un interesssante volume (i) e dopo averne prospettate le risorse e l’avvenire. Il grande amore alle cose coloniali, che mutò il letterato in polemista e condusse l’uomo abitualmente sereno e taciturno alle ansie e alle verbosità concitate di un dibattimento penale, ci è garanzia asso(I) 11 Benadir: Bontempelli e Invernizzi — Roma - /913 Lire 4 [p. 318 modifica]luta che il Benardir descritto dal Piazza non sia diverso da quello che si stende lungo le valli dell’Uebi Scebeli e del Giuba; e questa nostra convinzione è rafforzata da una caratteristica specifica del volume, teste licenziato alle stampe, che lo differenzia da tutto quanto l’autore ha già scritto in materia coloniale. Ogni pretesa estetica fu da lui bandita nel redigere le sobrie pagine del suo studio, egli si è allontanato da quel suo fraseggiare rotondo ed immaginoso che amplificava le visioni e dava a chi leggeva più il miraggio che la esatta nozione delle cose descritte. Ricordiamo di avergli segnalata questa menda, e ci piace constatare che l’artista si è volentieri sacrificato in omaggio alla cruda materialità dei soggetti trattati. Giuseppe Piazza ha saputo scendere, senza diminuirsi, dalle altezze del regno della forma a quello, men bello ma rudemente dominatore dell’uomo e dell’azione. Non ci soffermeremo perciò alla disamina del libro dal punto di vista letterario. Il suo valore è tutto nelle sue virtù rivelatrici e nelle deduzioni che l’autore ne trae, nelle conclusioni cui perviene, nel senso di responsabilità che le informano. Chi legge può più di una volta domandare a sè stesso: «Avremo noi italiani la forza di non mandare sciupato un tesoro?». E l’anima si adagia in una contemplazione d’un immenso campo biOndo di grani, vigilando sul dubbio tormentatore, dubbio non basato sulla potenzialità colonizzatrice del nostro popolo, ma sulla mentalità della nostra classe capitalista e su quella degli uomini di governo, ancor oggi appartenenti alla generazione che subì la pace con Menelick e volle, patir l’onta della cessione di Cassala, temendo le fantasime agitate dalla demagogia e l’avventura africana. La stirpe di Enea non aveva più il coraggio di manovrare una piccola vela tra gli elementi infidi, e la prigionia in Attica le parve men triste cosa che l’urlìo dei venti e la ricerca affannosa di venire, sia pur tardi,. a proda. Questa visione miserabile dell’Italia di ieri (non ancora possiamo dimenticare!) si affaccia a turbare le speranze dello scrittore e di chi legge; l’autore ci comunica un senso dí smarrimento e di preoccu.pazione... Sapremo trarre dalla energia rinata del nostro paese tutto il frutto che può dare la pioggia di sangue, lavacro delle ignominie passate? L’impresa di Libia porterà, oltre che un rifiorire di spirito combattivo, lo spirito dell’avventura d’oltremare? L’augurio che formuliamo è che, più vicino al mondo dell’aroma e del deserto, della ricchezza e del disagio, l’italiano d’oggi veda nella Libia il primo scalo delle sue peregrinazioni africane, che ad esso non si soffermi nell’estasi dei ricordi, ma che da esso spinga lo sguardo e le audacie verso altri lidi. Non perchè segnante un momento storico, l’impresa di Libia deve significare oblio- d’altre imprese: l’Eritrea, la Somalia, il Benadir ci sono care, e le salme di Verri, Toselli e Molinari identificano il tracciato del nostro divenire coloniale. Tale è la formula ammonitrice, nella quale pos siamo sintetizzare l’opera di Giuseppe Piazza, e questa formula sarà più persuasiva quando, seguendoci, il lettore avrà, sia pur di lontano, avuto la prova della doviziosa messe che attende il falcetto italiano sulle coste dell’Ocenao indiano.

Il Benadir, come ogni paese non ancora entrato nel ciclo della civiltà europea, come ogni colonia recente, non è il paese della cuccagna. Chi vede con gli occhi degli autori delle Mille e una notte i paesi orientali, è meglio che continui a sognare nei pomeriggi blandi italiani, piuttosto che recarsi in traccia d’un quid inesistente la colonizzazione non è tourisnio, come la letteratura coloniale non è colore locale. locale. ’ Ecco i motivi per i quali sembrerà molto subordinata alle circostanze ed all’opera dell’uomo la feracità e la richezza del Benadir. I nostri contadini che sono i veri conoscitori della terra guardano sempre con gli sguardi dei nipoti le zolle da essi evulse alla superficie minerale della terra, e, se un indizio di vegetabilità si presenta, non gridano alla scoperta dell’Eldorado o della terra di Canaan, ma misurano la proporzione dello sforzo al rendimento di esso per ottenere la realizzazione di un sogno. Giuseppe Piazza ha voluto essere un po’ bifolco nel visitare, osservare e descrivere il Benadir. Così lo fossero tutti coloro che pongono piede sul suolo vergine! Ed il Piazza ha cominciato a notare che la verginità del suolo del Benadir era stata manomessa prima che l’uomo bianco, il quale si crede pioniere della civiltà in ogni luogo, avesse avuto notizia dell’Uebi Scebeli e del Giuba. Altre genti, in tempi non lontani, si erano fermate, sulle sponde dei due fiumi, ed avevano incominciato a vivere nella storia; esse cioè avevano lasciato le impronte d’un loro sistema di civiltà agricola nel Benadir, avevano tramandato nell’avvenire l’ordine all’uomo, in genere, di non trascurare ciò che loro era stato offerto dalla natura; e costruzioni idrauliche e lavori di bonifica intraprendevano, quasi per dare la traccia del lavoro da compiersi traverso i giorni, i secoli. Nel Ben.adir dunque la ricchezza è subordinata al tempo, questo alla utilizzazione che ne sapranno fare gli uomini. Noi ponemmo piede sulle cosste Somàli per la prima volta nel 1885 per una esplorazione commerciale, nel 1889 fu redatto il primo documento politico che ci assicurava il nord della Somalia, nel 1891 la nostra influenza si estendeva dalla foce del Giuba fino al capo Guardafui, nel 1892 entravano in nostro dominio i porti zanzibariti del Benadir, nel 1894 definivamo con l’Inghilterra le zone rispettive di competenza. Da allora ad oggi, lentamente, quasi alla cieca, abbiamo proceduto alla occupazione dell’hinterland: solo dopo le incresciose controversie fra potere civile e militare, dal giorno dell’insediamento del’gover [p. 319 modifica]natore De Martino, la nostra posizione politica è divenuta solida tra l’Uebi Scebeli e il Giuba. Da poco veramente si è incominciato a fare, e non si è fatto poco nei limiti del bilancio della colonia. Questa fattività non deve subire arresti, deve essere intensificata, se non si vuole vedere stornata la corrente, che proviene dall’interno alla costa dei Somali, per opera dell’Inghilterra, la quale fra non molto avrà allacciato Mombasa con il territorio dei Borau, per mezzo di ferrovia. L’avvenire del Benadir, traverso lo studio di Giuseppe Piazza, è tutto legato alla costruzione delle strade, ferrate in ispecie, ed alla sistemazione degli approdi. Benché più di millecento chilometri di rotabili colleghino i porti ai centri più prosperosi sul Giuba, e sull’Uebi Scebeli, la necessità di sondare l’interno con la ferrovia si rende indispensabile. Le popolazioni, non aspettano di meglio, esse anzi hanno fatto ciò che era fino ad ora insperabile, hanno contribuito per cabila, con opere di braccia, alla apertura delle comunicazioni, hanno accettato cioè di essere in maggior contatto con noi e compreso che esse debbono integrare il nostro programma di civiltà, nel nostro e nel loro interesse. Questo risultato non è trascurabile, ove si pensi che in colonia, e specialmente nei paesi abitati da popolazioni islamizzate, ben duro è il vincere la diffidenza e i pregiudizi. La capacità dimostrata dagli italiani nell’ispirare fiducia negli indigeni risolverà un altro problema, parallelo a quello delle comunicazioni e dei porti, strettamente legato al prosperare del Benadir. Il vastissimo territorio è raramente popolato: le incursioni abissine e la tratta degli schiavi lo hanno in passato reso semidesertico; pochi villaggi hanno potuto sussistere e resistere fra le più varie insidie. Urge ripopolare il Benadir, ed il ripopolamento si può riassumere in tre sistemi, che debbono svolgersi contemporaneamente. Il primo consiste nell’aumento naturale dei Somali e dei Galla abitanti il Benadir, il secondo sta nel determinare una corrente migratoria stabile’ dall’Arabia nel Benadir, il terzo nel fàvorire coloni italiani che volessero recarsi in colonia. Come si vede il piano del ripopolamento, secondo Giuseppe Piazza, non parte dal criterio d iaffidare a una razza la storia avvenire del Benadir. Questa storia noi potremo farla associandoci alla storia già svoltasi sulle coste somàle, storia che segnala un movimento di popoli dall’oriente islamico verso l’Africa sud-orientale. L’Arabo,vi ha resistito traverso i secoli, e la sua lingua è quella ufficiale da Suez a Mombasa e alla Baja di Delaoa per gli scambi e i commerci; e, quando abbiamo voluto risolvere il problema militare nella Somalia, abbiamo dovuto accettare, come unica possibile soluzione, la costituzione dei reparti di truppa con elementi dello Jemen e dell’Adramut. Que sto fenomeno militare è un fenomeno migratorio anch’esso, e può da.fenomeno puramente militare divenire fenomeno demografico. Esso unitamente alla riproduzione somala e galla, con la sovrapposizione

di elementi italiani, darà gente nuova al Benadir, formando cioè una popolazione uniforme, per successive fusioni, in un territorio nel quale uniforme si svolgerà la vita per tutti, vita agricola e commerciale. Destinato ad essere un crogiolo di razze, il Benadir avrà a disposizione per rivelare le sue forze economiche gli elementi più saldi. Riassumendo, il libro di Giuseppe Piazza vuole essere ed è opera di propaganda. La maggior parte dei suoi giudizi sono conformi ai migliori criteri di colonizzazione. Dichiariamo però che le sue conclusioni riguardanti la schiavitù non sono rispondenti alla nostra civiltà ed alla valutazione che noi facciamo dell’essere umano. La schiavitù non può essere trasformata, poichè trasformarla significherebbe riconoscerne l’istituto. Essa è una piaga contro la quale occorre il più ardente cauterio, quello che deve sradicarla. Vagliato al confronto con i volumi che già dobbiamo al Piazza, questo suo Benadir risente la maturità, mentre gli altri ci davano la impressione della preparazione. T. M. VARINI.

Sua Eccellenza la Contessa Amalia Visone nata Rasini di Mortigliengo. Un’eletta figura di gentildonna che scompare, un gran vuoto nella Torino cristiana e benefica, un profondo rimpianto nei cuori! Da Roma, dove nel fasto di Corte raggiò di giovinezza e di grazia, prese dimora qui e vi restò come un simbolo della carità nelle sue più dolci e gentili manifestaiioni. Prediletta da S. M. la Regina Margherita, amata da S. A. la Principessa Clotilde con particolare affetto, ebbe amicizia coi più insigni uomini del suo’ tempo e fu la prudente Egeria, in difficili casi, del Consorte, Ministro della Real Casa. L’Ospedaletto Regina Margherita, le Colonie Africane, le Opere Salesiane, l’Istituto dei Rachitici, l’Oratorio di San Felice, le Figlie povere dei carcerati, gli Asili per i Lattanti, la Società Antischiavista, l’Associazione per le Giovani Operaie e per gli Emigranti, la Protezione della Giovane, ’che l’ebbero Presidente o Patrona, attestano le sue predare benemerenze. Di gentilezza squisita, Ella rispecchiava nel si gnorile sembiante la dignità della vita, la nobiltà dell’anima invaghita del bello, del buono e del vero. Anima impareggiabile non conobbe nè malarcenze, nè invidie e passò come una luce che non si spegne, ma più vivida si riaccende nel cielo. Torino.

C.ssa ROSA DI SAN MARCO. [p. 320 modifica]Società Amici del Bene

FRANCOBOLLI USATI

Monsignor G. Polvara... N. I000