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IL BUON CUORE 317


capo della Sinagoga, sdegnato che Gesù "’avesse curata in giorno di sabato, prese a dire al popolo: Vi sono sei giorni nei quali si convien lavorare; in quelli adunque venite per esser curati, e non nel giorno di sabato. Ma il Signore prese la parola e disse: Ipocriti, chicchessia di voi non isciog lie egli in giorno d sabato il suo bue, o il suo asino dalla mangiatoia, e lo conduce a bere? E questa figlia di Abramo, tenuta già legata da Satana per diciott’anni non doveva essere sciolta da questo laccio in giorno di sabato? E mentre diceva tali cose, arrossivano tutti i suoi avversari,- e tutto il popolo si godeva di tutte le gloriose opere che da Lui si facevano. S. LUCA, cap. 13.

Pensieri. Gesù nell’antecedenti frasi, senza difenderli, non osa condannare come rei di maggior colpa alcuni che la ferocia di Pilato aveva pochi giorni prima uccisi. Gesù ancora non osa gravare il suo giudizio sui diciotto che la torre di Siloe — cadendo — aveva sepolti sotto di sè, e conchiudeva col bisogno della penitenza se l’uomo vuole ottenere la propria salute. A proposito adunque del modo ben diverso, per non dire contrario, con cui opera Dio in confronto all’uomo Gesù narra primamente la parabola soprariferita, ed aggiunge poi il miracolo, che segue, colla eloquente difesa di sè e della sua opera innanzi all’ipocrisia del Sinedrio e dell’archisinagogo. Davvero, amici. Non so per quali ragioni noi ci adiriamo perchè tante — troppe volte noi non otteniamo o ritarda il frutto delle nostre opere buone. Noi abbiamo corretto, ripreso il fratello d’un fallo: se questi non si piega, o tarda a convincersi il nostro falso zelo si converte in ira, in intemperanza, anche in... minaccie, e più che attendere buoni e pazienti il frutto buono vogliamo la nostra soddisfazione personale, l’orgoglio nostro accontentato. Ed anche siamo... capaci (!!!) d’adirarci — come quell’archisinagogo — di vederci sfuggire il monopolio del... bene. Ben è vero che quell’impostore sa trovare un legittimo pretesto nella... violazione del riposo festivo, ma dalla risposta di Cristo appare troppo manifesta e chiara la vigliacca e nascosta ragione del suo orgoglio offeso. E’ così raro questo caso fra di noi... ai nostri beati giorni... in mezzo a tanto lusso di zelo... di sincerità? Non sentiamo il grido e la rampogna di Cristo scaturire indignata, gridare ai... troppi: Ipocrita!

Il padrone della vigna è già assai buono. Aspetta a lamentarsi solo dopo... tre anni. Notate tre anni nei quali l’azione solare si è alternata colla rugiada e la pioggia; tre anni nei quali è supponibile pensare le cure della potatura, della concimazione, ecc., quelle che un buono e solerte agricoltore suole usare non solo per ottenere un buon frutto, ma per un più forte sfruttamento.

Dopo í tre anni voleva sperare ed aveva ragione di attendere. Il suo lamento col vignaiolo è più che giustificato dalla lunga attesa, dal danno che gli deriva dall’aver occupato inutilmente dell’ottimo terreno: lo stesso ordine di tagliarla e sradicarla è la più logica delle conseguenze... Sono tre, quattro, dieci, venti, quaranta anni e più che Dio — il buon padrone — attende,da noi; che indaga nel nostro spirito in cerca del dolce frutto della verità, dei frutti convertiti in soavi frutti di opere buone e sante di elevazione, e forse noi — più che l’albero sterile — abbiamo inutilizzato il lavoro della verità — sole splendido — abbiamo trascurato l’azione della grazia divina nei sacramenti, nella pietà, nell’azione religiosa, forse abbiamo — non dico occupato — ma trascurato, reso nullo ed inoperoso un battesimo, che in altre terre, altrove avrebbe dato ubertosissimi frutti?!... Il padrone muove lamento: ma quanta bontà, tolleranza, pietà in quel. lamento: nella minaccia si tradisce il dispiacere, tanto vero che è subito accettata la preghiera del vignajolo d’attendere ancora, di aspettare meglio da un’azione, che si attribuisce quasi come trascurata: incolpa se non l’albero, nr,n l’intemperie, ecc... E noi? Quanto diversi! non diamo tempo, siamo insofferenti: nella nostra bontà — quando è bontà — usiamo il precipitare: ed anzichè essere il vignajolo pietoso, siamo gli intolleranti che spingono a rovina, ad abbandono. Oh! via! non nego che al nostro zelo possano opporsi resistenze terribili superbia, capricci, passioni, fervore di gioventù, febbre di piacere... Non gridiamo al padrone: taglia! spezza! castiga! no! Preghiamo attenda ancora: promettiamo un maggior lavoro, un’azione migliore... chissà se domani... E se nel nostro zelo, nel nostro lavoro noi avessimo a trovare — genitori, amici, fratelli, superiori, colleghi, tutti, tutti! non una scusa pietosa, ma l’unica, la sola, il vero inciampo a ciò che l’albero — lo spirito dei nostri simili — non sa e può fruttificare? Possiamo noi condannare? B. R.

TETTERRTURA COLONIALE

L'Egitto d'Italia

Così Giuseppe Piazza definisce il Benadir, dopo averlo studiato in un interesssante volume (i) e dopo averne prospettate le risorse e l’avvenire. Il grande amore alle cose coloniali, che mutò il letterato in polemista e condusse l’uomo abitualmente sereno e taciturno alle ansie e alle verbosità concitate di un dibattimento penale, ci è garanzia asso(I) 11 Benadir: Bontempelli e Invernizzi — Roma - /913 Lire 4