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318 IL BUON CUORE


luta che il Benardir descritto dal Piazza non sia diverso da quello che si stende lungo le valli dell’Uebi Scebeli e del Giuba; e questa nostra convinzione è rafforzata da una caratteristica specifica del volume, teste licenziato alle stampe, che lo differenzia da tutto quanto l’autore ha già scritto in materia coloniale. Ogni pretesa estetica fu da lui bandita nel redigere le sobrie pagine del suo studio, egli si è allontanato da quel suo fraseggiare rotondo ed immaginoso che amplificava le visioni e dava a chi leggeva più il miraggio che la esatta nozione delle cose descritte. Ricordiamo di avergli segnalata questa menda, e ci piace constatare che l’artista si è volentieri sacrificato in omaggio alla cruda materialità dei soggetti trattati. Giuseppe Piazza ha saputo scendere, senza diminuirsi, dalle altezze del regno della forma a quello, men bello ma rudemente dominatore dell’uomo e dell’azione. Non ci soffermeremo perciò alla disamina del libro dal punto di vista letterario. Il suo valore è tutto nelle sue virtù rivelatrici e nelle deduzioni che l’autore ne trae, nelle conclusioni cui perviene, nel senso di responsabilità che le informano. Chi legge può più di una volta domandare a sè stesso: «Avremo noi italiani la forza di non mandare sciupato un tesoro?». E l’anima si adagia in una contemplazione d’un immenso campo biOndo di grani, vigilando sul dubbio tormentatore, dubbio non basato sulla potenzialità colonizzatrice del nostro popolo, ma sulla mentalità della nostra classe capitalista e su quella degli uomini di governo, ancor oggi appartenenti alla generazione che subì la pace con Menelick e volle, patir l’onta della cessione di Cassala, temendo le fantasime agitate dalla demagogia e l’avventura africana. La stirpe di Enea non aveva più il coraggio di manovrare una piccola vela tra gli elementi infidi, e la prigionia in Attica le parve men triste cosa che l’urlìo dei venti e la ricerca affannosa di venire, sia pur tardi,. a proda. Questa visione miserabile dell’Italia di ieri (non ancora possiamo dimenticare!) si affaccia a turbare le speranze dello scrittore e di chi legge; l’autore ci comunica un senso dí smarrimento e di preoccu.pazione... Sapremo trarre dalla energia rinata del nostro paese tutto il frutto che può dare la pioggia di sangue, lavacro delle ignominie passate? L’impresa di Libia porterà, oltre che un rifiorire di spirito combattivo, lo spirito dell’avventura d’oltremare? L’augurio che formuliamo è che, più vicino al mondo dell’aroma e del deserto, della ricchezza e del disagio, l’italiano d’oggi veda nella Libia il primo scalo delle sue peregrinazioni africane, che ad esso non si soffermi nell’estasi dei ricordi, ma che da esso spinga lo sguardo e le audacie verso altri lidi. Non perchè segnante un momento storico, l’impresa di Libia deve significare oblio- d’altre imprese: l’Eritrea, la Somalia, il Benadir ci sono care, e le salme di Verri, Toselli e Molinari identificano il tracciato del nostro divenire coloniale. Tale è la formula ammonitrice, nella quale pos siamo sintetizzare l’opera di Giuseppe Piazza, e questa formula sarà più persuasiva quando, seguendoci, il lettore avrà, sia pur di lontano, avuto la prova della doviziosa messe che attende il falcetto italiano sulle coste dell’Ocenao indiano.

Il Benadir, come ogni paese non ancora entrato nel ciclo della civiltà europea, come ogni colonia recente, non è il paese della cuccagna. Chi vede con gli occhi degli autori delle Mille e una notte i paesi orientali, è meglio che continui a sognare nei pomeriggi blandi italiani, piuttosto che recarsi in traccia d’un quid inesistente la colonizzazione non è tourisnio, come la letteratura coloniale non è colore locale. locale. ’ Ecco i motivi per i quali sembrerà molto subordinata alle circostanze ed all’opera dell’uomo la feracità e la richezza del Benadir. I nostri contadini che sono i veri conoscitori della terra guardano sempre con gli sguardi dei nipoti le zolle da essi evulse alla superficie minerale della terra, e, se un indizio di vegetabilità si presenta, non gridano alla scoperta dell’Eldorado o della terra di Canaan, ma misurano la proporzione dello sforzo al rendimento di esso per ottenere la realizzazione di un sogno. Giuseppe Piazza ha voluto essere un po’ bifolco nel visitare, osservare e descrivere il Benadir. Così lo fossero tutti coloro che pongono piede sul suolo vergine! Ed il Piazza ha cominciato a notare che la verginità del suolo del Benadir era stata manomessa prima che l’uomo bianco, il quale si crede pioniere della civiltà in ogni luogo, avesse avuto notizia dell’Uebi Scebeli e del Giuba. Altre genti, in tempi non lontani, si erano fermate, sulle sponde dei due fiumi, ed avevano incominciato a vivere nella storia; esse cioè avevano lasciato le impronte d’un loro sistema di civiltà agricola nel Benadir, avevano tramandato nell’avvenire l’ordine all’uomo, in genere, di non trascurare ciò che loro era stato offerto dalla natura; e costruzioni idrauliche e lavori di bonifica intraprendevano, quasi per dare la traccia del lavoro da compiersi traverso i giorni, i secoli. Nel Ben.adir dunque la ricchezza è subordinata al tempo, questo alla utilizzazione che ne sapranno fare gli uomini. Noi ponemmo piede sulle cosste Somàli per la prima volta nel 1885 per una esplorazione commerciale, nel 1889 fu redatto il primo documento politico che ci assicurava il nord della Somalia, nel 1891 la nostra influenza si estendeva dalla foce del Giuba fino al capo Guardafui, nel 1892 entravano in nostro dominio i porti zanzibariti del Benadir, nel 1894 definivamo con l’Inghilterra le zone rispettive di competenza. Da allora ad oggi, lentamente, quasi alla cieca, abbiamo proceduto alla occupazione dell’hinterland: solo dopo le incresciose controversie fra potere civile e militare, dal giorno dell’insediamento del’gover