Il buon cuore - Anno XII, n. 26 - 28 giugno 1913/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 26 - 28 giugno 1913 Religione

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La dottrina di un filosofo cristiano


Continuazione del numero precedente)



La filosofia del divino


Così, poniamo, quando io penso al libro che ho sotto gli occhi, la cognizione consta di una parvenza individuale, che si riferisce ad un sodalizio di forze mondane che per sè non appaiono: di atti unificativi della mente; e di un atto assoluto, principio e cagione degli atti della mente. I reali non sono idee, bensì intelligibili, cioè atti a divenire idee, non per virtù propria, ma sì per virtù della mente, e per quella dell’assoluto la quale li fa e con la mente li pone in relazione. Dei reali uno solo è idea, ma in rispetto a noi c’è bisogno che egli si riferisca alle cose e alla mente, perchè possa lucere come idea: e perciò l’assoluto in rispetto a noi è un intelligibile, che si converte per mezzo delle sue stesse fatture in cosa intelletta. E così interpretando, vera è la sentenza di San Paolo, che le cose invisibili di Dio, essendo intese per le opere sue, si vedono; ma è vera altresì la sentenza opposta, cioè che si vedono le creature, invisibili per sè stesse, essendo intese per la relazione loro con Dio. Le cose poi sono alle idee, e le idee dell’essenza divina, come in un plenilunio sereno la terra è alla luna, e questa è al sole; perchè come la luna chiarifica la terra del lume che riceve dal sole, similmente le idee chiarificano le cose del lume che ricevono da quella essenza. Dio vede in sè il principio del creato, ma l’intelletto nostro non può vedere Dio in sè, schietto, ma sì come un elemento che con altri elementi intellettivi si compone, che il creato stesso dispensa. L’intuizione è dunque contemplazione operativa, o operazione contemplativa; perchè lo spirito nè potrebbe contemplare Dio senza comporlo con elementi intellettivi ricavati da fantasmi, nè ciò fare potrebbe senza contemplarlo.

La ragione di credere che in Dio siano i paradimmi delle cose, è che egli non ha fatto il mondo a caso, ma per intelletto. Platone pone tra la mente divina e i paradimmi una relazione simile a quella fra la mente nostra ed i concetti. Ma tra la mente nostra ed i concetti è azione reciproca, perchè si suscitano e compiono scambievolmente, dovecche l’essenza divina è perfettissima per sè medesima, e non è come la umana, segnata da distinzione alcuna. La nostra mente quando pensa, bene discorre per idee, e si muove essa e si muovono quelle: la quale la fanno accorta del loro moto, però che si specchiano nelle labili immagini e risonanò nella fuggitiva parola; ma la mente di Dio non è discorsiva, perchè non passa dal primo al poi, nè dalla causa all’effetto. Se Dio è unità distintissima non stampata da alcuna distinzione, come può entro sè accogliere una moltitudine infinita di ragioni o paradimmi distinti! Iddio ha idee distinte inquantochè crea cose distinte; ma prima di creare, le accoglieva in sè, non come il molto nell’uno, ma sì bene come l’uno nell’uno.

Dio immagina e concepisce; e l’immaginazione sua non è destata da cause esterne come la nostra, nè forma come questa ombre vane, ma sostanze piene e reali. E che è questo immaginare suo? E’ creare. Or il creare suo, avvegnachè senza paradimmi, non è cieco, perchè Egli è Idea, è visione vedente; e i termini creati non isfuggono all’Idea, perchè essa è lo stesso creare, e s’insinua in tutti i pori della realtà. E i paradimmi, se così piace chiamarli, nascon appunto in questo insinuarsi o travasarsi dell’idea nella sua fattura. Ma laddove la fattura dell’uomo, la immagine, precede il concetto di lui, e lo precede [p. 202 modifica]nochè non divenga parola o parvenza del concetto medesimo; quanto a Dio, la natura non precede il paradimma, perchè egli col medesimo atto crea e concepisce le singole cose create. Laddove la nostra scienza è superficiale, perocchè non sappiamo immaginando, o sapendo immaginiamo, la scienza di Dio è solida, cioè, fa sapendo, o più propriamente sa facendo, cioè, sa e cose facendole essere, e le fa per virtù dell’unità di sua scienza; e distintamente le sa, perciocchè le cose che fa si distinguono. Negando i paradimmi, pare non si possa salvare la libertà di Dio; e in vero, se Dio fa il mondo senza paradimmi, pare lo faccia senza elezione, a caso, o per necessità cieca. Ma così non è. Dio vuole e intende il mondo, creandolo. La necessità per la quale si può affermare che Dio voglia il mondo, non è assoluta, cioè per ragion di difetto e di scarsezza, ma sì di perfezione e di abbondanza. Malamente s’interpreta la libertà come impotenza della ragione a muovere la volontà se ad essa rappresenta cosa convenevole. Ciò vale per noi imperfetti, su i quali allora è efficace la ragione, quando essa è aiutata dalla idea di necessità; ma su Colui che è perfettissimo sì del pensare che la ragione è sempre efficacissima, sia che si presenti come necessità, sia come convenienza; perchè la perfezione della volontà è appunto nella sua nobiltà massima inverso alla regione motiva. Si nega, dunque, a Dio la libertà imperfetta,ma gli si riconosce un’altra ch’è perfetta. Dio non crea necessariamente il mondo per divenire perfetto, ma sì perchè è già perfetto; é natura è del perfetto diffondere la perfezione sua. Se l’atto con il quale Dio vuole il mondo fosse potuto non essere, sarebbe contingente, e la contingenza non si stende dietro di lui. A dire che Dio sa necessariamente e vuole non necessariamente il mondo, si dà a credere che il sapere e il volere in Dio non siano lo stesso. Ma Dio non vuole altrimenti di quel che sa. Dal Fato divino escon le cose e insieme i paradimmi e le volizioni di esse cose. E’ fato luminoso veggente, ineffabile: conciossiachè Dio,.nell’intendere necessariamente sè, intende le altre cose; nel volere necessariamente sè, vuole le altre cose; e dacchè intente e vuole sè perchè è, intende e vuole per sè le altre cose perchè partecipano dell’essere. Dal dire poi che l’atto creativo è necessario non segue che altresì necessario è il creato. Il creato è contingente, perchè non ha in sè la ragione dell’esser suo, perchè guardato in sè poteva non essere, anzi guardato in sè doveva non essere, non avendo in sè il potere di essere. Ora se il mondo contingente si guarda in rispetto a Dio, Dio è libero in rispetto ad esso; ma la libertà è la stessa necessità guardata ad extra, nella contingenza del mondo; ma guardata in sè medesima (ad intra) è quella che è, cioè necessità; non per difetto, ma per abbondanza. Adunque non per divenire perfetto, ma sì perchè in sè è perfetto. Dio necessario necessariamente crea il mondo non necessario.

I precedenti storici della sua dottrina La teoria dell’Acri intorno alle idee ci richiama alla mente i più bei nomi della storia della filosofia; ma l’Acri segue un suo proprio indirizzo e si discosta da tutte le dottrine filosofiche precedenti, e anche dalle tradizioni della Chiesa cristiana, sebbene, specie rispetto a queste ultime, adoperi il suo potente ingegno per dimostrare che le discordanze sono più apparenti che vere. • Il puro Fare, ch’è il principio dal quale l’Acri muove, non può accostarsi nè alla Idea dell’Hegel, nè all’Ente del Gioberti, nè alla Monade infinita pura e perfettissima attività del Leibniz, nè alla Sostanza dello Spinoza, nè all’Essere perfettissimo dei Cartesio, nè al Demiurgo o Architetto supremo di Platone, nè al Movente non mosso di Aristotile. La trilogia dell’Acri di fatto, fatto ch’è fare, e puro fare ricorda bene la trilogia di Aristotile di mosso, di mosso movente, e movente non mosso, che eternamente muove il mondo, attirandolo e volgendolo a sè come a sua mèta suprema; ma laddove il primo motore di Aristotile non ha nessun legame intimo con le cose mosse per esser privo di ogni operosità, il puro Fare dell’Acri ha ragione non solo di fine, ma anche di principio, e perciò è più compiuto del primo motore aristotelico, che è fine soltanto. Nel dogmatismo idealistico dell’Acri si può riconoscere, se io non. mi inganno, la tendenza agostistiniana a esagerare l’opera di Dio nel mondo, tendenza che, com’è noto, spinse la filosofia cartesiana al panteismo. Checchè sia di ciò, l’Acri se a qualcuno rassomiglia fra i filosofi cristiani, rassomiglia piuttosto a Sant’Agostino e a Sant’Anselmo, che a San Tommaso; ma nell’Acri il Medio-èvo rimane oltre-passato. L’Acri non è scettico; pure il suo intelletto,è dubitoso. Egli non dice che vera cognizione non c’è; dice che il tutto è in tutto, e le menti il tutto non lo vedono, vedono più o meno di elementi ideali, e più o meno di elementi ideali, e più o meno caliginosamente. Non dice col Rosmini che l’essere ci sta dinanzi sin dalla nascita come l’idea, dire che ci sta dinanzi l’Ente reale, e ci sta dinanzi come intelligibile, cioè come atto, in rispetto a noi; a divenire l’idea. Egli si scosta dal Rosmini e dal Gioberti, e dice che la visione o intuizione non è questa, ma è moto; onde gli umani argomenti e concepimenti della realtà e natura dell’Eente, della natura e realtà dell’anima variano di essenza e di efficacia. Ma nonostante le differenze che intercedono tra il Rosmini, il Gioberti e l’Acri, pure essi si accordano nei punti essenziali; per cui si possono a ragione riguardare come appartenenti, ciascuno in modo proprio, ad una grande medesima scuola. Infatti essi aspirano ad una filosofia che si concilii con la religione e col dogma cristiano; essi fondano la loro speculazione sopra uno stesso principio psicologico, cioè sopra l’intuito intellettuale; procedono con uno stesso metodo, cioè, essenzialmente a prioristico, mirano ad un intenso comune, cioè a fondare un idealismo realistico, [p. 203 modifica]contrapposto al nominalismo. L’Acri è l’ultimo continuatore originale del Platonismo italiano. Egli lascia orma durevole nella filosofia; e quest’orma sarebbe più profonda, se i suoi scritti, frutto di una fervida mente disciplinata dal rigore dialettico, non fossero sgraziatamente incompiuti e frammentari, e se egli avesse seguito un indirizzo più risolutamente razionalistico e più conforme alla pura speculazione. Sebbene egli non assuma il dogma come elemento positivo nella sua speculazione tuttavia si studia di non mai sconfessare la tradizione cristiana, e profondo conoscitore della filosofia antica, medioevale, moderna, si accosta, con una critica ragionata, a quelle dottrine che meglio si conciliano con le sue credenza religiose. Buona, dice l’Acri, la filosofia, perciocchè ella è amore della sapienza, e la sapienza è Dio. Ma la filosofia qual’è concepita dalla mente degli uomini, ora è buona ora è mala, e però il suo insegnamento ora è desiderabile, e ora è abominevole, secondochè in quella è l’amore a Dio, o vero l’odio a Dio. Ogni filosofia offende e difende la religione. La filosofia, ch’è regno di Eolo, spelonca dei vinti, se non c’è un Nettuno che regoli, meglio è che stia chiusa. Se mai si riduca alla storia sua e alla esposizione dei testi di Platone e di Aristotile: piuttosto niente, che la filosofia laica, perchè ella annoia, attrista, mette inquietudini, dubbi in coloro che la odono, e fa, a coloro che la ricevono, insopportabile la vita e sconfortata la morte. Ogni scienza è cotesto: coscienza d’infinita ignoranza. Il savio sente la vanità e la noia della scienza, sente il bisogno e il desiderio di quella cotale ignoranza, per la quale, così dice Dante, si diviene cittadini del verace regno. Quando la speculazione filosofica più non lo soddisfa, l’Acri adunque cessa di essere filosofo, e non si sente più altro che cristiano. G. M. FERRARI. ordinario di pedagogia nella R. Università di Bologna.