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202 IL BUON CUORE


nochè non divenga parola o parvenza del concetto medesimo; quanto a Dio, la natura non precede il paradimma, perchè egli col medesimo atto crea e concepisce le singole cose create. Laddove la nostra scienza è superficiale, perocchè non sappiamo immaginando, o sapendo immaginiamo, la scienza di Dio è solida, cioè, fa sapendo, o più propriamente sa facendo, cioè, sa e cose facendole essere, e le fa per virtù dell’unità di sua scienza; e distintamente le sa, perciocchè le cose che fa si distinguono. Negando i paradimmi, pare non si possa salvare la libertà di Dio; e in vero, se Dio fa il mondo senza paradimmi, pare lo faccia senza elezione, a caso, o per necessità cieca. Ma così non è. Dio vuole e intende il mondo, creandolo. La necessità per la quale si può affermare che Dio voglia il mondo, non è assoluta, cioè per ragion di difetto e di scarsezza, ma sì di perfezione e di abbondanza. Malamente s’interpreta la libertà come impotenza della ragione a muovere la volontà se ad essa rappresenta cosa convenevole. Ciò vale per noi imperfetti, su i quali allora è efficace la ragione, quando essa è aiutata dalla idea di necessità; ma su Colui che è perfettissimo sì del pensare che la ragione è sempre efficacissima, sia che si presenti come necessità, sia come convenienza; perchè la perfezione della volontà è appunto nella sua nobiltà massima inverso alla regione motiva. Si nega, dunque, a Dio la libertà imperfetta,ma gli si riconosce un’altra ch’è perfetta. Dio non crea necessariamente il mondo per divenire perfetto, ma sì perchè è già perfetto; é natura è del perfetto diffondere la perfezione sua. Se l’atto con il quale Dio vuole il mondo fosse potuto non essere, sarebbe contingente, e la contingenza non si stende dietro di lui. A dire che Dio sa necessariamente e vuole non necessariamente il mondo, si dà a credere che il sapere e il volere in Dio non siano lo stesso. Ma Dio non vuole altrimenti di quel che sa. Dal Fato divino escon le cose e insieme i paradimmi e le volizioni di esse cose. E’ fato luminoso veggente, ineffabile: conciossiachè Dio,.nell’intendere necessariamente sè, intende le altre cose; nel volere necessariamente sè, vuole le altre cose; e dacchè intente e vuole sè perchè è, intende e vuole per sè le altre cose perchè partecipano dell’essere. Dal dire poi che l’atto creativo è necessario non segue che altresì necessario è il creato. Il creato è contingente, perchè non ha in sè la ragione dell’esser suo, perchè guardato in sè poteva non essere, anzi guardato in sè doveva non essere, non avendo in sè il potere di essere. Ora se il mondo contingente si guarda in rispetto a Dio, Dio è libero in rispetto ad esso; ma la libertà è la stessa necessità guardata ad extra, nella contingenza del mondo; ma guardata in sè medesima (ad intra) è quella che è, cioè necessità; non per difetto, ma per abbondanza. Adunque non per divenire perfetto, ma sì perchè in sè è perfetto. Dio necessario necessariamente crea il mondo non necessario.

I precedenti storici della sua dottrina La teoria dell’Acri intorno alle idee ci richiama alla mente i più bei nomi della storia della filosofia; ma l’Acri segue un suo proprio indirizzo e si discosta da tutte le dottrine filosofiche precedenti, e anche dalle tradizioni della Chiesa cristiana, sebbene, specie rispetto a queste ultime, adoperi il suo potente ingegno per dimostrare che le discordanze sono più apparenti che vere. • Il puro Fare, ch’è il principio dal quale l’Acri muove, non può accostarsi nè alla Idea dell’Hegel, nè all’Ente del Gioberti, nè alla Monade infinita pura e perfettissima attività del Leibniz, nè alla Sostanza dello Spinoza, nè all’Essere perfettissimo dei Cartesio, nè al Demiurgo o Architetto supremo di Platone, nè al Movente non mosso di Aristotile. La trilogia dell’Acri di fatto, fatto ch’è fare, e puro fare ricorda bene la trilogia di Aristotile di mosso, di mosso movente, e movente non mosso, che eternamente muove il mondo, attirandolo e volgendolo a sè come a sua mèta suprema; ma laddove il primo motore di Aristotile non ha nessun legame intimo con le cose mosse per esser privo di ogni operosità, il puro Fare dell’Acri ha ragione non solo di fine, ma anche di principio, e perciò è più compiuto del primo motore aristotelico, che è fine soltanto. Nel dogmatismo idealistico dell’Acri si può riconoscere, se io non. mi inganno, la tendenza agostistiniana a esagerare l’opera di Dio nel mondo, tendenza che, com’è noto, spinse la filosofia cartesiana al panteismo. Checchè sia di ciò, l’Acri se a qualcuno rassomiglia fra i filosofi cristiani, rassomiglia piuttosto a Sant’Agostino e a Sant’Anselmo, che a San Tommaso; ma nell’Acri il Medio-èvo rimane oltre-passato. L’Acri non è scettico; pure il suo intelletto,è dubitoso. Egli non dice che vera cognizione non c’è; dice che il tutto è in tutto, e le menti il tutto non lo vedono, vedono più o meno di elementi ideali, e più o meno di elementi ideali, e più o meno caliginosamente. Non dice col Rosmini che l’essere ci sta dinanzi sin dalla nascita come l’idea, dire che ci sta dinanzi l’Ente reale, e ci sta dinanzi come intelligibile, cioè come atto, in rispetto a noi; a divenire l’idea. Egli si scosta dal Rosmini e dal Gioberti, e dice che la visione o intuizione non è questa, ma è moto; onde gli umani argomenti e concepimenti della realtà e natura dell’Eente, della natura e realtà dell’anima variano di essenza e di efficacia. Ma nonostante le differenze che intercedono tra il Rosmini, il Gioberti e l’Acri, pure essi si accordano nei punti essenziali; per cui si possono a ragione riguardare come appartenenti, ciascuno in modo proprio, ad una grande medesima scuola. Infatti essi aspirano ad una filosofia che si concilii con la religione e col dogma cristiano; essi fondano la loro speculazione sopra uno stesso principio psicologico, cioè sopra l’intuito intellettuale; procedono con uno stesso metodo, cioè, essenzialmente a prioristico, mirano ad un intenso comune, cioè a fondare un idealismo realistico,