Il buon cuore - Anno XII, n. 24 - 14 giugno 1913/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 24 - 14 giugno 1913 Religione

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UN CONQUISTATORE Dl ANIME


Claudio Maria Colin



Dall’altra quarta serie dei seggi suggestivi che Georges Goyau ama raccogliere Autour du Catholicisme social — serie che è stata pubblicata in un volume recentissimo dell’editore Perrin — togliamo le pagine che prospettano, sullo sfondo di un magnifico dramma di anime, le vicende vittoriose di una delle più belle e più vaste opere di conquista del nostro tempo.

E siamo certi — pubblicando accuratamente tradotta, la parte maggiore del saggio biografico del Goyau — di offrire una primizia gradita ai lettori nostri.

Ormai la Chiesa e la Francia sono in obbligo di riconoscere in lui un conquistatore. Senza di lui la Francia non avrebbe il dominio oceanico che ha e le missioni cattoliche non conterebbero nella Società di Maria una delle forze più salde e più belle che abbia potuto offrir loro il secolo decimonono.

Nelle biografie che di lui già si sono scritte, è vano cercare tutto ciò che si desidera conoscere e le lacune più che ai biografi si dm’rono imputare direttamente a lui, al «Venerabile» Giovan Claudio Maria Colin che ha davvero deluso la curiosità indagatrice della storia. Come da vivo egli amò una vita nascosta, morto si può dire che l’ami ancora. Sullo sviluppo dei suoi disegni, sulla genesi delle sue fondazioni si raccoglie come un’ombra, resa più impenetrabile dagli ardori della sua umiltà. Unica e completa sarebbe stata la sua gioia se, dopo innalzato l’opera che Dio gli imponeva, avesse potuto cancellare il suo nome dalla memoria degli uomini. «Io non vorrei che il mio nome apparisse, diceva. Se mi ascoltassero, non una sola riga si dovrebbe scrivere di me come su quelli che hanno iniziato la società».

E non potendo meglio, soppresse molti e molti documenti, i più anzi, che avrebbero potuto servire in seguito quasi di piedistallo alla sua glorificazione postuma. Ma il suo intento, l’intento della sua opera era rivolto a far conoscere Dio e non a richiamare vani splendori su se stesso. Però la, decisione romana del 1908 con cui la Chiesa ne ha fatto un Venerabile, ha cominciato ad accentrare sulla gloria sua che egli non aveva potuto evitare del tutto, qualche riverbero della gloria di Dio.


II.


Egli si trovò bambino pei giorni del Terrore quando Iddio sembrava nascondersi, irradiato però da un fascino più intenso. E il ritorno ansioso a lui, nell’Haut-Beaujolais, come del resto in quasi tutta la Francia, induceva gli animi a esporsi a sacrifici rischiosi, a ricorrere fino alla scaltrezza. Il padre del piccolo aveva subito la prigione, reo d’aver ospitato dei preti che gli recavano la parola ammonitrice del Cristo. Ma le grandi vocazioni germinano fra le circostanze più aspre: esse si maturano invece di abbattersi sotto il vento accidioso delle difficoltà e per questo quasi c’è da pensare che Dio si lasci talvolta perseguitare e ingiuriare solo per stringere a sè con ardore più assoluto anime che la sua scelta ha già reso sacre: una di queste era l’anima di Claudio Maria Colin.

Da giovine sentiva con desiderio di tormento che solo nel deserto avrebbe voluto cercare Dio, che la vita d’eremita lo attraevi, avvincendolo, e quando partì per il piccolo seminario dove avrebbe appreso qualche nozione della civiltà umana, egli aspirava ingenuamente al giorno in cui, solo e «in un bosco» nessuna cosa umana lo dividerebbe più dal suo [p. 186 modifica]stro. Chissà se avesse letto o no le Vite dei Padri nel deserto... una innegabile affinità lega la sua anima a quelle anime antiche: la paura del mondo, il desiderio dí dileguare, la diffidenza di se stesso, la aspirazione a restare sconosciuto, formarono per tutta la sua vita i tratti caratteristici della sua natura. A due riprese e in due momenti diversi, prima di entrare in seminario di Lione e prima di ricevere suddiaconato si sentì abbattere da crisi morali. Eppure nell’ora stessa in cui impulsivamente indietreggiava (ma subito rinfrancato dai consigli autorevoli di saggi direttori) nell’intimità fervorosa del suo spirito custodiva e alimentava un’idea che il suo spirito non aveva creato, ma ricevuto. Sì. Egli sentiva che un’opera doveva essere compiuta nel suo secolo. un’opera che si chiamasse la «Società di Maria». La concepiva come a una cosa minima, intima, tutta consacrata alla Beata Vergine n con la più recisa persuasione che ci doveva essere un altro a cui Dio affiderebbe l’eseguimento di quest’opera, mentre ora la Provvidenza, seguendo i suoi oscuri disegni ne affidava il progetto alla sua tenace immaginazione. Dio gli aveva dunque dato un deposito? e a qual fine se non per farlo fruttificare un giorno col lavoro e la mente di altri? A che tempo risaliva il deposito Misterioso? Lui stesso l’ignorava e pur essendo; secondo le sue stesse parole «il desiderio di tutta la sua vita» egli non avrebbe potuto ricordare l’ora precisa, allo stesso modo che nell’essere umano si inabissa misteriosamente la percezione esatta eppure fondamentale del momento in ’cui si assume coscienza d’essere e di vivere. Un’angoscia più lunga gli costò l’indecfSione se dovesse o no farsi prete, quando già le future basi della Società di Maria avevano preso nel suo pensiero una consistenza ideale, e la. visione del futuro sarebbe stata completa se avesse potuto presentire quale parte sarebbe stata la sua. Così questo piccolo chierico che in pause momentanee di prostrazione, giungeva a giudicarsi indegno del sacerdozio, aveva sotto la luce dei suoi occhi come una singolare anticipazione della futura fondazione e nell’oscurità minacciosa della sua vocazione, nella trepidante attesa dei miracoli di Dio, non osava, non, poteva intravedere che proprio lui ne sarebbe l’operaio principale. Mentre Dio lo inviava versa qualche cosa di grande, egli si vedeva piccolo e rimaneva spossato dalla grandezza del disegno, contrastante con la fragilità dello strumento. Da ciò i dubbi, le incertezze martirizzanti, le pause interiori, tramezzo le quali doveva insinuarsi e aprirsi il varco e imporsi la parola divina, il volere supremo dell’alto. Per obbedienza ai superiori restò in seminario e nel 1815 fu ordinato diacono. A quel tempo rimonta un primo tentativo di raccogliere un gruppo di giovani ecclesiastici in una comunità, tentativo che presto fallì. Ma più imperiosa e più incalzante sopravviveva per lui un tale pensiero e quando nel 1816 andò come vicario di suo fratello nella piccola

parrocchia di Cerdon, egli portava con sè, nel suo corpo già insidiato dal male, da cui sembrava talvolta rifuggere la energia vitale, quest’imperituro pensiero di cui a parlar giusto egli viveva.

Per una lunga serie di anni riflettè, ascoltò, scrisse. Chi ascoltava e che cosa scriveva? Pagine e pagine riempite da lui fino ad ora tarda nella notte si ammucchiavano a formare un voluminoso scartafaccio. Se l’abate Colin non lo avesse gettato più tardi alle fiamme, esso ci riserverebbe preziose notizie: sappiamo però che vi si trovavano abbozzate le prime linee della futura regola dei Padri e dei Fratelli coadiutori e aggruppati disegni e pensieri per la regola delle Suore e del Terz’Ordine. Tutti materiali di primo getto, originari, non tolti da nessun libro nè ricavati da nessun’altra regola., «. Per mia guida, così ricorda egli più tardi, non avevo che i pochi accenni del Vangelo sulla vita della sacra famiglia a Nazareth e sulle prime missioni degli Apostoli». Erano queste le fonti dove Giovan Caudio Maria nella sua tacita cella di Cerdon attingeva per redigere le regole della futura società. Negli intervalli di sgomento «io mi ponevo, (per usare ancora le sue parole) col mio pensiero nel mezzo della casa.di Nazar& e subito il pensiero diveniva limpido, mi si schiariva quello che dovevo fare. Rileggevo le parole sconosciuto e’ nascosto nel mondo e la società e la sua costituzione mi si appalesavano compiutamente comprese in queste parole». E il pensiero si soffermava in quella casa di Nazareth, a cui piacque a tanti antichi pittori rjvolgere uno sguardo suggestivamente pensoso per intuire il mistero e la scena divina dell’Annunciazione. Oggetto della loro indagine insistente, nelle variazioni proprie di ciascuno, è naturalmente’ l’attitudine di Maria nell’istante che l’angelo le impone un immenso peso di gloria; alcuni ne ritraggono al vivo la sorpresa di trepido sgomento che dovè invaderla, alcuni altri il cenno posato, la spontaneità ingenua della sua sommessione. Sono quindi due i movimenti che le si possono attribuire: ma il gesto di sgomento e la genuflessione docile non si possono distinguere, non devono escludersi e contrastare perchè manifestandosi con rapidità simultanea allo sguardo dell’Angelo,, rimasero subito fusi nel’armonia di un decisivo «amen»... simili al flusso e al riflusso di una sola onda di umiltà. Dall’appassionata contemplazione di Nazareth il giovine abate Colin dovè derivare in sè il concetto dell’umiltà che, se ha la legge della sua elevazione nella rinuncia e nel sacrificio, sa imporsi anche gli slanci e divenuta audace supera qualunque cosa. Così quell’oscuro vicario assorto nel formulare una regola, non ne conosceva alcuna, e gli esperimenti anteriori di tante altre celebri fondazioni non trovavano eco nelle sue teorie. Egli scriveva con ammira [p. 187 modifica]bile ingenuità come se fosse il primo a concepire la vita religiosa, il primo a voler raggruppare in un fascio delle anime nate da una simile vita. A chi l’avesse in quel tempo rimproverato d’improvvisatore ignorante, egli avrebbe potuto dare come sola, esauriente risposta l’opinione severa della sua nullità. «La materia non l’ho cercata io, obiettava, le idee non sono mie... di mio non c’è che lo stile e la disposizione delle frasi. Il resto, cioè quasi tutto, era di Dio». Così ascoltando misteriosi suggerimenti, pregando ispirato presso l’altare di Dio, egli enunciava poi e redigeva.le idee, meccanicamente, paragonandosi a un fratello coadiutore a cui si detta senza che abbia l’obbligo di capir tutto. Ma una voce gli mormorava «Tu comprenderai più tardi». E nel lungo cammino della sua vita, nello svolgersi dei fatti, egli sperimentò in sè con una sorte di tezza accasciante che il senso vero e l’effetto sicuro di certi paragrafi scritti, assai prima, si svelavano a lui con lunghi indugi di lentezza. Aveva scritto dunque e non aveva compreso? Ma era stato proprio lui a pensare e a concepire? Non era stato forse un altro? E quest’altro (egli parlava così di Dio) vi fa vedere la cosa così semplice e perfetta che se vi sforzate a esprimervi con parole umane, vi vedete costretti a usare dei termini che falsificano o almeno esagerano il senso. Era come un tormento provare. l’insufficienza del verbo umano che nell’ansia di rendere la parola divina, il più delle volte inceppa e rischia di oscurarlo e falsarlo. (Continua)

IL BANANO

Se si dovesse fare, dirò così, l’albero genealogico delle piante fruttifere, il banano sarebbe quello che potrebbe vantare origini più antiche ed illustri. Questa bella pianta erbacea, il cui fusto è quasi per intero ricoperto dall’origine delle foglie che si accartocciano attorno, può considerarsi la più aristocratica di tutte. Le sue origini risalgono, dice la tradizione, nientemeno che al primo uomo del mondo, e ciò, naturalmente, ci fa supporre che lo avesse anzi preceduto. Ma la tradizione non si ferma a questa constatazione puramente cronologica del banano: gli attribuisce inoltre una funzione, direi quasi una responsabilità morale gravissima: si pretende infatti che il banano fosse l’albero della vita il cui frutto tentò il nostro progenitore Adamo e quello che offerse le sue foglie come rudimentale riparo alla sua nudità. E’ curioso leggere cosa dice in proposito Bernardino di Saint-Pierre nel primo volume delle fla;nionies de la nature: a I portoghesi superstiziosi che sbarcarono per i

primi nelle grandi Indie, credettero scorgere, nel taglio trasversale di questo frutto, il segno della Redenzione, e cioè una croce, che io del resto non ho mai visto. Questa pianta offre, invero, nelle sue foglie larghe e lunghe, la cintura del primo uomo e raffigura abbastanza bene, nel suo •regime irto di frutti, e sormontato da un grosso cono violaceo che racchiude le corolle dei suoi fiori, il corpo e la testa del serpente che lo tentò». E’ strana questa indecisione dell’autore di Paolo e Virginia nel considerare il simbolo primordiale del banano; poichè allo scetticismo di alcune osservazioni fa seguire una descrizione del frutto assai riverente per la tradizione. La quale si rispecchia anche nei sinonimi del banano. Non credo necessario soffermarmi sull’etimologia del vocabolo attuale di banano. Lo Stato libero del Congo ha, nella costa occidentale dell’Africa, una penisola e un porto che hanno il nome di Banana, e che’ fanno un attivo cómmercio d’esportazione di quel frutto. Se però risaliamo alle denominazioni antiche, non troviamo traccia del vocabolo «banana». I greci, chiamavano questo frutto sukos Adam ossia fieo di Adamo, in omaggio quindi alla tradizione alla quale ho alluso poc’anzi. Questa denominazione è rimasta ancora nell’uso volgare dei linguaggi italiano, spagnuolo, francese ed inglese. Un ricordo della stessa tradizione si rintraccia nella denominazione latina di Musa paradisiaca. E qui è bene soffermarci anche sul vocabolo musa che compare per la prima volta in Europa presso i romani e che rimane nella classificazione di Linneo ad indicare, oltre le varietà di banane, musa sapientium e musa paradisiaca, anche una intera tribù di piante, quella delle musacee. L’origine della parola musa non è troppo chiara. Gli arabi chiamano la banana, mosa, e la denominazione potrebbe aver attraversato il mare coi frutti carnosi di cui discorriamo. Ma un’altra tradizione attribuisce ad Antonio Musa, medico di Augusto, l’onore di aver introdotto la banana a Roma. Comunque sia la parola è rimasta nel linguaggio scientifico. I banani vivono nelle regioni tropicali dei due continenti, ove crescono specialmente nei luoghi riparati, umidi e ombrosi. Crescono anche nelle regioni meridionali d’Europa, ma non dànno frutti maturi. Il vero fico d’Adamo, musa paradisiaca, è originario dell’India ed è il più alto di, tutti, potendo raggiungere i 6 metri d’altezza. La musa sapientium è più corta e anche i frutti sono più piccoli. Del resto, per la descrizione pittorica del banano, credo opportuno cedere ancora la penna a Bernardino di Saint Pierre che Io ha descritto coi colori più vivaci se non con rigore scientifico; Il banano avrebbe potuto bastare da solo a tutte le necessità del primo uomo. Esso ’produce il più sa.;lutare degli alimenti, coi suoi frutti che hanno il diametro della bocca e che sono raggruppati come le dita della mano. Uno solo dei suoi grappolii [p. 188 modifica]tuisce un carico di un uomo. Presenta un magnifico ombrello colla sua cima estesa e poco alta, ed offre graziose cinture colle sue foglie di un bel verde, lunghe, larghe e lisce. Siccome queste foglie sono molto morbide e maneggevoli quando sono fresche, gli indiani ne fanno dei vasi di ogni sorta per mettervi dentro dell’acqua e degli alimenti. Ne ricoprono anche le loro abitazioni, ed estraggono un mazzo di fili dal fusto, dopo averlo fatto seccare. Due di queste foglie possono ricoprire un uomo dalla testa ai piedi, per davanti e per di dietro. Un giorno che passeggiavo, nell’Isola di Francia, lungo il mare, nei meandri di alcune roccie segnate con caratteri neri e rossi, vidi due negri che portavano sulle loro spalle un bambù dal quale pendeva un pacco allungato e ravvolto in due foglie di banano. Era il corpo di uno dei loro infelici compagni di schiavitù, al quale si disponevano di rendere gli ultimi onori in quei luoghi appartati. E così il banano da solo fornisce all’uomo il nutrimento, l’abitazione, il mobilio, l’abito e la sepoltura. E questo non è tutto: a La bella pianta, che non produce il suo frutto, nelle nostre serre, che ogni tre anni, dà il suo, sulla linea dell’Equatore, nello spazio di un anno, a capo del quale il suo fusto si avvizzisce; ma essa è ravvolta da una dozzina di germogli di grandezze differenti, che portano successivamente dei frutti, di modo che se ne possono sempre avere, e che ogni mese si vede apparire un nuovo germoglio. Questo vegetale, il più utile fra tutti, presenta molte varietà. Ho visto all’Isola di Francia, delle varietà nane, altre gigantesche originarie del Madagascar, i cui frutti, lunghi e ricurvi, si chiamano corna di bue. La specie più comune è untuosa, zuccherata, f arinosa e offre un sapore misto di pera del buon cristiano e di mela reinette. Essa è della consistenza del burro in inverno, in guisa che non sono necessari i denti per morderla, e che conviene tanto ai bambini quanto ai vecchi sdentati; non presenta semi apparenti, come se la natura avesse voluto toglierle tutto ciò che potrebbe essere d’ostacolo all’alimentazione dell’uomo. E’ il solo frutto che presenti questa prerogativa, insieme ad altre non meno rare; per quanto non sia rivestita che da una pelle, non è mai attaccata dagli insetti e dagli uccelli, e se si colgono i suoi grappoli un po’ precocemente, esso matura molto bene in casa e si conserva almeno un mese con tutta la sua bontà». Non è il caso d’insistere sull’esattezza, o meglio sulla unilateralità entusiastica di questa descrizione. Limitiamoci a constatarne la bellezza letteraria appena intravveduta nella traduzione; e l’evidenza descrittiva. Comunque sia il banano, conosciuto da noi come un frutto piacevole e nutriente, è per gli indigeni delle regioni in cui più cresce rigoglioso, una risorsa molteplice e provVidenziale. Quasi tutti gli usi enumerati da Bernardino dí Saint-Pierre, sono ancora oggi in onore presso le popolazioni equatori-ali. Fin dai primi anni del secolo XIX, i viaggia tori europei, reduci dai paesi fertili in banani, riferivano i numerosi modi con cui gli indigeni consumavanó questo frutto prezioso. Le stesse navi europee non lasciavano i porti delle isole di Cuba, di Puerto Rico, senza aver fatto un carico abbondante di farina preparata colla polpa disseccata di banana, utile come alimento sano e piacevole durante la traversata. Così un vecchio trattato di flora medica, edito a Parigi nel 1814 parla di un pane fabbricato colle banane a Granada nel Nicaragua. E riferisce pure che nelle Antille ed a Cayenna, nella Guiana francese, sono molto apprezzati un vino e un’acquavite confezionati col frutto della musa sapientium. Con tante virtù attribuite al banano, era assai dif. licile che la medicina antica non scoprisse delle virtù terapeutiche a questo celebre frutto ’che, vanta una varietà paradisiaca ed un’altra dei filosofi e dei saggi. Ma, disgraziatamente, con tante pompose qualità alimentari e domestiche, il banano non ha mai offerto dei peculiari e speciali poteri curativi. Fourcroy e Vauquelin, due chimici assai noti che divisero la loro vita tra il secolo XVIII e il XIX, analizzarono il succo assai abbondante che impregna il midollo dei fusti. Essi trovarono a questo liquido delle proprietà astringenti, utili nei casi di infiammazioni intestinali. Ma tali qualità terapeutiche ebbero un effimero successo, poichè altre sostanze vegetali, assai più efficaci, impedirono al banano di insediarsi con tutti gli onori nelle farmacie. Al giorno d’oggi la banana non figura più in nessun trattato di botanica medica ed in nessun formulario. Il regno terapeutico di questo frutto, sembra tramontato definitivamente; e dico sembra, poiché alla medicina si può applicare la famosa legge di Lavoísier: «Nulla si crea e nulla si distrugge», e non ci sarebbe da stupirsi se da qui a qualche. anno, la banana, o meglio ancora qualche suo estratto dal nome grazioso di•bananina o musina non venisse introdotto in terapia come un medicamento prezioso. •• •

Comunque sia però, se la banana ha esulato dal campo farmacologico, ha preso, specialmente in questi ultimi anni, una solenne rivincita nel campo dell’alimentazione ed in quello industriale e commerciale. Grossi piroscafi trasportano di continuo, dall’America in Europa, carichi enormi di banane; questo frutto che aveva ancora non sono molti anni, un certo carattere di rarità esotica in Italia, è ora comunissimo. Il suo grande successo gastronomico non dipende da una futile ragione di moda, ma bensì dall’alto valore alimentare della banana, accoppiato alla squisitezza del suo sapore. I grappoli, ricchi talvolta di cento frutti, si chiamano regimi, ’e vengono raccolti quando non sono ancora giunti a maturazione; maturano poi da soli nello spazio di qualche giorno. D’un bel color verde quando sono acerbe, le banane acquistano un po’ per volta un colorito giallastro e diventano di consistenza pastosa. [p. 189 modifica]Comunemente se ne mangia la polpa senza alcuna preparazione; talora si aggiunge un po’ di zucchero in polvere. Più raramente si fanno cuocere nella cenere calda, o, dopo averle tagliate a fette, si fanno friggere nel burro. Così confezionate le banane sono molto gradevoli, zuccherate e nutrienti. Un ostacolo al loro consumo può essere il loro stesso valore alimentare, poichè, ricche di albumina, ma specialmente di grassi, possono riuscire talvolta, se mangiate in grande quantità, di difficile digestione. R. M