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186 IL BUON CUORE


stro. Chissà se avesse letto o no le Vite dei Padri nel deserto... una innegabile affinità lega la sua anima a quelle anime antiche: la paura del mondo, il desiderio dí dileguare, la diffidenza di se stesso, la aspirazione a restare sconosciuto, formarono per tutta la sua vita i tratti caratteristici della sua natura. A due riprese e in due momenti diversi, prima di entrare in seminario di Lione e prima di ricevere suddiaconato si sentì abbattere da crisi morali. Eppure nell’ora stessa in cui impulsivamente indietreggiava (ma subito rinfrancato dai consigli autorevoli di saggi direttori) nell’intimità fervorosa del suo spirito custodiva e alimentava un’idea che il suo spirito non aveva creato, ma ricevuto. Sì. Egli sentiva che un’opera doveva essere compiuta nel suo secolo. un’opera che si chiamasse la «Società di Maria». La concepiva come a una cosa minima, intima, tutta consacrata alla Beata Vergine n con la più recisa persuasione che ci doveva essere un altro a cui Dio affiderebbe l’eseguimento di quest’opera, mentre ora la Provvidenza, seguendo i suoi oscuri disegni ne affidava il progetto alla sua tenace immaginazione. Dio gli aveva dunque dato un deposito? e a qual fine se non per farlo fruttificare un giorno col lavoro e la mente di altri? A che tempo risaliva il deposito Misterioso? Lui stesso l’ignorava e pur essendo; secondo le sue stesse parole «il desiderio di tutta la sua vita» egli non avrebbe potuto ricordare l’ora precisa, allo stesso modo che nell’essere umano si inabissa misteriosamente la percezione esatta eppure fondamentale del momento in ’cui si assume coscienza d’essere e di vivere. Un’angoscia più lunga gli costò l’indecfSione se dovesse o no farsi prete, quando già le future basi della Società di Maria avevano preso nel suo pensiero una consistenza ideale, e la. visione del futuro sarebbe stata completa se avesse potuto presentire quale parte sarebbe stata la sua. Così questo piccolo chierico che in pause momentanee di prostrazione, giungeva a giudicarsi indegno del sacerdozio, aveva sotto la luce dei suoi occhi come una singolare anticipazione della futura fondazione e nell’oscurità minacciosa della sua vocazione, nella trepidante attesa dei miracoli di Dio, non osava, non, poteva intravedere che proprio lui ne sarebbe l’operaio principale. Mentre Dio lo inviava versa qualche cosa di grande, egli si vedeva piccolo e rimaneva spossato dalla grandezza del disegno, contrastante con la fragilità dello strumento. Da ciò i dubbi, le incertezze martirizzanti, le pause interiori, tramezzo le quali doveva insinuarsi e aprirsi il varco e imporsi la parola divina, il volere supremo dell’alto. Per obbedienza ai superiori restò in seminario e nel 1815 fu ordinato diacono. A quel tempo rimonta un primo tentativo di raccogliere un gruppo di giovani ecclesiastici in una comunità, tentativo che presto fallì. Ma più imperiosa e più incalzante sopravviveva per lui un tale pensiero e quando nel 1816 andò come vicario di suo fratello nella piccola

parrocchia di Cerdon, egli portava con sè, nel suo corpo già insidiato dal male, da cui sembrava talvolta rifuggere la energia vitale, quest’imperituro pensiero di cui a parlar giusto egli viveva.

Per una lunga serie di anni riflettè, ascoltò, scrisse. Chi ascoltava e che cosa scriveva? Pagine e pagine riempite da lui fino ad ora tarda nella notte si ammucchiavano a formare un voluminoso scartafaccio. Se l’abate Colin non lo avesse gettato più tardi alle fiamme, esso ci riserverebbe preziose notizie: sappiamo però che vi si trovavano abbozzate le prime linee della futura regola dei Padri e dei Fratelli coadiutori e aggruppati disegni e pensieri per la regola delle Suore e del Terz’Ordine. Tutti materiali di primo getto, originari, non tolti da nessun libro nè ricavati da nessun’altra regola., «. Per mia guida, così ricorda egli più tardi, non avevo che i pochi accenni del Vangelo sulla vita della sacra famiglia a Nazareth e sulle prime missioni degli Apostoli». Erano queste le fonti dove Giovan Caudio Maria nella sua tacita cella di Cerdon attingeva per redigere le regole della futura società. Negli intervalli di sgomento «io mi ponevo, (per usare ancora le sue parole) col mio pensiero nel mezzo della casa.di Nazar& e subito il pensiero diveniva limpido, mi si schiariva quello che dovevo fare. Rileggevo le parole sconosciuto e’ nascosto nel mondo e la società e la sua costituzione mi si appalesavano compiutamente comprese in queste parole». E il pensiero si soffermava in quella casa di Nazareth, a cui piacque a tanti antichi pittori rjvolgere uno sguardo suggestivamente pensoso per intuire il mistero e la scena divina dell’Annunciazione. Oggetto della loro indagine insistente, nelle variazioni proprie di ciascuno, è naturalmente’ l’attitudine di Maria nell’istante che l’angelo le impone un immenso peso di gloria; alcuni ne ritraggono al vivo la sorpresa di trepido sgomento che dovè invaderla, alcuni altri il cenno posato, la spontaneità ingenua della sua sommessione. Sono quindi due i movimenti che le si possono attribuire: ma il gesto di sgomento e la genuflessione docile non si possono distinguere, non devono escludersi e contrastare perchè manifestandosi con rapidità simultanea allo sguardo dell’Angelo,, rimasero subito fusi nel’armonia di un decisivo «amen»... simili al flusso e al riflusso di una sola onda di umiltà. Dall’appassionata contemplazione di Nazareth il giovine abate Colin dovè derivare in sè il concetto dell’umiltà che, se ha la legge della sua elevazione nella rinuncia e nel sacrificio, sa imporsi anche gli slanci e divenuta audace supera qualunque cosa. Così quell’oscuro vicario assorto nel formulare una regola, non ne conosceva alcuna, e gli esperimenti anteriori di tante altre celebri fondazioni non trovavano eco nelle sue teorie. Egli scriveva con ammira