Il buon cuore - Anno XII, n. 12 - 22 marzo 1913/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
Eroici sacrifici e ricordi di sangue
dei primi pionieri d’Italia in Cirenaica
(Continuazione del num. precedente)
La tragica notte.
Nel quartiere ebreo vi è una piccola casa che ha un piccolo cortile ove si scorge tuttora un pozzo, una rozza scala di legno verniciato in turchino che ascende su un ballatoio di legno per il quale comunicano tra loro varie piccole camerette. In una di esse — quella che guarda a nord, sugli orti e verso il mare — dormiva la notte del 22 marzo del 1908 il frate laico a nome fra Felice. Questi nulla intese di quanto verso le 2 dopo la mezzanotte accadde nella stanza che era dalla parte opposta del cortile, e che ha due finestre che danno sulla via che divide in due parti il quartiere ebreo. In questa via a quell’epoca come anche oggi, abitavano la maggior parte degli italiani, una quarantina in tutti. Il padre Giustino era di una robustezza veramente eccezionale, di animo ardente, risoluto, sprezzante il pericolo.
La notte del 22 marzo egli come di consueto, non aveva assicurata la porta secondo che avrebbe suggerito la più elementare prudenza, cui tuttavia non diede mai ascolto, dicendo che i musulmani non sarebbero mai entrati in casa di un cristiano; e gli assassini entrarono e compirono indisturbati l’atroce delitto che le autorità turche hanno saputo mantenere nel più grave mistero. Gli assassini, consapevoli dell’animo coraggioso e della fibra robustissima dell’italiano si recarono in quattro a compiere il misfatto. Pare che giunti nella stanza imbavagliassero il padre che dovette lottare disperatamente contro i suoi assalitori.
La scena, di una ferocia e di una tragicità terrificante si deve essere svolta tra la stanza e il ballatoio dove il Pacini lottando trasportò gli assassini, i quali dopo avergli inflitto gli ultimi colpi, vistolo ormai, esanime lo riportarono probabilmente dentro la stanza cacciandolo sotto il letto. Due colpi tirati con quella stessa rivoltella che il Pacini aveva dentro un cassetto e che fu poi abbandonata sul pavimento diedero l’allarme.
Da chi furono tirati quei due colpi? Qualcuno del quartiere accenna a qualche circostanza che potrebbe gettar luce sul fatto, ma non è qui il caso di discuterne. I primi ad accorrere, o meglio le prime cioè la superiora Suor Teresa e Suor Clarice, trovarono davanti alla porta dell’assassinato un lago di sangue, e sul parapetto di legno del ballatoio l’impronta di due mani intrise di sangue che si erano poco prima posate su quel legno; lì presso era un secchio dove gli assassini si erano lavate le mani e dentro la stanza ove il disordine e il subbuglio testimoniavano della violenza della lotta, giaceva trafitto da ben 17 ferite il padre Giustino ancora imbavagliato con un asciugamano ormai rosso del suo sangue e con la gola tagliuzzata dai colpi di una piccola scimitarra.
Nascevano le prime luci del giorno e la trista nuova della morte di colui che era il capo morale degli italiani di Derna si spandeva nella nostra colonia. Il caimacan Mehmet Alì, le cui male arti si ricordano ancor oggi qui in Dema, non sembrò troppo sorpreso dell’assassinio del padre Pacini. Vi è qui chi assicura che qualche regolare turco diede man forte all’assassino confesso, cioè al negro Mohammed el Trabulsi. Questi avrebbe assassinato il padre Giustino perchè aveva in pegno di danaro prestato, la collana della moglie. Ma allora perchè il Trabulsi consumato l’atroce delitto non asportò non dico la collana che potesse rivelarlo quale assassino, ma il danaro e gli oggetti che il padre aveva? Il Trabulsi passò una lieta prigionia nelle prigioni di Bengasi ove aveva la massima libertà; ma un giorno egli tentò di fuggire, ed allora ei non fu fatto più uscire dalla sua cella e dopo qualche giorno si seppe che era morto di malattia ignota. Ma tutti compresero che lo si era voluto sopprimere. La trasformazione della casa di P. Agostino. Oggi nella stanza ove fu assassinato il primo valoroso italiano a Derna dormono altri soldati; e la casa che egli aveva costituito per il convento e la scuola destinata a patrocinare - la causa dell’italianità in Tripolitania, riceve altri figli d’Italia feriti sui campi di battaglia ove si son battuti da eroi. Superata la soglia del piccolo chiostro si apre a destra una porta che mette ad una scala: al principio di questa una porticina conduce in un camerino buio; ove è rozzamente tracciata questa lapide, che i soldati ricoverati adesso nella casa ospitale leggono con venerazione. Qui — Nel sonno dei giusti Riposano le venerate ossa — di -- P. Giustino Pacini d’anni XXXVI — Trucidato in odio della religione di Cristo — il 22 marzo MCMVIII — Lasciando immersi nel più profondo dolore — Gli amati fratelli d’Italia — La cara famiglia. Le giornate che seguirono l’assassinio del padre Giustino furono ben tristi per gli italiani di Derna che dovettero lottare per ogni minima circostanza contro le autorità turche. E qui è bene ricordare il nome del cav. Nicola Aronne che nonostante le ostilità degli oppressori della Libia cercò di far conoscere il nome, l’intenzione e la potenza dell’Italia alle popolazioni dell’interno ove egli si recò per studiare le ricchezze di quelle regioni, per riferirne quindi al nostro Governo che si valse dell’opera sua. Egli ebbe anche la lodevole idea, e la non meno lodevole energia di provvedere a grandi piantagioni di oliveti, e lavorò senza posa per mettere in valore i terreni fertilissimi della vasta regione. Ma ebbe
sempre fieramente avverse le autorità turche che ostacolavano accanitamente e sfacciatamente ogni iniziativa italiana. Anche le suore furono avversate dai turchi che non ardivano colpirle direttamente perchè le sapevano ben viste dagli arabi. Così questo pugno di italiani lottava in mezzo al pericolo continuo per preparare la via all’Italia. Il 27 settembre dopo 8 anni di lavoro e di attesa gli italiani di Derna seppero dal bimbasci, comandante le truppe qui di presidio che l’Italia aveva dichiarata la guerra alla Turchia ed il reggente il consolato signor Pietrucci ebbe dal bimbasci un telegramma cifrato giunto io giorni prima e l’ordine di riunire in una sola casa tutti gli italiani della città. Il telegramma trattenuto dall’autorità turca avvertiva il consolato della prossima apertura delle ostilità e l’invito a lasciare Derna. Ma lasciare Derna era ormai impossibile: l’ultimo piroscafo il Bisagno, era passato due giorni prima e piroscafi non ne sarebbero più venuti. L’episodio, che fu uno dei primi e dei più commoventi della guerra è ormai noto e fu,splendidamente raccontato ai lettori del Corriere da uno dei prigionieri stessi delle fatali giornate. Quaranta italiani, tra uomini, donne e bambini, si riunirono nella casa del cav. Aronne, giù alla marina, circondata da regolari turchi aspettando invano che qualche piroscafo apparisse all’orizzonte. Il giorno 3o sull’imbrunire due navi da guerra si avvicinarono all’orizzonte. Erano la Pisa e la Napoli che bombardarono la stazione radiotelegrafica. Intanto gruppi di arabi e di beduini erano stati armati nei giorni precedenti dal bimbasci. Essi corsero dopo il bombardamento minacciosi alla marina decisi a linciare tutti gli italiani e solamente l’autorità di alcuni capi arabi riuscì a salvare i nostri da un massacro. Intanto le autorità turche volevano ricondurré gli italiani in Derna allontanandoli dalla marina. In Italia non s’immaginava neppure che a Derna vi fossero quaranta dei nostri in balìa dei turchi. Un servo arabo si recò nascostamente per la via di terra a Tobruk con una lettera all’ammiraglio Presbitero. Questi il 9 ottobre inviò nuovamente la Napoli; ma l’imbarcazione portante bandiera bianca sotto gli occhi dei prigionieri che protestavano dal balcone della casa che stava per essere la loro tomba, e in cui doloravano da 12 giorni, venne presa a fucilate dai turchi, nascosti dietro i barconi tirati fuor d’acqua sulla riva. L’imbarcazione tornò indietro e la Napoli iniziò il bombardamento. La vita dei pochi italiani chiusi• nella piccola casa era sempre più in pericolo e le orde arabe-beduine vi si agitavano intorno furenti. Intanto però i capi arabi costringevano i turchi ad alzare bandiera bianca. L’imbarcazione tornò nuovamente ed ottenne di portar via tutti gli italiani. Come la bandiera fu salva.. Nel momento dell’imbarco i turchi volevano ad ogni costo la bandiera del consolato, ma suor Teresa, superiora delle francescane d’Egitto, che da otto anni aveva lottato in Derna, con grande carità di patria riuscì a sottrarre alla perfidia del nemico il dolce segnacolo della nostra terra, nascondendo il tricolore in una delle maniche della sua- tunica. La Napo/i al mattino seguente ricominciavi il bombardamentd lasciando una profonda impressione negli arabi che non ardirono poi toccare i marinai quando questi sbarcati solamente in diciotto e guidati da un solo ufficiale (poichè il mare cattivo impediva ogni sbarco) rimasero quasi un giorno ed una notte di fronte al nemico. Oggi queste religiose anime vibranti di amor patrio che hanno visto così vicina la morte, e che per vero miracolo poterono tornare in Italia, ove sarebbe stato permesso loro rimanere tranquille, sono tornate a Derna e abbandonata la scuola vanno da un ospedale all’altro, correndo, passando da ferito a ferito, da malato a malato, portando ovunque cure e conforto. Nelle giornate che seguirono i combattimenti, queste donne dall’apparenza delicata e timida, ma dall’animo reso forte dal sentimento vivissimo della fede e dell’amore per i fratelli, non mancarono mai d’inginocchiarsi dinanzi alle bare, dei caduti. Esse furono le uniche donne italiane cui fu consentito piangere e pregare presso i fratelli eroicamente spenti sul campo dell’onore. La sera del quattro marzo, nell’ora mestissima del tramonto quattro suore pregavano vicino alle fosse degli eroi caduti il giorno prima sui campi di SidiAbdallha. Le truppe ormai si ritiravano taciturne e di fra il silenziC, delle file si sentiva mal represso qualche singhiozzo: la musica del 22.° gettava fino al, mare grigio le sue note mestissime, di una tristezza così profonda che la sento ancor oggi pesarmi sul cuore, sol che al mio orecchio tornino quei suoni. All’orizzonte i vapori di un colore plumbeo terminavano in alto in una striscia fosca di colore paonazzo, e su una collina di sabbia stava un arabo im mobile imperturbabilmente calmo, e pareva una minaccia e un’insidia ad un tempo. Una nuvola color di sangue errava verso i monti al di sopra del Marabutto di Sidi-Abdallah. In quéll’ora di dolore e di angoscia che segue una battaglia e che solo chi l’ha passata sa pienamente intendere, le dolci sorelle degli eroi rimanevano a pregare, lì su quelle povere fosse, come avevano pregato quattro anni prima sul corpo esangue di un altro eroe d’Italia. Il mare batteva con le sue onde la scogliera come singhiozzando ed anche oggi batte vicino al piccolo cimitero cristiano dove sono sepolti i primi martiri e i recenti eroi. E’ scorso or ora un anno dai primi eventi gloriosi è dai trepidi giorni dei prigionieri di Derna e l’oggi si ricollega al ieri come le strofe nel ciclo di un poema, ove gli stessi eventi di dolore e di sangue sono abbelliti e animati dal fervido soffio della poesia immortale. G. B. S.
Flora siciliana e flora libica
Il Ministero degli Esteri ha pubblicato e va pubblicando delle interessanti monografie che serviranno come studio preparatorio alla penetrazione, diremo così, scientifica delle culture nelle nuove terre conquistate: sono studi riguardanti le condizioni atmosferiche, le condizioni di clima, la fertilità del suolo, la composizione chimica della terra in rapporto alla vegetazione, alla flora del paese. Tali monografie che mostrano con chiarezza quanta potenzialità di ricchezza sia contenuta nei terreni della Tripolitania e specialmente della Cirenaíca, con i loro dati precisi, possono dar agio a delle considerazioni non scevre di qualche importanza. L’argomento se pur non fosse, com’è, d’interesse generale per il nostro paese sarebbe sempre grato e dilettevole ai lettori per la sua fragranza floreale, per il fascino che naturalmente il mondo vegetale esercita sul mondo umano; nei paesi più sviluppati è sempre proporzionatamente sviluppato l’amore degli uomini per le piante. Dal garofano’ che fiorisce fresco e gaio sul davanzale della nostra finestra alla palma gigantesca riguardante dall’oasi le sconfinate plaghe ardenti sotto l’afa meridiana, è tutto un crescendo gigantesco di ’verdi note, una molteplice, innumerevole vita rigogliosa sotto il cielo. Le piante sono per noi non soltanto buone a darci i frutti per il nostro alimento o imbalsamare l’aria e purificarla al nostro respiro, ma sono l’esultanza dei colori, la gioia degli orizzonti, la pace dello spirito, l’elevazione del nostro a io -» morale. Ecco perchè studiare i mezzi per la coltivazione d’una regione, non significa soltanto studiare i mezzi per dare a quella terra la sua massima fertilità e ricavarne quindi il massimo frutto e la massima utilità economica, ma significa introdurre fra i popoli che l’abitano il senso dell’amore alle cose della natura, insegnare ad essi, mostrando con quali pazienti cure, con quanto studio si porta su la pianticella fino a farla divenire gigante, insegnare a conoscere il mistero della vita vegetale, la venerazione per la bellezza: significa insomma fare vera opera di civilizzazione, di educazione dello spirito. E non paia strano, o lettori, che siamo noi d’una civiltà più progredita e quindi più cittadina, a dovere insegnare il culto della natura all’arabo che è stato ed è in,più continuo contatto con esso, poichè. il senso della natura ed il culto in ispecial modo della pianta -- curioso a dirsi! — è molto, molto più sviluppato là dove la civiltà ferve in centri spaventevoli di febbrilità moderna. Ben certamente nessun paese supera l’Inghilterra nel modo come mantiene i suoi orti scientifici, i suoi campi, i suoi giardini e nessun altro paese sa far fiorire sotto clima sì infausto, sorridenti deliziose pianure di tulipani, di giacinti, di narcisi, di rose, come l’Olanda! La natura comunica maggiormente all’anima umana tanto più quanto essa è più sviluppata. Essa dice al poeta, al pittore, tanti segreti che non osa palesare ai mediocri mortali.
Orbene dai dati che si possono trarre dagli opuscoli sulla flora della Libia e in ispecial modo dalle monografie compilate da quell’illustre scienziato che è il prof. Borzi, possiamo dedurre che in quest’opera civilizzatrice noi non potremmo essere più fortunati. Nessun paese infatti si trova in rapporto alle sue colonie ad avere una regione facente parte della madre patria, che per le condizioni di suolo, di clima, d’atmosfera, si presti alle prove, alle esperienze, agli esami di culture già esistenti nelle colonie o da introdursi. La Sicilia potrebbe essere domani tutta intera, il nostro giardino coloniale. Il prof.. Borzi in tavole significative riassume e mette in confronto i dati numerici ricavati dall’esame delle condizioni metereologiche di Tripoli con
quelle di tutte le città siciliane: la differenza non apparve mai notevole. Riguardo a Palermo soltanto, per esempio per la temperatura media annua mentre a Tripoli raggiunge i 19 e 7 centigradi, a Palermo è di 17 e 3. La temperatura massima — curioso! — è superiore a Palermo che a Tripoli; mentre è di 24 e 6 a Palermo, a Tripoli è 23 centigradi e 4. Una grave diversità si riscontra soltanto nella quantità e durata delle pioggie; mentre a Tripoli la quantità in mm. è di 439, a Palermo è di 75o; mentre colà la frequenza è di 51 giorni appéna, qui è di m giorrii. Il prof. Borzi ne conclude che pei quanto riguarda la temperatura: a Tripoli rimane di poco superiRre a quella di molte località di Sicilia, avendo specialmente le minime più elevate per quanto riguarda le precipitazioni acquee è molto più arido, sia per la quantità d’acqua, che annualmente vi cade, sia per il numero di giorni di pioggia. (Continua)