Il buon cuore - Anno XII, n. 11 - 15 marzo 1913/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 11 - 15 marzo 1913 Religione

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LE MAGICHE RIEVOCAZIONI DELLA STORIA


Come gli scavi ostiensi rimettono in luce

la vita economica di Roma antica

(Continuazione del num. precedente)



Le Corporazioni.


Anche meglio di questi servizi pubblici a noi interessano la organizzazione e la vita delle corporazioni industriali ed operaie, perchè attraverso gli statuti di quelle sono evidenti la stessa organizzazione e la stessa vita delle industrie e dei traffici.

In prima linea, per ordine d’importanza, era la corporazione dei fabri tignuarii, cioè degli operai dell’arte edilizia, i quali attendevano alla costruzione ed ai restauri dei magazzini di deposito delle merci ed ai lavori del porto. La corporazione si componeva di soci onorari ed effettivi: gli onorari erano presidenti della corporazione stessa, cessati dalla carica; gli effettivi erano organizzati in dodici decurie alle quali presiedeva un decurione: tutte le decurie dipendevano da un collegio presidenziale composto di tre magistri, i quali duravano in carica un quinquennio.

Un’altra corporazione di fabri era quella dei carpentieri, addetti alla costruzione ed al raddobbo delle navi. I carpentieri erano organizzati in due sodalizi: uno a Ostia, l’altro a Porto, se quest’ultimo non era una semplice dipendenza dalla corporazione principale di Ostia. Erano divisi in soci effettivi ed onorari; avevano presidenti che duravano in carica un quinquennio, tranne il caso di alcuno nominato a vita per speciali benemerenze; avevano una protettrice del collegio, fors’anche un sacrario e nella sola sede di Ostia contavano cinquecentoquarantatrè iscritti.

Seguiva una corporazione di curatori delle navi marinare, i quali non erano precisamente barcaiuoli, e nemmeno armatori, costruttori o padroni di navi, che costituivano l’aristocrazia in questo ramo dell’industria. Le attribuzioni di questi curatori non si conoscono; ma noi non crederemmo siano state quelle di sorvegliare l’intero movimento del traffico marittimo e fluviale di Roma. Ci sembra, infatti, che lo Stato Romano abbia avuta troppa omogeneità di organi e coscienza di funzioni. per attribuire a Enti privati, quali dovevano essere le corporazioni dei curatori, un compito di sommo interesse statale come la sorveglianza del traffico marittimo; e d’altra parte ci sembra che questo traffico abbia avuto sin d’allora tale specificazione di organi, da non permettere che il condottiero di una nave fosse nel tempo stesso il mercante, come avvenne assai più tardi nel diritto marittimo con il contratto di colonna e il commercio di paccottiglia. Quei curatori delle navi non dovevano essere altro che gli agenti, i rappresentanti, i raccomandatari della marina mercantile moderna; e a tanta perfezione di svolgimento doveva essere giunta la vita marinara di Roma.

I battellieri propriamente detti, i lenuncularî, costituivano corporazioni a parte: nei secoli secondo e terzo queste corporazioni raggiunsero il numero di cinque, tanto numerosi erano gli operai e i piccoli industriali che esercitavan l’alaggio, lo scarico e il [p. 82 modifica]sporto fluviale; tanto svariati questi esercizi e intenso il traffico. I lenuncoli più sottili e leggeri servivano alle comunicazioni del Tevere da Roma a Ostia densissima di abitanti; e il Tevere doveva rigurgitarne, mentre la Ostiense era percorsa da risii, carrette, e da ogni altra sorte di veicoli, assieme ai pedoni. Altri lenuncoli servivano ai traghettare il fiume; altri, più capaci e robusti, alleggerivano le navi che ancora potessero imboccare la foce e giungere fino a Roma col resto del carico, altri scaricavano compie tamente le grosse navi mediterranee, che non avrebbero pCtuto affrontare i banchi di sabbia alla f.»e. Il Marqíiardt, per spiegare la denominazione di «lununcularii auxiliarii» usata per una delle corporazioni, si giova di un passo di Strabone, nel quale è detto che le grosse navi transmarine scaricavano sugli scafi ausiliari senza nemmeno tentare un approdo alla foce, e gli scafi ausiliari trasportavano ai magazzini di deposito o direttamente a Roma: meno pratici di quei navigatori, e trascurandone gli esempi prudenti, i tecnici ufficiali dell’Italia moderna hanno fatto spendere, invece, somme ingenti all’Erario, in tentativi inutili di ripristinare la navigazione sul Tevere a valle. Una pittura ostiense, conservata nella Biblioteca Vaticana, ci dà un’idea del carico di una piccola nave fluviale. La nave si chiama Iside; il proprietario Gemino, il pilota Farnaces. Oltre questi, sono in oarvetta altre figure: uno scaricatore, seduto accanto al moggio vuotato; un altro scaricatore, che versa dai sacchi la res, e probabilmente il grano; un sorvegliante alle operazioni di misura e di carico; il capitano. La nave è congiunta a terra da una passerella, sulla quale si avviano altri due caricatori, curvi sotto i sacchi. I battellieri del Tevere formavano una corporazione a parte; un’altra era costituita dai codicarii, addetti agli zatteroni che risalivano il fiume tratti con le corde dalle alzaie; un’altra era costituita dagrinfemanti, separatisi dai codicarii, ma esercenti la stessa industria salvo alcune differenze quanto alla specie ed alla provenienza della merce. Pare, infatti, al Preller ed al Marquardt che questi codicarii internates avessero il ’diritto di trasportare le mercanzie provenienti dal mare inferiore, e pare invece al Pigonneau che spettasse loro recarsi ai porti di quel mare medesimo: comunque l’interoertezza e gli elementi che si hanno per l’una e per l’altra tesi ci fanno pensare quanti complessi problemi del lavoro e di politica operaia, si siano svolti nel traffico marittimo dell’antica Roma: sostanzialmente non diversi,

p. es., da quelli che oggi ci affaticano per il modernissimo porto di Genova. Tanto più complessi dovevano essere questi problemi, quanto più numerose, per le esigenze del traffico, le specificazioni della mano d’opera e le subordinazioni di essa: Al di sopra dei caricatori erano i misuratori del frumento, dell’olio, del vino, e più importanti fra tutti erano i misuratori del frumento, riuniti in un collegio unico, che aveva diverse sezioni. Erano federati anche i lavoratori d’importanza minore; i susceptore, che probabilmente erano consegnatari o depositari del grano; i facchini addetti al trasporto dei sacchi; quelli incaricati del trasporto dei marmi; i palombari addetti a ripescare mercanzie cadute in mare e, a quanto pare, alla evacuazione del porto dai depositi di sabbia: funzione come si vede, importantissima; i zavorratori; i calafati; i lavandai. Gl’industriali del sale e del pane — Ostia aveva saline utilizzate anche per buona parte del medioevo — gli ebanisti; i conciatori di pelli erano organizzati anch’essi in corporazioni. Di queste e di tutte le altre disgraziatamente ci rimangono frammenti troppo scarsi per poterne rico.struire la vita e le leggi. Pure, questa indagine avrebbe valore non solo di bellezza teoretica, ma d’importanza pratica perchè questi stessi problemi della politica operaia, che oggi preoccupano i cultori del diritto pubblico e di cui l’Italia moderna crede aver tratto qualche insegnamento dalle legislazioni straniere, furono indubbiamente risoluti dal senno giuridico sovrano dell’antica Roma. Il riconoscimento giuridico delle corporazioni operaie era, senza dubbio, un fatto compiuto nella Roma imperiale; fu, anzi, secondo alcuni, la via aperta alle infiltrazioni cristiane, che si giovarono delle società funeratizie per estendere ed organizzare i catecumeni; ma quali erano le sanzioni, che lo Stato si riservava contro le corporazioni economiche, le quali w,sumevano servizi di interesse pubblico nei rifornimenti della città? Questioni del più vivo interesse che stimiamo nuovissime e proprie della civiltà nostra, risorgono invece dalle pietre con lo stesso c; irattere enigmatico, che mantengono oggi: potranno gli scavi addurre nuova luce ai nostri dubbi da quella civiltà sorpassata nel tempo, ma non superabile nelle legi essenziali del suo ’movimento? • •

Le corporazioni operaie di Ostia avevano a loro «Camera del lavoro». Dietro il Teatro, si estendeva un portico quadrato: ciascuno degl’intercolumni fu [p. 83 modifica]ridotto a una stanza mediante l’elevamento di un muro perpendicolare a quello di fondo e ciascuna stanza fu sede di una corporazione. Queste si ritrovarono raccolte nello stesso edificio, in tante stanze strette e lunghe, circondate da sedili alle pareti; ma potevano disporre di una piazza prospiciente di circa seimila metri quadrati, adorna di statue dedicate a quelli che ben meritarono dalle corporazioni operaie. Le insegne, impresse sulle soglia di ciascuna stanza, permettono stabilire con certezza quali siano state le sedi di alcune corporazioni; e possiamo facilmente figurarci il movimento di operai che doveva essere fra edificio e piazza. Un edificio industriale è venuto in luce, e si suppone sia stato una concia di. pelli, a giudicare dalle vasche; una fila di botteghe; i magazzini dell’olio; le macine: edifici dai quali appare evidente la vita commerciale di Ostia antica. Anche le banchine e gli scali sul fiume si possono agevolmente ricostruire là dove la corrente non li ha risparmiati. Il Paschetto descrive partitamente questi edifici del lavoro, e gli altri, più noti, che costituiscono il gruppo principale.

a Derna quella di gettare il buon seme della carità, della fede, della civiltà, dell’amore, nel nome e nell’idioma d’Italia. La patria nostra era a Derna affatto sconosciuta dagli indigeni, che ne ignoravano — il che è del resto più che naturale — persino l’esistenza. Quindi la curiosità, e più ancora la consapevolezza che si formò in breve in quanti avevano accostato le suore che queste facevano del bene, attirò una folla sempre maggiore intorno al conventuccio di stile arabo. Le buone religiose distribuivano infatti medicinali, cercavano esse stesse i malati, sapevano, come per virtù di prodigio, guadagnarsi il rispetto e l’amore. In breve fu aperto addirittura un ambulatorio, ove solo nell’anno igog, furono curati oltre sedici mila indigeni. Nè deve sorprendere l’altezza della cifra, considerando che i malati venivano assai di lontano, dalle plaghe interne della Libia a - ricecere medicine e conforto dalle suore italiane. Venivano a gruppi i beduini che conducevano fiduciosi i propri bimbi e le proprie donne malate. La prima scuola italiana.

Eroici sacrifici e ricordi di sangue dei primi pionieri d’Italia in Cirenaica

Molti a Derna lo rammentano ancora — e par quasi ne perduri lo stupore — l’inaspettato evento del 27 settembre 19o3, cui i fatti odierni sembrano dare una importanza, una significazione quasi fatidica. Cadeva il sole dietro i monti di Sidi Abdallah, e il piroscafo Paraguai toccava il porto, sbarcando sulla banchina sei personaggi, che apparvero a quanti erano accorsi al richiamo rauco della nave, così singolari, come venissero da un mondo ignoto. Erano cinque suore della Missione Francescana d’Egitto. Gl’indigeni attoniti, stentando quasi a riconoscere sotto l’abito monacale, il sesso delle religiose (chi mai poteva credere che delle fragili donne osassero sospingersi così sole in una città sconosciuta, forse inospitale?) fecero doppia ala al loro passaggio. Ed esse percorsero timide e fiere ad un tempo le strette viuzze di Derna, sassoso, e raggiunta una casa araba presa in affitto, con molta prudenza, vi si chiusero dentro. Per qualche tempo — così in seguito raccontarono esse stesse — col silenzio e con le preghiere si prepararono alla grande opera per cui erano state inviate

Mentre l’ambulatorio prosperava fu fondata la scuola, ove per molti anni s’insegnò alle bimbe ebree e musulmane di Derna la nostra lingua e la nostra storia. E sì buoni frutti ebbe quell’insegnamento che anche oggi nelle vie di Derna s’incontrano sovente bimbi che leggono ai vecchi arabi i giornali narranti della guerra e si esprimono così correntemente in italiano che son capaci di narrarvi con molto fervore, sol che lo chiediate, qualche fatto saliente della storia della nostra patria. I fanciulli ebrei hanno poi abbandonato addirittura l’arabo e l’ebraico per scrivere e leggere in italiano. Così le pie donne compivano da sole, in mezzo a questo fanatico e sospettoso mondo musulmano, l’opera di penetrazione pacifica che faceva parte della loro missione. Per apprezzare il valore dell’opera loro generosa e patriottica, basta rammentare che nel 1910 esse ebbero più di un centinaio di alunne (taluna delle quali è già madre) che oggi sono nell’ambiente indigeno ardenti sostenitrici e sinceramente simpatizzanti della causa italiana. Peccato però che qui in Africa l’autorità della donna non vada oltre la soglia della casa e la sua autorità non si estenda che sovra i figliuoli. Ma non bisogna dimenticare che son quelli che formeranno la gioventù di domani, cresciuta e sorrisa nel nome e sotto gli auspici dell’Italia nostra. [p. 84 modifica]Ben presto, la scuola e l’ambulatorio che erano potentissimi mezzi di propaganda italiana cominciarono ad essere guardati di malocchio dalle autorità turche, specie dopo il giorno nel quale le suore col pretesto di solennizzare la premiazione degli alunni e delle alunne inalberarono la bandiera ’tricolore sulla lor scuola con grande meraviglia degli arabi tra i quali cominciò a serpeggiare qualche timoroso sospetto. Alcuni corsero al mattino seguente allo ambulatorio con il pretesto di una medicina e domandarono alle suore chi sarebbe venuto ad occupare la Cirenaica. A Tunisi — insinuavano gl’interroganti — ci sono i francesi; al Cairo ci sono gli inglesi e qui a Derna chi verrà?». Nessuno verrà mai a Derna!» — si affrettarono a rispondere le suore che intuivano sotto quelle domande, più che un desiderio di rinnovamento l’opera indagatrice delle autorità turche sempre in guardia contro la nostra colonia. La loro ostilità verso l’opera nostra non ebbe poi più nessun ritegno dal giorno in cui padre Giustino Pacini volle costruire una chiesa che fosse annessa alla scuola e al convento. Egli fu sostenuto energicamente dal vice-console Piacentini; ma finì trafitto dai sicari dell’autorità politica turca. Pure scomparso il Padre Giustino, l’opera sua rimase e l’ammira e la vede chiunque mova per le vie di derna e discorre con i numerosi bambini che di quel primo valente campione d’Italia hanno ancora un vivo ricordo nell’animo. La prima volta che il Pacini sbarcò a Derna i fanciulli gli correvano dietro gridando: «, Dagli al cristiano!» e lanciandogli contro pietre e vituperi... Dopo pochi giorni quei bambini erano già i migliori amici del pio monaco; ed oggi sono essi che vi conducono con divoto amore a vedere i ricordi di lui. (Continua).

PROBLEMI D’ORGANIZZAZIONE

Pensiamo ai Giovani! Porchè — come intermezzo nelle quotidiane polemiche e trattazioni politiche — non dovremmo qualche volta scegliere anche dei temi relativi alla nostra organizzazione? Certo non è facile discorrere di questa materia senza incorrere nel pericolo o di inesatte interpretazioni o di maligne censure: ma io mai sono abituato ormai a scrivere secondo che mi pare utile

e legittimo e per uso dei lettori di buona volontà e di buona fede; e quindi poco mi preoccupo di quel che possa essere il commento da parte di chi non fosse disposto a riconoscere nei pubblicisti nostri il diritto di avere delle oneste opinioni e di manifestarle agli amici che ritenessero di non far cosa inutile ascoltandole e discutendole alla stregua dei propri criteri. Così esporrò oggi alcuni pensieri miei intorno ad un grande bisogno che ho sempre veduto e che tutt’ora vedo nel nostro campo, il bisogno di raccogliere e di organizzare la gioventù. Ognuno che abbia senno ed esperienza sa e capisce quanto importi intraprendere l’educazione dei cattolici alla vita pubblica nell’età felice in cui il sentimento è nel rigóglio del suo sviluppo, la fantasia arde, la ragione si agita ansiosa di verità, nell’età in cui gli insegnamenti si imprimono più agevolmente negli animi, e le impressioni più si approfondiscono fino a segnare traccie indelebili da cui prende nonna spesso il pensiero dell’uomo maturo. Nella propaganda fra il popolo noi incontriamo tante difficoltà, non perchè il popolo sia deliberatamente avverso alle verità che gli predichiamo, ma perchè le generazioni alle quali ci dirigiamo non hanno avuto nella gioventù quell’indirizzo e quella preparazione che soli avrebbero potuto renderli atti al compito grave oggi loro richiesto in nome dei supremi interessi religiosi e sociali: troppi son quelli che hanno raggiunto la pienezza degli anni senza mai essersi sentiti parlare di doveri pubblici, o avendone sentito parlare con ispirazione ben diversa dalla nostra; e c’è già da benedire il Signore che non manchino tra di loro qúelli in cui a furia di battere si può far sprizzare le scintille di una coscienza cristianamente civile attraverso lo strato e duro e folto accumulato intorno alle loro intelligenze dall’inerzia e dall’indifferentismo. Ma sui giovani noi possiamo lavorare come su cera molle e su creta umida: i giovani noi possiamo plasmarli secondo un disegno studiato; e se avremo saputo ben modellare questa materia duttile, potremo poi gettare in bronzo o scolpire in marmo. Né questa cura dei giovani ci deve essere inspirata soltanto dalla necessità in Cui chi esercita, si trova di colmare i vuoti che si verificano nelle sue file: certo sarebbe ben triste che nessuno ci fosse a prendere i nostri posti quando noi dovremo ritrarci dalla vita militante; anzi in questo caso non varrebbe forse la pena di continuare la battaglia, perchè ci mancherebbe uno degli stimoli più forti alla resistenza, quello che deriva dal senso della collettività e della continuità; ma, a parte questa considerazione come i giovani meritino di essere raccolti sotto le nostre bandiere per essere preservati dalla corruzione della mente e del cuore che li minaccia quotidianamente nell’officina, nella scuola e talvolta perfino nella famiglia. Vero è che chi accusa di stornare colla organizzazione il giovane dalle naturali occupazione della sua [p. 85 modifica]età per trasportarlo in un ambiente che gli sconviene che lo Sciupa; simile accusa non può venire se non da persone prive di ogni esperienza della vita moderna, mentre noi che all’aver conosciuto 1.’azione cattolica nei nostri anni migliori, dobbiamo il beneficio inestimabile d’esserci conservati cristiani, e di sapere non arrossire dell’evangelo, abbiamo il diritto di ad ditare ai censori la schiera innumerevole dei coetanei nostri o miseramente smarriti nell’errore e nel vizio, vergognosamente vegetanti nell’assenza di ogni o• perosità e di ogni genialità, tronchi intristiti al sole alla pioggia dai rami secchi, dalle foglie ingiallite, dai frutti insipidi e flosci. Ma perchè alla necessità di organizzare la gioventù si provveda in modo efficace, occorre non solo scegliere forme di associazioni opportunamente adatte ai particolari bisogni dell’età — e in questo,campc non intendo entrare — ma occorre anche rendersi conto dei caratteri propri dell’azione dei gióvani. Non è che io invochi per loro dei privilegi; no, invoco del rispetto. Segnate al giovane i confini assoluti della verità della onestà, ma dentro questi confini lasciatelo correre, lasciatelo svolgersi liberamente, non pretendete ch’egli cammini col passo misurato e grave dell’uomo che ha sulle spalle l’esperienza e che egli ascolti i consigli della prudenza più di quelli dell’entusiasmo: non gettate acqua sulle fiamme generose che lo riscaldino, non vietate al suo sguardo di fissarsi ansioso nell’avvenire; no, per carità! passa così presto la gioventù, muore così presto l’entusiasmo, così presto si spengono le fiamme, e così presto si stanca l’occhio, che proprio sarebbe crudeltà anticipare questi trionfi del tempo; si vuol dire che nulla c’è di più antipatico di un vecchio giovane: è vero; ma il giovane vecchio oltrechè antipatico è pericoloso, perchè non c’è da sperar frutti per l’autunno da un albero, il quale nella primavera non abbia lussureggiato di fronde e di fiori. Io credo che attraverso a queste immagini sia chiaro il mio pensiero; e credo anche che le applicazioni pratiche ciascuno le possa fare da sè; se le facessi io, guasterei l’argomento, perchè è al criterio di coloro ai quali incombe la responsabilità di dirigere le associazioni cattoliche giovanili che deve rimetersi caso per caso il giudizio: senza dubbio ci saranno anche le circostanze che consiglino il freno: nè io vorrei che mi si credesse fautore di eccessive larghezze: penso però che nelle nostre associazioni giovanili il freno migliore, anzi dirò la regola infallibile, per garantire al giovane nel più ampio sviluppo delle sue libere energie la rettitudine sia la religiosità: perchè l’esercizio scrupoloso ed assiduo delle pratiche religiose mantiene la signoria dello spirito sulla materia, preserva la purezza del costume; ed allora gli affetti più prepotenti e le concezioni più ardite, non saranno mai motivi di temere: saranno al contrario motivo di sperare e di rallegrarsi. Fatele dunque queste associazioni, raccoglieteli questi giovani: aprite loro la palestra sicura in cui

si irrobustiscono per divenir utili collaboratori della causa buona: l’Italia ha bisogno di una gioventù cristiana; ne ha bisogno anche per la difesa delle sue frontiere: ebbene, a noi il prepararli, a noi il fare delle nostre associazioni dei centri di studio e di lavoro, in cui i giovani sotto la dolce e vigile custodia della fede, crescano alla virtù, si addestrino alla vita politica e sociale, si facciano degni insomma di raccogliere e di salvare i destini della patria, degni di porsi alla testa del popolo per guidarlo nelle vie della civiltà, verso le conquiste di una migliore giustizia, nella libertà e nell’ordine che sono promessi ai seguaci fedeli della legge cristiana.