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IL BUON CUORE 83


ridotto a una stanza mediante l’elevamento di un muro perpendicolare a quello di fondo e ciascuna stanza fu sede di una corporazione. Queste si ritrovarono raccolte nello stesso edificio, in tante stanze strette e lunghe, circondate da sedili alle pareti; ma potevano disporre di una piazza prospiciente di circa seimila metri quadrati, adorna di statue dedicate a quelli che ben meritarono dalle corporazioni operaie. Le insegne, impresse sulle soglia di ciascuna stanza, permettono stabilire con certezza quali siano state le sedi di alcune corporazioni; e possiamo facilmente figurarci il movimento di operai che doveva essere fra edificio e piazza. Un edificio industriale è venuto in luce, e si suppone sia stato una concia di. pelli, a giudicare dalle vasche; una fila di botteghe; i magazzini dell’olio; le macine: edifici dai quali appare evidente la vita commerciale di Ostia antica. Anche le banchine e gli scali sul fiume si possono agevolmente ricostruire là dove la corrente non li ha risparmiati. Il Paschetto descrive partitamente questi edifici del lavoro, e gli altri, più noti, che costituiscono il gruppo principale.

a Derna quella di gettare il buon seme della carità, della fede, della civiltà, dell’amore, nel nome e nell’idioma d’Italia. La patria nostra era a Derna affatto sconosciuta dagli indigeni, che ne ignoravano — il che è del resto più che naturale — persino l’esistenza. Quindi la curiosità, e più ancora la consapevolezza che si formò in breve in quanti avevano accostato le suore che queste facevano del bene, attirò una folla sempre maggiore intorno al conventuccio di stile arabo. Le buone religiose distribuivano infatti medicinali, cercavano esse stesse i malati, sapevano, come per virtù di prodigio, guadagnarsi il rispetto e l’amore. In breve fu aperto addirittura un ambulatorio, ove solo nell’anno igog, furono curati oltre sedici mila indigeni. Nè deve sorprendere l’altezza della cifra, considerando che i malati venivano assai di lontano, dalle plaghe interne della Libia a - ricecere medicine e conforto dalle suore italiane. Venivano a gruppi i beduini che conducevano fiduciosi i propri bimbi e le proprie donne malate. La prima scuola italiana.

Eroici sacrifici e ricordi di sangue dei primi pionieri d’Italia in Cirenaica

Molti a Derna lo rammentano ancora — e par quasi ne perduri lo stupore — l’inaspettato evento del 27 settembre 19o3, cui i fatti odierni sembrano dare una importanza, una significazione quasi fatidica. Cadeva il sole dietro i monti di Sidi Abdallah, e il piroscafo Paraguai toccava il porto, sbarcando sulla banchina sei personaggi, che apparvero a quanti erano accorsi al richiamo rauco della nave, così singolari, come venissero da un mondo ignoto. Erano cinque suore della Missione Francescana d’Egitto. Gl’indigeni attoniti, stentando quasi a riconoscere sotto l’abito monacale, il sesso delle religiose (chi mai poteva credere che delle fragili donne osassero sospingersi così sole in una città sconosciuta, forse inospitale?) fecero doppia ala al loro passaggio. Ed esse percorsero timide e fiere ad un tempo le strette viuzze di Derna, sassoso, e raggiunta una casa araba presa in affitto, con molta prudenza, vi si chiusero dentro. Per qualche tempo — così in seguito raccontarono esse stesse — col silenzio e con le preghiere si prepararono alla grande opera per cui erano state inviate

Mentre l’ambulatorio prosperava fu fondata la scuola, ove per molti anni s’insegnò alle bimbe ebree e musulmane di Derna la nostra lingua e la nostra storia. E sì buoni frutti ebbe quell’insegnamento che anche oggi nelle vie di Derna s’incontrano sovente bimbi che leggono ai vecchi arabi i giornali narranti della guerra e si esprimono così correntemente in italiano che son capaci di narrarvi con molto fervore, sol che lo chiediate, qualche fatto saliente della storia della nostra patria. I fanciulli ebrei hanno poi abbandonato addirittura l’arabo e l’ebraico per scrivere e leggere in italiano. Così le pie donne compivano da sole, in mezzo a questo fanatico e sospettoso mondo musulmano, l’opera di penetrazione pacifica che faceva parte della loro missione. Per apprezzare il valore dell’opera loro generosa e patriottica, basta rammentare che nel 1910 esse ebbero più di un centinaio di alunne (taluna delle quali è già madre) che oggi sono nell’ambiente indigeno ardenti sostenitrici e sinceramente simpatizzanti della causa italiana. Peccato però che qui in Africa l’autorità della donna non vada oltre la soglia della casa e la sua autorità non si estenda che sovra i figliuoli. Ma non bisogna dimenticare che son quelli che formeranno la gioventù di domani, cresciuta e sorrisa nel nome e sotto gli auspici dell’Italia nostra.