Il buon cuore - Anno XI, n. 30 - 27 luglio 1912/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
All’“ITALICA GENS„ dalle Americhe
Nel centro della città e proprio vicino alla gran piazza del Niagara, ove si innalza la mole bianca e maestosa del monumento alla memoria del Presidente Mc Kinley, sorge la bella chiesa di S. Antonio da Padova, fondata diretta dalla benemerita Congregazione di S. Carlo Borromeo, istituita dal compianto Mons. Scalabrini per il bene spirituale e materiale degli emigrati italiani. Il fare la storia di questa chiesa credo sia cosa superflua fuori dai limiti consentiti per una relazione in questo periodico; solo accenneremo ad alcune delle principali vicende della chiesa le quali, così in succinto, bastano a dare una chiara idea dell’opera tenace e costante dei figli di S. Carlo per il bene della Colonia di Buffalo. Questa missione ebbe inizio nel 1888, quando il P. Scibelli, ora morto, iniziò l’opera sua di missionario nella cappella annessa alla Cattedrale di S. Giuseppe. Colà gli italiani accorrevano da tutte le parti di Buffalo per i loro bisogni spirituali. Le cose rimasero così per quasi tre anni, e nel 1891, cresciuti i bisogni della popolazione, si fondò in Court st. e Morgan la presente chiesa.
Dopo qualche anno, ritiratosi il P. Scibelli, gli successero nella direzione i RR. PP. Ludovico Martinelli e Bernardo Casassa.
Affranto dalle fatiche del suo apostolato religioso e sociale, il P. Casassa moriva nel 1909 al suo paese natio in Val d’Aosta, e veniva scelto come successore nell’importante missione il P. Angelo Strazzoni. Egli attende alla sua opera con grande amore; ed è ora suo intendimento di fabbricare una vasta scuola italiana, ove i nostri giovani siano educati e rinsaldati nell’amore della Patria lontana. Il disegno è splendido; il fabbricato misura 75 piedi per 76, è a tre piani, e nel primo di questi v’è un ampio Auditorium per le recite, conferenze, conferimento di diplomi, ecc. Mentre scrivo, le fondamenta sono già incominciate, ed il prossimo settembre segnerà una festa memorabile per la colonia, a allorchè tale scuola sarà inaugurata. E come si addice alla prima parrocchia italiana di Buffalo, questa sarà la più bella scuola italiana.
Non contento di ciò il Rev. P. Strazzoni ha cercato di dare maggiore sviluppo alla Società di S. Vincenzo de’ Paoli per l’assistenza gratuita dei poveri e degli infermi; invero lo stato fiorente della società ed il bene che ne deriva stanno a dimostrare l’efficacia e lo zelo del giovane sacerdote. A questi lodevoli sforzi si aggiunge, con nostro grande compiacimento, l’istituzione del Segretariato dell’Italica Gens, annesso alla parrocchia. Questo da poco tempo esplica la sua azione ed ha già dato risultati assai lusinghieri; basti accennare che mercè l’opera del P. Angelo fu composto, mesi or sono, un grande sciopero di lavoratori; furono avviate al lavoro molte persone; ricoverati decine di orfani. Egli si interessa inoltre delle condizioni dei lavoratori, tanto nella città come nelle campagne intorno a Buffalo, come pure dei malati negli ospedali e nelle famiglie. Insomma nulla tralascia perchè la nostra colonia sia assistita degnamente. Noi ci congratuliamo vivamente con lui, augurandogli sempre nuovi successi.
Il carteggio di Alessandro Manzoni
A cura di Giovanni Sforza e di Giuseppe Gallavresi uscirà a giorni, in una magnifica stampa della Casa Hoepli, la prima parte del Carteggio di Alessandro Manzoni, dal 1803 al 1821, vale a dire da quando il Manzoni aveva diciotto anni a quando n’ebbe compiuti trentasei. «La presente edizione, avvertono i due raccoglitori, è frutto di una intesa tra la famiglia del grande Lombardo, l’editore Hoepli ed il più provetto di noi due (sarebbe lo Sforza, direttore dell’Archivio di Stato di Torino). Questi ha liberamente conferito nella nuova e più compiuta stampa la materia che ebbe dagli eredi del Poeta, aumentata durante anni ed anni di ricerche e ricevuta quindi — per curare la presente edizione — dal più giovane collaboratore con reverente gratitudine». A tale concordia di propositi, fra gli usuali ricercatori di archivio non troppo comune, corrispose il più largo favore degli studiosi italiani e stranieri, che gareggiarono nel comunicare le carte manzoniane, che dovevano integrare l’epistolario edito sin qui. Citiamo con riconoscenza: l’Istituto di Francia, che, in via d’eccezione, volle questa volta dipartirsi da quelle norme che limitano la comunicazione dei depositi recenti; i nipoti della erede del Fauriel; le discendenti della marchesa di Condorcet; l’ing. Massucco, pronipote di Eustacchio Degola, primo padre spirituale di Alessandro, e, via via, enti pubblici e persone e famiglie private. Esce adunque ora una edizione interamente (le eccezioni sono pochissime) collazionata sugli autografi o su copie degne di fede; disciplinando la riproduzione a più rigidi criteri di uniformità coll’autografo, e rispettando anche talune singolarità nella grafia e nella punteggiatura più frequenti nelle lettere più antiche. Salvo quando si trattasse di semplici sviste o di trascorsi di penna, le forme più anormali riscontrate nelle lettere francesi furono riprodotte, riservandosi gli illustri e benemeriti raccoglitori il compito di sobrie annotazioni esplicative e interpretative riguardanti i luoghi e le persone e lasciando in disparte i commenti morali ed estetici, i quali in questo caso non hanno da essere fatica degli editori. Alessandro Manzoni ha da presentarsi al lettore senza commenti, lui, i suoi giudizi, le sue particolarità, i suoi segreti.
I maestri e la famiglia.
La prima lettera che troviamo qui è indirizzata a quel gran cavaliere della poesia italiana che fu Vincenzo Monti, ed è di accompagnamento a un «idilio» del maestro intitolato Adda. «Voi mi avete più volte, scrive il Manzoni da Lecco il 15 settembre 1803, ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta. Per farvi vedere ch’io non sono nè l’uno nè l’altro, vi mando questi versi. Ma il principal fine di essi si è il ricordarvi l’alta mia estimazione per voi, la vostra promessa, e il desiderio con cui vi sto attendendo. Credo inutile avvertirvi che sono opera di un giorno; essi risentono pur troppo della fretta con cui son fatti. Nulla meno ardisco pregarvi di dirmene il parer vostro, e di notarne i maggiori vizi». Desiderio del giovane al quale Vincenzo Monti volle accondiscendere, con una lettera di risposta da Milano respiranti la bonomia del grande uomo, travagliato dalla cattiva salute, dai quotidiani decotti che si deve sorbire, noiato dalle cautele che deve usare per tenersi su e non peggiorare, e occupato dalla stampa iniziata del suo Persio. Ma, insomma, gli dice che i versi son belli e respirano non sa che di vergiliano e campagnuolo. «Sempre più mi confermo, conclude, che in breve, seguitando di questo passo, tu sarai grande in questa carriera e, se al bello e vigoroso colorito che già possiedi, mischierai un po’ più di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile acquisterà tutti i caratteri originali». Questa al Monti e un’altra al corcirese Muxtoditi, amico suo di giovinezza e fin da allora noto agli intimi come giovine meraviglioso, sono le sole lettere che abbiamo del Manzoni nel 1803.
Anche gli anni che seguono sono molto scarsi, sia perchè il grosso dell’epistolario andò perduto, sia perchè il Manzoni fin da ragazzo fu scrittore di lettere molto parco; gentile e tenace nelle amicizie, ma pigrissimo nello scrivere, della bella e onesta pigrizia dei geni elaborati o meditativi. Nel 1805 ritroviamo il nostro a Parigi, insieme con la madre, fra le cui braccia scrive al Monti avere ritrovata la felicità: «Io non vivo che per la mia Giulia, e per adorare e imitare con lei quell’uomo che solevi dirmi essere la virtù stessa (Carlo Imbonati). I tuoi modi cortesi, la tua bontà tanto rara in quei pochissimi, cui il sentimento naturale, e la pubblica opinione fa superiori agli altri, non usciranno mai dal mio cuore». — E’ noto a questo riguardo che donna Giulia figlia del celebre marchese Cesare Beccaria, aveva sposato nel 1782 Pietro Manzoni, e, avutone il figlio Alessandro nel marzo 1785, s’era da lui legalmente separata nel 1797. Carlo Imbonati, ispiratore del Parini nell’ode Torna a fiorir la rosa, aveva poi stretta amicizia con donna Giulia, fino a istituirla erede universale delle proprie sostanze. Fatto che ebbe in compagnia sua un viaggio in Inghilterra, prese stanza con lei a Parigi, dove appunto morì il 15 marzo 1805 in età di 52 anni, profondamente pianto da donna Giulia, la quale alla su citata lettera di Alessandro aggiunse un poscritto: «Ed io pure, caro Monti, voglio aggiungere due righe a quelle del mio Alessandro. Oh voi, che lo amate, voi, che veramente lo conoscete, giacchè proporgli per modello l’adorato mio Carlo, voi misurate l’amore immenso che gli porto, da quello immenso amore, e da quel dolore sacro, insanabile che sento e pruovo per lui. Oh! voi non mi direte già di distrarmi, nè di consolarmi, voi non potete immaginare che si ardisca tentare di mettere una lacuna nella eternità, già incominciata per me, perchè fissata sopra di lui. Parlatemi dunque, o Monti, perchè io con voi possa parlare. Che gli altri pronuncino il vostro nome con ammirazione e con sentimento di nazionale orgoglio, per me esso non esce dalle mie labbra, che dopo esser passato sul mio cuore».
Discussioni col Fauriel.
Del 9 febbraio 1806 è la prima lettera del Manzoni veramente importante per la storia del suo ingegno e dei suoi studi, diretta al Fauriel, l’amico di madame de Staél, e uno dei più felici illustratori della storia e della letteratura contemporanea della Francia meridionale. «Quando il Manzoni conobbe il Fauriel, scrivono gli editori dell’epistolario manzoniano, questi aveva ormai e per lungo tempo fondato la sua vita sentimentale sull’amore della M.sa di Condorcet; questa coppia s’era anzi affratellata all’altra, poco dissimile, dell’Imbonati e di donna Giulia. La vita del Fauriel è così dal i8o6 intimamente collegata con quella del Manzoni». Il quale avendogli inviato i versi per l’Imbonati, n’ebbe in risposta una affettuosa lettera, tra critica e famigliare, alla quale egli a sua volta risponde: «La cognizione, gli scrive, ch’io sapeva aver voi delle italiane lettere fu in me cagione di timore nel presentarvi quei miei versi: ed è questa stessa ragione che mi rende più lusinghievole (sic) l’accoglienza che ad essi avete fatto. Dopo la soddisfazione di aver reso un omaggio qual ch’ei si sia alla memoria di un uomo, ch’io venero come virtuosissimo, a cui son grato come all’angelo tutelare di mia madre, e ad uno che tanto mi amò; dopo la soddisfazione di aver fatto a questa mia dolce madre ed amica quello che gli (sic) poteva far di più grato, la vostra lettera è il più gran piacere che quei versi m’abbiano procurato». Dopo questo preambolo, il Manzoni comincia a parlare, da gran letterato, dell’arte sua, che era allora quella di far versi. I giudizi che di lui riportiamo sullo sciolto e sull’esametro virgiliano, rivelano in lui qualche cosa di molto più profondo che non la semplice informazione letteraria e di più vivo che non la solita tradizione. Ciò ch’egli dice del verso virgiliano è più intimamente sentito e più liberalmente e signorilmente espresso che non quello stesso che ne sentiva il Monti. Abbiamo a che fare non con uno scolaro della scuola classica, ma con un artista del nuovo grande romanticismo che in cospetto ai classici non ottunde anzi affina la propria squisita sensibilità. In lui la continuità dell’endecasillabo e quasi discendenza sua dal vario e versatile esametro latino, non è astrattamente e dogmaticamente affermata; è sentita invece vivacissimamente.
«Quello che voi dite degli sciolti, e il modello che proponete di questa maniera di verseggiare, fa vedere quanto conoscete l’indole della poesia italiana. Lo sciolto parmi veramente il più bello dei vostri metri, quando è ben maneggiato. Parmi ch’esso abbia, come esametro latino, il pregio di prendere ogni colorito. Virgilio ha dato a quello semplicità, delicatezza, eleganza nelle bucoliche, soavità, mollezza, esattezza, spirito poetico nelle georgiche, maestà, passione, evidenza nell’epico, armonia e varietà sempre. Orazio lo ha fatto gentile, familiare, arguto, fedele sempre al pensiero. Noi abbiamo una prova della flessibilità dello sciolto nella traduzione che il Caro ha fatto dell’Eneide, nella coltivazione dell’Alamanni (monotona però sovente, ma per difetto dell’autore, non della natura del verso) e in quel modo di satireggiare del Parini, tutto suo proprio.
Il Parini.
La mancanza poi della rima io la credo piuttosto che una difficoltà di meno, un aiuto e una scusa di meno. Trovati i primi pensieri, la necessità della rima ne fornisce molti altri, molti ne modifica, e dà principalmente di quelle minute immagini, che fanno l’eleganza di un componimento, e compiscono alle volte il pensiero. Se il poeta non sa adattare lo stile e il suono dello sciolto alla materia, se non è fecondo di immagini, se non sa trovare da sè quello che la rima gli avrebbe suggerito, il suo sciolto sarà certamente peggiore d’una ode rimata, che manchi in egual grado delle altre virtù poetiche. Il Parini è sommo scrittore di versi sciolti perchè le aveva tutte.... Io credo che la meditazione di ciò che è e di ciò che dovrebbe essere, e l’acerbo sentimento che nasce da questo contrasto, io credo che questo meditare e questo sentire sieno le sorgenti delle migliori opere sì in verso che in prosa dei nostri tempi: e molti erano gli elementi di quel sommo uomo nel quale brano avrete osservate, pure in non ardua nè vasta materia, alcune delle qualità migliori e più schiette dell’ingegno manzoniano: la sicurezza o nettezza maestra dell’osservare, la semplicità e quasi facilità felicissima del dire, senza burbanza nè pedanteria, ugualmente lontana dalle convinzioni ostinate e spesso ombrose e accidiose del letterato italiano di vecchio stile, e dalla burbanza e improntitudine dei nuovi irrequieti romantici. Con questo Manzoni virgiliano e pariniano si riannoda l’antico al moderno, si riprende e si rielabora la nostra migliore tradizione letteraria, la quale, appunto, dal secolo di Augusto a quello di Napoleone non ebbe soluzione vera di continuità mai. Mirabile anche in un giovine letterato di ventun anno l’assenza totale di ogni pregiudizio sociale, e l’affermazione, per esempio, che la satira del Parini non avesse avuto alcun effetto pratico sui costumi: «i bei versi del Giorno non hanno corretti nell’universale i nostri torti costumi più di quello che i bei versi della georgica di Virgilio migliorino la nostra agricoltura... il Parini non ha fatto che perfezionare di più l’intelletto e il gusto di quei pochi che lo leggono e l’intendono, fra i quali non v’è alcuno di quelli che egli si è proposto di correggere; ha trovato tutte le belle immagini, ha delle verità» Tuttavia egli aggiunge: «io son persuaso che una qualunque verità pubblicata contribuisce sempre ad illuminare e riordinare un tal poco il caos delle nozioni dell’universale, che sono il principio delle azioni dell’universale». Non solo; ma, ricercando la causa di questo mancato influsso dell’arte pariniana sui costumi nel fatto che la lingua del Giorno diversissima da quella parlata può quasi dirsi lingua morta pel gran pubblico, rivela fin d’ora la preoccupazione dello strumento primo della sua propria arte: quella della lingua.
Ammirazioni francesi.
In una lettera del 12 marzo a Giovambattista Pagani, il Manzoni ha una curiosa e giovanile espansione sul poeta francese Le Brun. Dice che ebbe «l’onore di pranzare con un grand’uomo, con un poeta sommo, con un lirico trascendente». «Avendomi onorato del dono di un suo componimento stampato, volle assolutamente scrivere sull’esemplare, che conserverò per sempre: A M.r Beccaria. C’est un nom, diceva egli, trop honorable pour ne pas saisir l’occasion de le porter. Je veut que le nom de Le Brun choque avec celui de Beccaria. Ho avuto l’onore di imprimere due baci sulle sue smunte e scarnate guancie; e sono stati per me più saporiti, che se gli avessi colti sulle labbra di Venere. È un grande uomo, per Dio! Spiacemi che le sue Odi sieno sparse, e non riunite in un volume, per potertele far conoscere: il suo nome lo conoscerai certamente. Credimi che noi Italiani siamo alquanto impertinenti, quando diciamo che non v’è poesia francese. Io credo, e creder credo il vero, che noi non abbiamo (all’orecchio) un lirico da contrapporre a Le Brun, per quello che si chiama forza lirica. E perciò qui lo chiamano comunemente Pindare Le Brun, e non dicono forse troppo. Per contentare la loquacità che oggi mi domina, e per giustificare la mia opinione, ti trascriverò qualche verso qua e là delle sue odi». A mettere in giusta luce i quali entusiasmi, dobbiamo ricordare che la iperbolica ammirazione del Le Brun era allora in voga in Francia, e con quelle due espressioni all’orecchio e forse il Manzoni ratempera istintivamente la propria foga; e, infine, che i Sepolcri non ancora facevano parte della letteratura italiana, e proprio in quell’anno il Foscolo cominciava a meditarli per dare all’Italia un nuovo esempio di poesia pindarica.
Il medesimo Pagani gli mandò, qualche giorno dopo, un suo giudizio molto aspro sull’Alfieri. E il nostro, di rimando, in data 18 aprile: «Tu mi parli di Alfieri, la cui vita è una prora del suo pazzo, orgoglioso furore per l’indipendenza, secondo il tuo modo di pensare; e secondo il mio, un modello di pura, incontaminata, vera virtù di un uomo che sente la sua dignità, e che non fa un passo di cui debba arrossire». Ed ecco veramente un giudizio sicuro, che fa onore al nostro, il cui culto per l’Alfieri manifestò già nei sermoni giovanili, come annotano gli editori, risaliva al tempo della sua dimora in Lombardia; donde, scrisse anche il De Sanctis, egli parti tutto pieno d’Alfieri. Il Manzoni accolse e fece suoi i grandi esempi del rinnovamento letterario romagnolo, lombardo e piemontese, rappresentato dal Monti, dal Parini e dall’Alfieri. E parti proprio di là dove gli altri erano arrivati, per fare poi la sua strada, questo non c’è bisogno di dirlo.
Il Manzoni giacobino.
Andiamo avanti. Nel settembre di quell’anno 1806 si ammala molto gravemente l’Arese. Il Manzoni a Parigi è informato del caso e delle circostanze che lo rendono anche più triste all’anima ch’egli aveva allora di miscredente. «Duolmi amaramente che gli amici non abbiano adito al suo letto, e che invece egli debba avere dinanzi agli occhi l’orribile figura di un prete. Nè puoi figurarti quanto dolore e quanta indegnazione abbia in noi eccitato il sentire da Calderari, che ad Arese era stata annunziata la sentenza fatale. (Spero per Dio che sarà vana). Crudeli! così se egli schiva la morte, ha dovuto nullameno assaporarne tutte le angoscie! E quante volte l’annuncio della morte ha ridotto agli estremi dei malati, che ignorando il loro stato sarebbero guariti.
«Basta; i mali del caro ed infelice Arese, che ho sempre dinanzi agli occhi, mi allontanano sempre più da un paese, in cui non si può vivere, nè morire come si vuole. Io preferisco l’indifferenza naturale dei francesi, che vi lasciano pei fatti vostri, allo zelo crudele dei nostri, che s’impadroniscono di voi, che vogliono prendersi cura della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro maniera di pensare: come se chi ha una testa, un cuore, due gambe ed una pancia, e cammina da sè, non potesse disporre di sè, e di tutto quello che è in lui a suo piacimento».
La grande amicizia col Fauriel.
Ma vediamo un’altra lettera del Manzoni al Fauriel, datata da Genova il 19 marzo 1807:
«J’étais au lit ce matin, et je pensais au retard de vos lettres, quand j’entend ma mère qui crie: Alexandre, une lettre de Fauriel; je sautai de mon lit, je courus dans sa chambre et nous savouràmes ensemble votre chère lettre. Je ne peux pas vous exprimer le plaisir que me, fait l’espérance toujours plus forte en moi que je serai votre ami, et cette espérance fait aussi le bonheur de ma mère, qui me répète toujours (ce que mon coeur me dit aussi, quoique ma raison me réplique que c’est une folle presomption): Oh si tu pouvois devenir nécessaire à ce divin Fauriel! Ne vous fàchez pas, l’épithète m’est échappée.... Nous allons partir da Génes (le) mardi 24, nous resterons peut-étre 3 semaines à Turin, et puis nous retournerons a calcar l’Alpi nevose, e il buon Gallo sentier, comme disait notre Alamanni, qui avait raison, car.... Ma je vous dirai à (sic) vive voix tout le mal que je sens de cette belle Italie et les raisons qui me font lui préférer la France. Si quelqu’un de mes concitoyens m’entendait, il crierait au blasphème; mais, s’il vous connaissait et s’il avait du bon sens, il concevrait que la raison d’étre près de vous est une raisons suffisante pour me faire préférer le séjour de Paris à tout autre: je vous avertis sérieusement de prendre cette expression à la lettre».
Fra le ragioni che renderebbero ora più che mai cara al Manzoni la conversazione del Fauriel, ve n’ha alcune intime di cuore.
Vi ho forse raccontato altra volta che ho avuto nella mia adolescenza (1801) una fortissima e purissima passione per una giovinetta.... passione che ha forse consumate le forze della mia anima per simili emozioni. Ebbene! ella è a Genova, ed io l’ho veduta. Mia madre, che aveva fondato la speranza di tutta la sua vita nella nostra unione e che non la conosceva personalmente, l’ha veduta e ne è stata molto colpita, poichè ella è maritata. Quel che mi dà un po’ di tortura, è il pensiero che è un po’ colpa mia averla perduta, e che ella credeva che la colpa fosse tutta mia. Ma la mia colpa fu di non averla avvicinata quando lo potevo onorevolmente; ma allora non mi rimaneva per essa che una profonda venerazione che conserverò sempre: questo sentimento non era altrettanto forte quanta la mia avversione per il matrimonio; avversione che l’orribile spettacolo del mio paese aveva fatto nascere, che la parte che io prendevo (ed ecco la mia vergogna) a questa corruzione non aveva fatto che aumentare». La fanciulla alla quale il Manzoni accenna chiamandola «l’angelica Luigina» fu forse donna Luigia Visconti dei marchesi di San Vito, sorella del filosofo Ermes, andata sposa in Genova al marchese Gian Carlo di Negro, altro amico del Manzoni, e morta appena nel 1810.
La morte del padre.
Nel marzo di quello stesso anno il nostro scriveva da Brusuglio al Pagani: «Un motivo ben doloroso, il desiderio cioè di vedere mio padre ch’era gravemente malato, desiderio che purtroppo non ho potuto soddisfare, giacche non lo trovai vivo, mi ha chiamato a Milano. Come però questo era il solo motivo che mi ci chiamava, così cessando questo non metto il piede in città (a Milano) e domani o dopo riparto per Torino, indi per Parigi». In questo viaggio era stato accompagnato dalle madre, ma nè l’uno nè l’altra piansero a lungo per la morte di don Pietro.
L’amicizia col Fauriel si fa in questo periodo di lontananza sempre più profonda: il giovane ha promesso a sè medesimo di scoprirsi all’amico tutto intero, e in ogni istante: perchè vuol essere degno di lui e in fondo «je me trouve bon enfant; et je suis sùr de n’avoir jamais un sentiment méprisable». Continua con l’illustre uomo la conversazione letteraria e da Torino lo informa d’aver letto la traduzione di Virgilio fatta da «quell’Alfieri a cui sono scappate diciannove eccellenti tragedie». «Que diable est-il allé faire dans cette galere?». Egli ha voluto contare le espressioni di Virgilio (come questo autore gli sta ancora e gli starà sempre dinanzi!) che gli paiono indebolite, o spoetizzate nella traduzione e gli è sembrato trovarne trentacinque nelle prime quattro pagine. «Mi sembra che dopo il Caro, rimanga ancora da fare una assai bella traduzione dell’Eneide, ma mi sembra che per farla bisogni avere proprio quello che l’Alfieri non aveva. Mi sembra che questo grande uomo assomigli a un eccellente comico, che fuori della scena e andando in società dicesse delle sciocchezze, e allora, a dirvi la verità, je ne le trouve pas béte comme un génie». E chiudendo una lettera al medesimo, del 12 maggio: «Addio, mio caro amico, se pur son degno di voi: ricordatevi che mi è impossibile stimare e amare chi che sia tanto quanto faccio di voi».
Il matrimonio.
Alla fine del mese lo ritroviamo ristabilito con la madre a Parigi, ove seguita a scrivere al Fauriel alla Maisonnette, in tema del matrimonio che il Fauriel gli proponeva di contrarre con Mad. Le Laubespin (Mll.e de Tracy), alla quale egli non può offrire con fiducia che un cuore retto e puro, ciò che non è che il puro necessario e che non si può contare come un vantaggio. L’unico vantaggio dunque che questa unione potrebbe offrirle, è l’amicizia viva e la devozione inalterabile della madre più tenera e più degna di rispetto; e io non esito a dire che ciò potrebbe essere un compenso a una parte de’ miei difetti?! Del resto, egli dice, voi mi conoscete, mio caro buon Fauriel, e sapete forse meglio di me che la mia avversione alla soggezione, il mio allontanamento assoluto dalla società, la mia completa malagrazia e il mio invincibile imbarazzo (che mi rende talvolta ben ridicolo) ecc. ecc. fanno di me un essere un po’ originale, e d’una originalità che io non credo troppo fatta per piacere a una creatura tout-à-fait gentille per sè stessa e usata a vedere nei propri onorati genitori, e certamente anche negli amici di loro scelta, le grazie dello spirito riunite alle qualità indispensabili del cuore».
Del 16 giugno 1805 abbiamo una lettera al Monti, nella quale il Manzoni si difende dall’accusa fattagli dal poeta di «irragionevole e celata inimicizia». «Io posso benissimo, gli scrive, parlando dei tuoi componimenti con amici, aver detto ciò che al debolissimo mio giudizio pareva in essi reprensibile, con quella stessa bocca con cui ne ho esaltate le bellezze. Giacche santa parmi quell’amicizia che collo stesso affetto abbraccia la verità e l’amico. Se tu fossi mediocre poeta, ed io fossi tuo amico, io non parlerei mai dei tuoi versi; ma come questi versi sono agli occhi miei tanto superiori ai tempi, tanto vicini all’antica perfezione dell’arte, così, parlandone, io ho la consolazione di lodarne le infinite bellezze, ed ho la sincerità (temerità forse in un giovane, ma necessaria a chi loda) di notare ciò che a me non pare perfetto».
In altra, che s’argomenta scritta nell’ottobre da Belvedere sul Lago, il Manzoni annunzia al Fauriel il suo quasi fidanzamento con Enrichetta Blondel, e pone fra i vantaggi che gli recherà la nuova sposa, questi due: il non essere nobile e l’essere protestante. Al Belvedere il Manzoni e la madre vivevano «nella maggior solitudine, tremando di paura tutte le volte che sentiamo una carrozza entrare nel cortile.... Io faccio lunghe conversazioni con i contadini e i muratori e mi informo di tutto quel che riguarda l’agricoltura, ce qui m’interesse au dernier point. La mia fortuna ha voluto che, poco avanti il nostro arrivo, uno sciame di api venisse ad abitare nel nostro giardino, e questo mi darà un seguito di piaceri e di occupazioni classiche, che io desideravo tanto».
Nelle lettere che seguono s’annunzia il matrimonio e si rifanno gli elogi della sposa: Questa angelica creatura sembra fabbricata apposta per noi; essa ha tutti i miei gusti, ed io sono sicuro che non c’è un punto importante in fatto di opinioni sul quale discordiamo». Anche la sposa desidera ardentemente di vedere il Fauriel e «d’embrasser l’ami de son mari». La felicità di don Alessandro è turbata solo da una non lieve malattia della madre e scossa dalla notizia della morte di Cabanis, che egli tanto più amava in quanto non aveva conosciuto altri al mondo il cui morale più assomigliasse a quello del povero Carlo Imbonati.
Nell’estate del 1808 il Manzoni appare nuovamente a Parigi da una lettera al Pagani, nella quale si parla con ammirazione della storia della guerra d’America del Botta: «Tutti quelli che conoscono i suoi scritti affermano che l’Italia non ha prosatore migliore nè più purgato di lui»; alcuni mesi dopo dà notizia al Fauriel delle commedie e della prima parte della Vita dell’Alfieri, «del divino e qualche volta troppo umano Alfieri» che ha tartassato con ingiustizia e persino con perfidia cose e uomini della grande Francia giacobina. «Infine, questa vita è la vita dell’Alfieri, scritta dall’Alfieri, — c’è niente di più interessante e di più bizzarro dell’eroe dello storico?».
Siamo arrivati così passo passo alla soglia del 1809 degli anni in cui il Manzoni allargando nelle lettere il campo delle sue impressioni e dei suoi giudizi, rivela sempre più nettamente e più gagliardamente imposta la propria complessa figura di uomo, di pensatore di artista.
Riserbiamo a un altro articolo l’esame di quest’altra parte del suo carteggio.
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