Pagina:Il buon cuore - Anno XI, n. 30 - 27 luglio 1912.pdf/5


IL BUON CUORE 237


tro latino, il pregio di prendere ogni colorito. Virgilio ha dato a quello semplicità, delicatezza, eleganza nelle bucoliche, soavità, mollezza, esattezza, spirito poetico nelle georgiche, maestà, passione, evidenza nell’epico, armonia e varietà sempre. Orazio lo ha fatto gentile, familiare, arguto, fedele sempre al pensiero. Noi abbiamo una prova della flessibilità dello sciolto nella traduzione che il Caro ha fatto dell’Eneide, nella coltivazione dell’Alamanni (monotona però sovente, ma per difetto dell’autore, non della natura del verso) e in quel modo di satireggiare del Parini, tutto suo proprio.

Il Parini.

La mancanza poi della rima io la credo piuttosto che una difficoltà di meno, un aiuto e una scusa di meno. Trovati i primi pensieri, la necessità della rima ne fornisce molti altri, molti ne modifica, e dà principalmente di quelle minute immagini, che fanno l’eleganza di un componimento, e compiscono alle volte il pensiero. Se il poeta non sa adattare lo stile e il suono dello sciolto alla materia, se non è fecondo di immagini, se non sa trovare da sè quello che la rima gli avrebbe suggerito, il suo sciolto sarà certamente peggiore d’una ode rimata, che manchi in egual grado delle altre virtù poetiche. Il Parini è sommo scrittore di versi sciolti perchè le aveva tutte.... Io credo che la meditazione di ciò che è e di ciò che dovrebbe essere, e l’acerbo sentimento che nasce da questo contrasto, io credo che questo meditare e questo sentire sieno le sorgenti delle migliori opere sì in verso che in prosa dei nostri tempi: e molti erano gli elementi di quel sommo uomo nel quale brano avrete osservate, pure in non ardua nè vasta materia, alcune delle qualità migliori e più schiette dell’ingegno manzoniano: la sicurezza o nettezza maestra dell’osservare, la semplicità e quasi facilità felicissima del dire, senza burbanza nè pedanteria, ugualmente lontana dalle convinzioni ostinate e spesso ombrose e accidiose del letterato italiano di vecchio stile, e dalla burbanza e improntitudine dei nuovi irrequieti romantici. Con questo Manzoni virgiliano e pariniano si riannoda l’antico al moderno, si riprende e si rielabora la nostra migliore tradizione letteraria, la quale, appunto, dal secolo di Augusto a quello di Napoleone non ebbe soluzione vera di continuità mai. Mirabile anche in un giovine letterato di ventun anno l’assenza totale di ogni pregiudizio sociale, e l’affermazione, per esempio, che la satira del Parini non avesse avuto alcun effetto pratico sui costumi: «i bei versi del Giorno non hanno corretti nell’universale i nostri torti costumi più di quello che i bei versi della georgica di Virgilio migliorino la nostra agricoltura... il Parini non ha fatto che perfezionare di più l’intelletto e il gusto di quei pochi che lo leggono e l’intendono, fra i quali non v’è alcuno di quelli che egli si è proposto di correggere; ha trovato tutte le belle immagini, ha delle verità» Tuttavia egli aggiunge: «io son persuaso che una qualunque verità pubblicata contribuisce sempre ad illuminare e riordinare un tal poco il caos delle nozioni dell’universale, che sono il principio delle azioni
dell’universale». Non solo; ma, ricercando la causa di questo mancato influsso dell’arte pariniana sui costumi nel fatto che la lingua del Giorno diversissima da quella parlata può quasi dirsi lingua morta pel gran pubblico, rivela fin d’ora la preoccupazione dello strumento primo della sua propria arte: quella della lingua.

Ammirazioni francesi.

In una lettera del 12 marzo a Giovambattista Pagani, il Manzoni ha una curiosa e giovanile espansione sul poeta francese Le Brun. Dice che ebbe «l’onore di pranzare con un grand’uomo, con un poeta sommo, con un lirico trascendente». «Avendomi onorato del dono di un suo componimento stampato, volle assolutamente scrivere sull’esemplare, che conserverò per sempre: A M.r Beccaria. C’est un nom, diceva egli, trop honorable pour ne pas saisir l’occasion de le porter. Je veut que le nom de Le Brun choque avec celui de Beccaria. Ho avuto l’onore di imprimere due baci sulle sue smunte e scarnate guancie; e sono stati per me più saporiti, che se gli avessi colti sulle labbra di Venere. È un grande uomo, per Dio! Spiacemi che le sue Odi sieno sparse, e non riunite in un volume, per potertele far conoscere: il suo nome lo conoscerai certamente. Credimi che noi Italiani siamo alquanto impertinenti, quando diciamo che non v’è poesia francese. Io credo, e creder credo il vero, che noi non abbiamo (all’orecchio) un lirico da contrapporre a Le Brun, per quello che si chiama forza lirica. E perciò qui lo chiamano comunemente Pindare Le Brun, e non dicono forse troppo. Per contentare la loquacità che oggi mi domina, e per giustificare la mia opinione, ti trascriverò qualche verso qua e là delle sue odi». A mettere in giusta luce i quali entusiasmi, dobbiamo ricordare che la iperbolica ammirazione del Le Brun era allora in voga in Francia, e con quelle due espressioni all’orecchio e forse il Manzoni ratempera istintivamente la propria foga; e, infine, che i Sepolcri non ancora facevano parte della letteratura italiana, e proprio in quell’anno il Foscolo cominciava a meditarli per dare all’Italia un nuovo esempio di poesia pindarica.

Il medesimo Pagani gli mandò, qualche giorno dopo, un suo giudizio molto aspro sull’Alfieri. E il nostro, di rimando, in data 18 aprile: «Tu mi parli di Alfieri, la cui vita è una prora del suo pazzo, orgoglioso furore per l’indipendenza, secondo il tuo modo di pensare; e secondo il mio, un modello di pura, incontaminata, vera virtù di un uomo che sente la sua dignità, e che non fa un passo di cui debba arrossire». Ed ecco veramente un giudizio sicuro, che fa onore al nostro, il cui culto per l’Alfieri manifestò già nei sermoni giovanili, come annotano gli editori, risaliva al tempo della sua dimora in Lombardia; donde, scrisse anche il De Sanctis, egli parti tutto pieno d’Alfieri. Il Manzoni accolse e fece suoi i grandi esempi del rinnovamento letterario romagnolo, lombardo e piemontese, rappresentato dal Monti, dal Parini e dall’Alfieri. E parti proprio di là dove gli altri erano arrivati, per fare poi la sua strada, questo non c’è bisogno di dirlo.