Il buon cuore - Anno XI, n. 26 - 29 giugno 1912/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

../Religione ../Necrologio IncludiIntestazione 26 aprile 2022 75% Da definire

Religione Necrologio

[p. 203 modifica]Educazione ed Istruzione


La colonizzazione della Patagonia

e l’emigrazione italiana.

L’Argentina vuole colonizzare i suoi territori del Sud. Da qualche tempo il Governo argentino si sforza con ogni suo potere di avviare a quelle regioni gli immigranti che giungono alle rive del Plata; poichè esso sente la necessità di ristabilire un certo equilibrio nella distribuzione della popolazione nella repubblica. I territori Argentini del Sud occupano una superficie di circa 800.000 chilometri quadrati, ed hanno complessivamente poco più di 80.000 abitanti; sono cioè quasi deserti, mentre la sola Buenos Ayres conta 1.300.000 abitanti, circa una quinta parte dell’intera popolazione dell’Argentina. Questo squilibrio è tanto più dannoso e pericoloso per un paese come l’Argentina, che trae quasi la totalità delle sue risorse dall’agricoltura, ed in cui l’industria è finora pochissimo sviluppata; essendo notorio che, per la massima parte dei prodotti industriali, quella Repubblica è tributaria dell’estero.

Tale situazione, che apparisce chiara anche a chi sia profano in materie economico-politiche, ha dunque spinto il Governo argentino a prendere dei provvedimenti al riguardo. I provvedimenti presi sono di due ordini: alcuni diretti a preparare con lavori stradali ed idraulici i territori del Sud, per renderli più facilmente accessibili agli immigranti e meglio idonei alla agricoltura ed alla vita di colonie, e questi già da alcuni anni si stanno elaborando: altri di carattere più immediato, di recentissima attuazione, e consistenti essenzialmente in grandi agevolazioni di viaggio ai coloni che si rechino in quelle regioni.

Vedremo ora in qual misura e con quale efficacia tale azione attualmente si svolga.

Dell’immensa superficie dei territori del Sud della Repubblica Argentina, che costituiscono la Patagonia, solamente una parte relativamente piccola si presta alla colonizzazione agricola. La massima parte di essi avrà sempre carattere prevalentemente pastorizio, poichè, per la sua situazione fra i 38° ed 54° di latitudine, il clima vi è freddo, e va divenendo sempre più rigido a mano a mano che ci si avvicina alla Terra del Fuoco. I due territori nei quali solamente può svilupparsi l’agricoltura, sono il Neuquen ed il Rio Negro; il primo, compreso fra il 36° ed il 41° di latitudine, situato all’estremo occidente della Repubblica, va fino alla Cordigliera delle Ande, la quale costituisce il suo confine col Chile; esso ha una superficie di 109.703 chilometri quadrati con 26.417 abitanti. Il secondo, compreso fra il 38° ed il 42° di latitudine, si stende dal Neuquen fino all’Atlantico, misura 196.605 chilometri quadrati di superficie e conta 24.350 abitanti. Le due vaste regioni costituiscono il bacino fluviale del Rio Negro, il quale è formato dall’unione dei due fiumi Limay e Neuquen.

I due territori hanno in gran parte caratteri simili. Noi qui parleremo più specialmente del Rio Negro, [p. 204 modifica]dove i lavori di colonizzazione sono già iniziati. La causa principale che trattiene la diffusione dell’agricoltura in quei territori è la grande siccità che vi predomina: le pioggie cadono raramente in quella immensa estensione di terra, se si eccettua la parte del Neuquen addossata alle Ande, nella quale al contrario le pioggie sono anche troppo frequenti, ma dove più si addice la pastorizia.

Il suolo di quasi tutta la vasta regione, che sarebbe fertile se avesse acqua, si presenta invece arido, abbandonato, coperto di una vegetazione bassa, stenta, rada, di arbusti dalla foglia sottile e spesso di colore fra il verde ed il cinereo; e fra gli arbusti e nelle radure maggiori raramente cresce erba, ma si scuopre invece il suolo sabbioso. Le mandrie di vacche e di pecore sparse in quelle regioni vi trovano magro vitto ed abbisognano di estensioni grandissime per campare.

Solamente quindi quella parte di territorio che ha possibilità di essere irrigata artificialmente, può divenire atta all’agricoltura. Perciò i terreni prossimi al corso del Rio Negro, l’unico grande fiume che traversi la regione, sono i soli o quasi, che possono per ora a quello scopo essere utilizzati. Tolta quella vallata, ed altre zone sparse qua e là a grandi distanze, di superficie assai minore, come quella situata più a Sud, presso il Lago Nahuel Iluapi, tutto il restante territorio del Rio Negro, formato da vastissimi altipiani privi di corsi d’acqua, non si vede per ora come possa esser coltivato.

Peraltro la superficie lungo quel fiume, che dal Neuquen alla sua foce nell’Atlantico corre per oltre 600 chilometri, è già tale da bastare ad una popolazione considerevole, ed il Governo argentino sta provvedendo alla sua sistemazione. È stata costruita una ferrovia da Bahia Bianca che percorre prima una parte della valle del Rio Colorado, poi prosegue per la parte superiore di quella del Rio Negro, e che è giunta da poco fino a Neuquen, città capoluogo del territorio omonimo: è stata costruita ed è gerita da una società inglese, come gran parte delle ferrovie argentine.

Una grandiosa opera idraulica, progettata ed iniziata dal compianto ingegnere italiano Cipolletti, alla cui memoria si è intitolato uno dei paesi sorgenti colà, e continuata ora sotto la direzione dell’ing. Severini, si sta pure eseguendo presso Neuquen, alla confluenza del Rio Limay col Rio Neuquen; ed è la cosiddetta Cuenca de Vidal. Consiste in una gran presa d’acqua, dalla quale partono i canali paralleli al fiume Rio Negro, destinati alla irrigazione. L’opera renderà grandi vantaggi non solo per il suo scopo diretto di irrigazione; ma altresì perchè servirà ad eliminare od a rendere meno disastrosi gli effetti delle piene del Rio Negro e dei suoi confluenti, che sono frequenti e pericolose.

Per alcune diecine di chilometri dalla Cuenca de Vidal, la canalizzazione è già impiantata, e l’acqua giunge ora ad irrigare la campagna fino intorno al paese di Roca, talchè già se ne vedono gli effetti e si può giudicare delle nuove condizioni del paese.

Per i canali di irrigazione che garantiscono l’industria agricola, e per la ferrovia in comunicazione con Bahia Bianca, che provvede al trasporto dei prodotti, sebbene per ora corrano solo due treni per passeggeri alla settimana, il paese di Roca e quelli della vallata che si trovano nelle stesse condizioni, vanno ora prendendo un considerevole sviluppo.

Il piccolo nucleo di Roca esiste già da parecchi anni; esso era però situato molto più vicino al fiume: una piena straordinaria, una diecina di anni or sono lo distrusse, facendo rovinare le sue case fatte, secondo l’uso del paese, di mattoni di fango senza cuocere. La sola costruzione che resiste alla piena e che tuttora si trova in quella località, è il Collegio dei Padri Salesiani e quello delle Figlie di Maria Ausiliatrice, costruiti di mattoni cotti. Questi istituti sono frequentati dai figli e dalle figlie dei coloni e dei negozianti del paese: vi si danno pure lezioni di italiano. I Padri Salesiani furono fra i primi abitatori del luogo, e per primi vi iniziarono coltivazioni e vi introdussero sistemi agri. coli razionali: è particolarmente benemerito di quel luogo il Padre Stefanelli, del quale si ricorda che portò colà la prima macchina agricola a vapore, da Viedma, percorrendo con essa un tragitto di oltre 500 chilometri spesso per luoghi impraticabili.

A distanza di pochi chilometri ad ovest di Roca i Padri Salesiani hanno pure una Scuola agricola detta di S. Giuseppe. È un possesso di circa trecento ettari, con due relativi corpi di fabbrica, semplici ed assai vasti, adibiti a locali scolastici e ad ambienti per l’azienda agricola. La scuola ha carattere prevalentemente pratico: è frequentata per ora da circa 25 allievi, fra cui appena due o tre figli di italiani. I ragazzi, guidati dai Padri Salesiani o da coloni e peones (opranti salariati) impiegati presso la Scuola, apprendono i vari’ lavori agricoli, nei quali si trattengono gran parte della giornata; alcune ore sono riserbate all’insegnamento elementare.

La Scuola dei Salesiani ha, dal punto di vista agricolo, il medesimo carattere delle altre aziende vicine. Tutta la regione è divisa in chacras (possessi di circa 100 ettari ciascuno) per lo più coltivati direttamente dal proprietario, talvolta dati in affitto. In ogni chacra si trovano impiegati per i lavori dei peones, reclutati fra gli immigranti, ai quali vien corrisposto in media un salario mensile da 40 a 45 pesos (da 85 a 95 franchi), oltre il vitto e l’alloggio.

La coltura predominante in tutta la regione è l’alfalfa od erba medica, la quale colla irrigazione dà raccolti sicuri e rimunerativi, per i numerosi tagli che nello stesso anno se ne possono fare. Viene pure il granturco, e la vite, di cui si stanno facendo piantagioni.

Il grano si coltiva in piccola quantità; da molti coloni solamente per quel tanto che basti per l’uso personale della famiglia, non essendone la riuscita sicura a causa delle gelate improvvise, che vengono in quelle prime terre patagoniche senza regola alcuna, anche fuori dell’inverno, e spesso ne annientano il raccolto.

Le frutta e gli ortaggi d’ogni genere vengono pure bene, e se ne vedono anzi esemplari rigogliosi, per effetto del terreno vergine.

L’allevamento del bestiame, e specialmente delle [p. 205 modifica]pecore, dei bovini e dei cavalli, è il complemento indispensabile al sistema agricolo del paese, e costituisce pure uno dei cespiti principali di rendita: una parte dei possessi è sempre riserbata al pascolo.

Triste caratteristica di tutto il Rio Negro e di gran parte del Sud della Repubblica Argentina, è il vento fortissimo che vi spira quasi di continuo; vento così forte che fa mulinare per l’aria incessantemente veri turbini di terra, che per giornate intere oscurano il sole, e riescono fastidiosissimi specialmente a chi non vi è abituato; so di coloni italiani che il fenomeno scoraggi e costrinse ad abbandonare quella residenza: talvolta poi la pioggia di rena ha raggiunto tali proporzioni da riuscire disastrosa alle coltivazioni, che ne sono rimaste sepolte: a questo fenomeno deve attribuirsi lo strato assai spesso di sabbia che ricopre il suolo di quasi tutto il Rio Negro e degli altri territori meridionali. dell’Argentina.

Il valore delle proprietà del Rio Negro varia naturalmente moltissimo a seconda che esse siano oppur no irrigate: un possesso che aveva prima un valore trascurabile, appena abbia acqua a sua disposizione o sia preparato per la coltura, costa anche mille lire all’ettaro.

I 24.300 abitanti del Rio Negro sono prevalentemente spagnuoli; ve ne sono poi indigeni, russi, tedeschi ed emigrati di ogni nazionalità che danno alla rada popolazione un carattere cosmopolita.

Collettività di emigrati italiani nel Rio Negro non ne esistono: ve ne sono però come peones sparsi per le chacras; si può dire che ve ne sia uno impiegato per ogni azienda, col salario e le condizioni che abbiamo sopra accennate. Vi sono anche alcuni italiani proprietari chacras: essi hanno raggiunto quella posizione lavorando prima come salariati presso altri proprietari, e col risparmio hanno acquistato a poco prezzo il terreno che poi si è valorizzato. Ora per gli italiani emigrati la possibilità di divenire proprietari con questo sistema è resa assai più difficile: perchè i terreni buoni che offrono opportunità per l’agricoltura, sia per la vicinanza alla ferrovia, sia per la facilità di irrigazione, furono per estensioni vastissime accaparrati, come avviene purtroppo in tutta l’Argentina, da speculatori, o concessi per favoritismi; questi proprietari per lo più, senza curarsi di farli lavorare, attendono che il movimento automatico, spesso artificioso, di valorizzazione li porti a prezzi elevati, per rivenderli carissimi, magari suddivisi in piccoli lotti.

Terreni fiscali buoni, in posizioni favorevoli da acquistarsi a basso prezzo, ne sono rimasti pochissimi. A mano a mano che avanza l’escavazione dei canali, si fa la caccia ai lotti di terreno ancora disponibili lungo i medesimi, e si acquistano in prevenzione quando i lavori dei canali ne sono ancora distanti parecchi chilometri, e quando mancano due o tre anni ed anche più prima che l’acqua vi arrivi. Chi, come di solito i nostri emigrati, non dispone di forti capitali, difficilmente può occupare quei terreni dello Stato che fa obbligo di metterli subito, almeno in parte, a coltivazione, il che richiede la immobilizzazione di un discreto capitale e la possibilità di attendere il frutto a lunga scadenza.

Quindi i nostri emigrati che si rechino in quella regione non possono in genere sperare di divenir presto proprietari di terra, ma essi in gran parte dovranno accontentarsi di impiegarsi come salariati presso aziende di stranieri.

Ranieri Venerosi.

(Continua).

LA CURA DELL’UVA

· · · · · · · · · · ·

Innanzi tutto l’uva è un nutrimento; contiene sostanze albuminoidi nella proporzione media di 17,150 p. 1.000, che sono la materia prima per la fabbricazione e il rinnovamento dei nervi, dei vasi, delle fibre muscolari, dei visceri; contiene dello zuccaro (glucosio) che è un vero riformatore del grasso. Ecco perchè molti contadini di regioni viticole posson vivere per mesi quasi esclusivamente di uva senza deperire, anzi con mani• festo benessere.

Ed in proposito corre in certe campagne il proverbio: «il fannullone non teme più la fame quando comincia l’uva a tingersi in nero». Persino qualche animale carnivoro, in mancanza dell’alimento preferito, vive d’uva fino all’autunno inoltrato. La volpe d’Esopo, che rinunciò filosoficamente al grappolo troppo alto con quella scappatoia del «troppo immaturo» fece realmente un sacrificio di gola; e la faina, anche nell’inverno, fa razzie sui grappoli sospesi nei sottotetti e nei granai. Non fu quindi dato a torto all’uva il titolo di «latte vegetale».

Ma è anche un aperitivo, migliore del vermouth chinato, grazie all’acido lattico che dal suo glucosio si sprigiona e dall’acido cloridrico in cui il suo cloruro di sodio si trasforma. Per il solfato di potassa poi che contiene è un lassativo blando, come la manna, a piccole dosi; a dosi alte, disostruisce gli intestini e favorisce la circolazione del sangue in tutti i visceri addominali. In istato di non perfetta maturità gli acidi vegetali che racchiude in abbondanza — citrico, malico, tartrico, peptico, racemico — e il bitartrato di potassa, i quali tutti, a contatto dell’acido carbonico del sangue si trasformano man mano in carbonato di potassa, le danno un effetto diuretico pronunciatissimo. Insomma, tutti i pregi delle famigerate acque di Karlsbad, di Marienbad, di Sedlitz, di S. Vincent, di Montecatini son quegli stessi dell’uva, meno il buon gusto. Accresce la fluidità del sangue per mezzo del suo carbonato di soda e di potassa; arricchisce col ferro e col manganese i globuli rossi; col fosfato di calce favorisce la nutrizione delle ossa. Sono in debole proporzione, è vero, queste sostanze benefattrici, ma è riconosciuto dall’esperienza che certi sussidi terapeutici quali ci offre la natura hanno, in piccole dosi, efficacia maggiore che le dosi alte dei preparati dell’arte.

Non esageriamo. Gli effetti benefici delle cure d’uva si debbono poi proprio tutti al succo di quegli acini? [p. 206 modifica]Non c’è qualche altra cosa che li aiuta e li rinforza? Notate bene. Si ordina agli ammalati di recarsi nei vigneti di buon mattino quando la rugiada ancor imperla i grappoli, e il sole non l’ha peranco rasciutta: loro si raccomanda di rimanervi non meno di due ore.

Sono per lo più gente torpida, avvezza a poltrire nel letto fino all’alba dei tafani. Scuotono così un’abitudine antica, rompono un’inerzia che li teneva da tempo immemorabile sotto catena, respirano per due ore l’aria frizzante, animata dai primi raggi del sole. Al dopo pranzo su, di nuovo, poltroni, ai vigneti! Per lo più è da fare una camminatina in salita. Ed ecco altre due ore di aria libera, di sole, di azione ravvivatrice della luce, tra il verde gaio delle colline, tra gli effluvi sani delle piante in piena vegetazione. Tutto ciò eccita le forze sopite, esilara lo spirito, ravviva cuore e polmoni, dà moto e vigore ai vari congegni della macchina umana.

L’uva non fa mai male. Si consiglia di mangiarla adagio, gettando via le bucce e, possibilmente i semi. Non è una medicina, quindi non va soggetta a dosi! ma, per solito, se ne fan consumare da due a quattro chilogrammi al giorno per 30 o 40 giorni di seguito. Qualche volta, specialmente in principio di cura, dà presto un senso di sazietà e di peso. E’ lo stomaco stesso che dice: basta per ora. Già si deve obbedire, ma non desistere. Passati uno o due giorni la si riprende, e lo stomaco allora, fattosi più docile e più arrendevole, permette un’introduzione più copiosa.

Il regime dell’uva è utile non solo agli ammalati, ma anche ai sani. Non facciam nostre le esagerazioni dei vegetariani, i quali sostengono — e, bisogna ammetterlo, con buone ragioni — che il vitto carnoso, o, com’essi sdegnosamente dicono «il nutrirsi di cadaveri» è contrario alla natura dell’uomo, è un vitto «antinaturale» che l’uomo non ha fatto in origine e che soltanto un’aberrazione del gusto gli rese gradito e poco a poco indispensabile; e che al regime carneo è imputabile l’origine e la permanenza di molti e gravi malanni, come la gotta, l’artritismo nelle sue varie manifestazioni, l’arterio-sclerosi, il male di Bright, e persino il carcinoma!

Ma è innegabile che l’alimentazione prevalentemente azotata (carnea) più che la prevalentemente idrocarbonata (vegetale) dà origine a prodotti o scorie cui tocca ai reni eliminare.

I reni di coloro che insaccan carne tutto l’anno son dei veri condannati ai lavori forzati; se son sani resistono; se no, alla lunga si logorano e ammalano. Ora, noi diam bene il riposo, quando e quanto più si può, al cervello; lo diamo ai muscoli; e in quest’ultimi tempi, forse per associazione d’idee col riposo settimanale accordato e imposto per legge agli operai, è saltata fuori la proposta di dar riposo anche al ventricolo col digiuno periodico. Perchè dunque escluderemo da questo pietoso riguardo quei poveri reni? E siccome il loro riposo assoluto non sarebbe possibile, sarebbe anzi incompatibile colla vita, e posto che non possiam rinunziare alla costoletta di rito o a quel qualsiasi piatto di carne biquotidiano, senza del quale ci parrebbe oramai di non poter più vivere, concediamo ai nostri reni almeno un riposo relativo, una mezza vacanza annuale con uno o due mesi di cura d’uva.

Sarà per loro un ristoro ed anche un lavacro, del cui benefizio godranno gli altri visceri in tutto il resto dell’anno.

Non è soltanto nella Svizzera che si fanno le cure d’uva. A chi percorre in questa stagione le pianure ondulate della Germania, della Slesia e le prime alture del Tirolo, si presentano frequenti sulla cima dei poggi o sulle vallette ombrose piccole fattorie, graziosi «chalets» guerniti di terrazzini, sormontati da torricelle, donde intiere famiglie nel mattino e nel pomeriggio sciamano pei vigneti circostanti a farvi la loro traubenkur. Tutti gli anni l’Italia, in questo poetico settembre, dalle sponde del Verbano fino al capo Passero è tutta un addobbo di pampini e di grappoli sui quali pare si sia distesa la ditirambica benedizione di Francesco Redi:

Manna del del sulle tue treccie piova
Vigna gentil che quest’ambrosia infondi
Ogni tua vite in ogni tempo muova
Nuovi fior, nuovi frutti e nuove frondi;
Un rio di latte in dolce foggia e nuova
I sassi tuoi placidamente inondi;
Nè pigro gel, nè tempestosa piova
Ti perturbi giammai, nè mai ti sfrondi

Muoviamo anche noi al salutare pellegrinaggio pei filari inghirlandati; facciamola anche noi la «traubenkur»; facciamola metodicamente tutti gli anni, come molti, con forse minor benefizio, fan la cura di Montecatini e di Vichy. Nè ci dia pensiero la produzione del vino diminuita. Del vino ce ne sarà sempre in abbondanza, fin troppo. Forse sarà anzi un bene perchè molte volte il figlio tradisce, mentre mai noi tradisce la madre.

Dott. Montel.