Il buon cuore - Anno X, n. 47 - 18 novembre 1911/Religione

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Beneficenza Educazione ed Istruzione

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Vangelo della domenica seconda d’Avvento


Testo del Vangelo.

Nell’anno quintodecimo dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Ponzio Pilato, Tetrarca della Giudea Erode, e Filippo suo fratello Tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania Tetrarca dell’Abilene: sotto i pontefici Anna e Caifa il Signore parlò a Giovanni figliuolo di Zaccaria, nel deserto. Ed egli andò per tutto il paese intorno al Giordano, predicando il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, conforme sta scritto nel libro dei Sermoni di Isaia profeta: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate le vie del Signore: raddrizzate i suoi sentieri, tutte le valli si riempiranno, e tutti i monti e le colline si abbasseranno; e i luoghi tortuosi si raddrizzeranno; e i malagevoli si appianeranno, e vedranno tutti gli uomini la salute di Dio. Diceva adunque (Giovanni) alle turbe, che andavano per essere da lui battezzate: Razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire l’ira che vi sovrasta? Fate dunque frutti degni di penitenza e non vi mettete a dire: Abbiamo Abramo per padre. Imperocchè io vi dico che può Dio da queste pietre suscitar figliuoli ad Abramo. Imperocchè già anche la scure è alla radice degli alberi. Ogni albero adunque che non porta buon frutto, sarà tagliato e gettata nel fuoco. E le turbe lo interrogavano, dicendo: Che abbiamo noi dunque a fare? Ed ei rispondeva loro: Chi ha due vesti ne dia a chi non ne ha: e il simile faccia chi ha dei commestibili. E andarono anche dei pubblicani per essere battezzati, e gli dissero: Maestro, che abbiamo da fare? Ed egli disse loro: Non esigete più di quello che vi è stato fissato. Lo interrogavano ancora i soldati dicendo: Che abbiamo da fare anco noi? Ed ei disse loro: non togliete il suo ad alcuno per forza, nè per frode, e contentatevi della vostra paga. Ma stando il popolo in aspettazione e pensando tutti in cuor loro se mai Giovanni fosse il Cristo, Giovanni rispose, e disse a tutti: Quanto a me, io vi battezzo con acqua, ma viene uno più possente di me, di cui non sono io degno di sciogliere le corregge delle scarpe; egli vi battezzerà collo Spirito Santo e col fuoco: Egli avrà alla mano la sua pala, e pulirà la sua via, e radunerà il frumento nel suo granaio, e brucerà la paglia in un fuoco inestingnibile. E molte altre cose ancora predicava al popolo istruendolo.

S. LUCA, Cap. 3.


Pensieri.

Ego... vox clamantis...

Cos’è una voce?

Non ogni rumore che percuota il nostro orecchio può dirsi una voce. Solo voce si dice un complesso d’armonie, che, udito, suscita e rivive nel senso l’impressione grata, nello spirito i fremiti buoni. Questo è voce! S’io guardo ed osservo il creato quale, quanta voce mi percuote! La distesa dei cieli, l’azzurro dell’onde, la varietà della terra, il brillare delle stelle ha per me un linguaggio potente: come piccino il mio essere innanzi a tanto mare!.. quanto grande il mio spirito che tutto lo domina.... quanta sublime l’intelligenza che ne misura le grandezze, ne divina le leggi, dal più pro. fondo degli abissi strappa — vincitrice sempre — ogni più oscuro segreto....

Abbassiamo lo sguardo sul re del creato, sull’uomo, sul principe della terra. Nell’uomo grave mi parla il senno, la prudenza: nella madre il sublime atto del sacrificarsi alla vita, all’educazione, all’amore: nella timida fanciulla l’onor della vergine: nel giovane ardito l’ardire generoso, gagliardo degli anni primi... nel bambino l’ingenuo candore dell’angelo.... Non è una voce? non è grande, immensa come tutto il creato questa voce?.. [p. 373 modifica]

Tutto ci parla quaggiù. Lo stesso silenzio — disse il poeta — talvolta è un inno, ma questa voce è vaga, incerta per l’orecchio che la deve raccogliere: manca alle volte la parola che fissi la voce del creato, della natura.... senza le note si perde il ritmo che freme nello spirito, senza la parola si perde il grandioso ritmo del cosmos.

Occorreva la parola. Venne da Dio. La religione ce la svela. Grandiosa voce della religione, che si fece udire in tutti i tempi, sino agli estremi confini della terra, dalle più superbe metropoli al tugurio del povero, dagli ampli palazzi alla tenda, al tucul del selvaggio abitator del deserto, della foresta!

S’inchinarono i popoli — felici loro! — a quella voce, alla voce di Cristo, il profetato, l’annunciato dal profeta del deserto.

S’inchinarono i popoli — felici loro! — e n’ebbero civiltà, progresso, fraternità.

S’inchinarono i popoli — felici loro! — cessò l’egoismo in terra, l’odio, le gare disoneste.

S’inchinarono i popoli — felici loro! — e levato il lor capo videro i cieli, scoprirono una seconda, una miglior vita; scoprirono non la materia dissolventesi e passeggera, trovarono l’ideale, la vita eterna.

S’inchinarono i popoli — felici loro! — raccolsero non i triboli e le spine, raccolsero la felicità.

Banditore di questa voce è il sacerdote di Cristo. Dalla viva sua voce apprese il suono di giustizia, di libertà, di verità e corse i popoli interi perchè si svegliassero dal sonno di morte alla voce di vita. Per ogni dove generosamente quella voce — a mezzo della Chiesa — dei sacerdoti essa risuonò: nel tempio, nelle piazze, nelle arti, nelle scienze, nella libera voce, dei giornali che la stampa scarica ogni giorno. Come mai fu raccolta questa voce?

Parla il sacerdote: la sua semplice parola è raccolta dalla vergine pia, dalla vecchierella cadente, dall’uomo a cui l’età fugò l’ardor delle passioni, dal vecchio uso ai casti pensieri della tomba.

Parla il sacerdote: verso di lui l’ingiuria villana dell’operaio, l’odio verso di lui, il sorriso beffardo dell’uomo d’affari; verso di lui la benevola compassione del giovane signore che passa veloce, elegante, che apprezza quella voce per gli altri, la disdegna per sè.

Parla il sacerdote: al vibrar della sua voce freme d’amor nel suo cuore, all’amor di Cristo unisce l’amor dei fratelli che gemono in povertà, che soffrono fra gli ori ed i comodi, di tutti.... Chiede che l’amino, che lo abbiano a seguire dietro l’orme luminose di Cristo, della Chiesa.... L’urlo lo osteggia.... il popolo preferisce la voce delle proprie passioni, di chi lo adula, di chi lo avvince di catene d’oro.

Il sacerdote?... vox clainantis in deserto.

B. R.




La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.




Origine d’un curioso ricorso al Protomartire

Forse chissà in quanti altri paesi, certo a Vedano al Lambro, poco oltre Monza, quando una siccità ostinata minaccia e i raccolti e la salute pubblica, si ricorre, con tridui solenni, all’intercessione di S. Stefano patrono di quella parrocchia, perchè cessi il flagello. Non ricordo più con precisione l’anno, ma, ancora fanciullo, una estate terribilmente calda accompagnata da una siccità lunga, di cui nulla lasciava presagire la fine — non lontano annunzio di temporali, non una nuvoletta diafana come una sfumatura nel plumbeo cielo, non una di quelle reazioni metereologiche determinate dall’aumentarsi di elettricità in eccesso nell’aria tutta satura. — A Vedano si ricorse al rimedio che una lontana tradizione degli antenati aveva lasciato in eredità: ad un triduo solenne a S. Stefano. Io, pur non avvezzo alla disciplina del ragionare secondo le regole della logica, trovavo un po’ inesplicabile quel ricorso, non vedendo un rapporto tra la grazia che si impetrava dal cielo e l’intercessore messo di mezzo. Pure, a malgrado della mia precoce saccenteria, in quell’occasione cadde — proprio al terzo giorno del triduo — una pioggia torrenziale e ristoratrice.

Inutile dire che fu la benvenuta per tutti e anche per me. Ma il rapporto tra la pioggia e il Protomartire restava sempre un enigma insoluto, mi faceva nodo alla gola; tuttavia, pur senza perderlo di vista, me ne disinteressai; tanto, non era cosa di vitale importanza e d’altronde non speravo più di spiegarmelo.

Quando, nello scartabellare vecchi libri della Biblioteca Ambrosiana per determinar bene l’antichità del culto a S. Stefano, mi cadde sotto gli occhi ciò che avevo disperato di trovar mai: la spiegazione del rapporto tra la pioggia e S. Stefano.

Sappiamo tutti che il Protomartire, dopo un suo famoso discorso, irrecusabile, ma appunto perciò esasperante al sommo pei Giudei, venne trascinato fuori di Gerusalemme e lapidato (Act. VII, 57). Sotto l’imperatore Onorio (395) un cotal prete Luciano, per monito avuto in sogno da parte di Gamaliele, persuase il vescovo di Gerusalemme, Giovanni, di far ricerche per ritrovare i resti di S. Stefano, Gamaliele istesso, Abibone e Nicodemo e dar loro più degna sepoltura. Difatti, al luogo indicato a Cafargamala, vicino a Gerusalemme, le ricerche ebbero pieno esito, colla contro. prova di strepitose guarigioni di ammalati che risanarono sul posto. Quando si fece la traslazione di quelle sacre reliquie, una copiosa pioggia cadde ad inaffiare la terra inaridita per lunga siccità, a premiare tanto atto di pietà di quegli abitanti e — se volete — in ricambio forse della pioggia di sassi che i loro padri quattro secoli prima avevano rovesciato sul santo giovane diacono, per quanto bello come un angelo; giacche le vendette dei Santi sono tali. Da quell’epoca non si smise più di tributare a S. Stefano un culto eccezionale, commemorando il 3 di Agosto lo scoprimento o Invenzione delle Reliquie, e il 26 la Traslazione da Cafargamala alla Chiesa di Sionne. Di là [p. 374 modifica]vennero portate a Costantinopoli sotto Teodosio il giovane (408), indi a Roma sotto Papa Pelagio II che le fece collocare nella Basilica di S. Lorenzo.

Questa semplice cronaca delle vicende delle reliquie di S. Stefano mi spiegò la ragione del ricorso del popolo di Vedano di cui sopra è parola, e per me fu spiegazione esauriente.