Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 47 - 18 novembre 1911.pdf/5


il buon cuore 373

Tutto ci parla quaggiù. Lo stesso silenzio — disse il poeta — talvolta è un inno, ma questa voce è vaga, incerta per l’orecchio che la deve raccogliere: manca alle volte la parola che fissi la voce del creato, della natura.... senza le note si perde il ritmo che freme nello spirito, senza la parola si perde il grandioso ritmo del cosmos.

Occorreva la parola. Venne da Dio. La religione ce la svela. Grandiosa voce della religione, che si fece udire in tutti i tempi, sino agli estremi confini della terra, dalle più superbe metropoli al tugurio del povero, dagli ampli palazzi alla tenda, al tucul del selvaggio abitator del deserto, della foresta!

S’inchinarono i popoli — felici loro! — a quella voce, alla voce di Cristo, il profetato, l’annunciato dal profeta del deserto.

S’inchinarono i popoli — felici loro! — e n’ebbero civiltà, progresso, fraternità.

S’inchinarono i popoli — felici loro! — cessò l’egoismo in terra, l’odio, le gare disoneste.

S’inchinarono i popoli — felici loro! — e levato il lor capo videro i cieli, scoprirono una seconda, una miglior vita; scoprirono non la materia dissolventesi e passeggera, trovarono l’ideale, la vita eterna.

S’inchinarono i popoli — felici loro! — raccolsero non i triboli e le spine, raccolsero la felicità.

Banditore di questa voce è il sacerdote di Cristo. Dalla viva sua voce apprese il suono di giustizia, di libertà, di verità e corse i popoli interi perchè si svegliassero dal sonno di morte alla voce di vita. Per ogni dove generosamente quella voce — a mezzo della Chiesa — dei sacerdoti essa risuonò: nel tempio, nelle piazze, nelle arti, nelle scienze, nella libera voce, dei giornali che la stampa scarica ogni giorno. Come mai fu raccolta questa voce?

Parla il sacerdote: la sua semplice parola è raccolta dalla vergine pia, dalla vecchierella cadente, dall’uomo a cui l’età fugò l’ardor delle passioni, dal vecchio uso ai casti pensieri della tomba.

Parla il sacerdote: verso di lui l’ingiuria villana dell’operaio, l’odio verso di lui, il sorriso beffardo dell’uomo d’affari; verso di lui la benevola compassione del giovane signore che passa veloce, elegante, che apprezza quella voce per gli altri, la disdegna per sè.

Parla il sacerdote: al vibrar della sua voce freme d’amor nel suo cuore, all’amor di Cristo unisce l’amor dei fratelli che gemono in povertà, che soffrono fra gli ori ed i comodi, di tutti.... Chiede che l’amino, che lo abbiano a seguire dietro l’orme luminose di Cristo, della Chiesa.... L’urlo lo osteggia.... il popolo preferisce la voce delle proprie passioni, di chi lo adula, di chi lo avvince di catene d’oro.

Il sacerdote?... vox clainantis in deserto.

B. R.




La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.



Origine d’un curioso ricorso al Protomartire

Forse chissà in quanti altri paesi, certo a Vedano al Lambro, poco oltre Monza, quando una siccità ostinata minaccia e i raccolti e la salute pubblica, si ricorre, con tridui solenni, all’intercessione di S. Stefano patrono di quella parrocchia, perchè cessi il flagello. Non ricordo più con precisione l’anno, ma, ancora fanciullo, una estate terribilmente calda accompagnata da una siccità lunga, di cui nulla lasciava presagire la fine — non lontano annunzio di temporali, non una nuvoletta diafana come una sfumatura nel plumbeo cielo, non una di quelle reazioni metereologiche determinate dall’aumentarsi di elettricità in eccesso nell’aria tutta satura. — A Vedano si ricorse al rimedio che una lontana tradizione degli antenati aveva lasciato in eredità: ad un triduo solenne a S. Stefano. Io, pur non avvezzo alla disciplina del ragionare secondo le regole della logica, trovavo un po’ inesplicabile quel ricorso, non vedendo un rapporto tra la grazia che si impetrava dal cielo e l’intercessore messo di mezzo. Pure, a malgrado della mia precoce saccenteria, in quell’occasione cadde — proprio al terzo giorno del triduo — una pioggia torrenziale e ristoratrice.

Inutile dire che fu la benvenuta per tutti e anche per me. Ma il rapporto tra la pioggia e il Protomartire restava sempre un enigma insoluto, mi faceva nodo alla gola; tuttavia, pur senza perderlo di vista, me ne disinteressai; tanto, non era cosa di vitale importanza e d’altronde non speravo più di spiegarmelo.

Quando, nello scartabellare vecchi libri della Biblioteca Ambrosiana per determinar bene l’antichità del culto a S. Stefano, mi cadde sotto gli occhi ciò che avevo disperato di trovar mai: la spiegazione del rapporto tra la pioggia e S. Stefano.

Sappiamo tutti che il Protomartire, dopo un suo famoso discorso, irrecusabile, ma appunto perciò esasperante al sommo pei Giudei, venne trascinato fuori di Gerusalemme e lapidato (Act. VII, 57). Sotto l’imperatore Onorio (395) un cotal prete Luciano, per monito avuto in sogno da parte di Gamaliele, persuase il vescovo di Gerusalemme, Giovanni, di far ricerche per ritrovare i resti di S. Stefano, Gamaliele istesso, Abibone e Nicodemo e dar loro più degna sepoltura. Difatti, al luogo indicato a Cafargamala, vicino a Gerusalemme, le ricerche ebbero pieno esito, colla contro. prova di strepitose guarigioni di ammalati che risanarono sul posto. Quando si fece la traslazione di quelle sacre reliquie, una copiosa pioggia cadde ad inaffiare la terra inaridita per lunga siccità, a premiare tanto atto di pietà di quegli abitanti e — se volete — in ricambio forse della pioggia di sassi che i loro padri quattro secoli prima avevano rovesciato sul santo giovane diacono, per quanto bello come un angelo; giacche le vendette dei Santi sono tali. Da quell’epoca non si smise più di tributare a S. Stefano un culto eccezionale, commemorando il 3 di Agosto lo scoprimento o Invenzione delle Reliquie, e il 26 la Traslazione da Cafargamala alla Chiesa di Sionne. Di là