Il buon cuore - Anno X, n. 23 - 3 giugno 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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L’ESPOSIZIONE TRAGICA


(Continuazione e fine, vedi n. 22).


A chi rivive lo spettacolo straordinario più interessante riesce, sicuramente, l’atmosfera, nella quale esso si svolgeva; una atmosfera, fatta di alternative drammatiche, di ombre fosche e di inebrianti sfolgorii di luce. Qualche cosa di misterioso pesava sulla Francia e si traduceva, tra gli splendori del regime, in una terribile aspettativa.

Dall’altro lato del Reno, una potenza fresca sembrava impaziente di sollevarsi contro l’egemonia francese. Ella aveva provato contro l’Austria un anno prima, a Sadowa la forza leonina dei suoi artigli giovani; ed ora, alla vigilia della pompa imperiale, accennava minacciosa. Il primo aprile, giorno dell’apertura dell’Esposizione, gli animi sono invasi dall’angoscia d’un urto fatale. Bismark aveva incoraggiato sott’acqua Napoleone III a mettersi per una via imprudente, a lavorare per ottenere l’annessione alla Francia del Lussemburgo. Ma ecco, che nel momento, in cui la cosa sembra fatta e la cessione da parte dell’Olanda un fatto compiuto, il cancelliere di ferro leva il pollice e lancia un veto provocatore, come per invitare alla lotta. Appunto quel giorno, nell’ora stessa, in cui al campo di Marte, Napoleone III pronunciava il suo discorso inaugurale, si discuteva a Berlino, in seno al Reichstag un’interpellanza sulla questione lussemburghese e dalla risposta di Bismark dipendeva l’alternativa della guerra o della pace. E da due giorni, anche le ansie dei fedeli della monarchia imperiale si raccoglievano intorno alla reggia di Saint Cloud, ove giaceva, gravemente ammalato, l’erede stesso della corona, Vittorio Napoleone, il giovanetto promesso ai colpi delle zagaglie barbare. Dal Messico, infine, ove la Francia aveva spedito con Massimiliano d’Austria, i suoi soldati, eran giunte notizie vaghe di disastri e di ruine.

Ma aprile passa, e maggio apre gli animi alla gioia immoderata. L’orizzonte politico è, infatti, rasserenato. La Prussia è tornata pacifica, la questione del Lussemburgo è risoluta, Bismark e il vecchio re Guglielmo fanno, anzi, annunziare ch’essi verranno a Parigi a visitare l’imperatore. E con loro verrà un altro nemico sospettato della vigilia, lo Czar. La salute rifiorisce sul volto del principe giovanetto a Saint Cloud. E gli echi incerti di un successo delle armi francesi bastano a rasicurare gli animi anche sui misteri lontani del Messico.... Tutta una coorte brillantissima di principi s’annuncia prossima a giungere a Parigi.... Allora la gioia esplode; le feste, le danze, i ricevimenti solenni s’organizzano, e la società imperiale s’abbandona all’inclinazione della propria natura, e tutto il suo fondo caratteristico appare. Nessun periodo, infatti, più di quello, giovò a rivelare l’antimonia morale che governava la Parigi mondana del secondo impero, nessun periodo pose meglio in luce i contrasti di quella folla splendida, affascinante, che ispirò ad Enrico Hello pagine apocalittiche, e al Weingartner la grazia tenera dei suoi pastelli e delle sue corti d’amore. Folla strana, difficile a ritrarsi perchè terribilmente complessa, perchè nessun’altra, io nessun’altro secolo, fu più volubile, né si scosse con pari entusiasmo così all’evocazione delle creature di Shakspeare come a quella degli eroi comici dei vaudevilles di Labiche. E nessun’altra nemmeno confuse, così strettamente, il piacere all’esercizio della carità ed alla serietà più grave, la vanità più sfrenata. Quella società delle Tuileries — in mezzo alla quale la semplice austerità di Clotilde di Savoia, passava come un tacito biasimo — amò la vita, ne usò e ne abusò. Ma, sfiorando gli abissi senza cadervi, seppe anche accumulare tesori di attività laboriosa, e seppe anche piangere sui mali sociali in certe ore: Parigi deve a lei sola la maestà edilizia di capitale, e tutta una fioritura di opere e d’istituti pii sgorgarono dal seno di lei.

Così, passato l'incubo d’aprile, Parigi non pensò ad altro che a godere dell’attimo fuggente. E dal maggio al giugno l’Esposizione favillò in un turbinio festoso. La statistica registrò dieci milioni di visitatori, cinquantamila espositori, e cinquantasette capi di Stati, venuti per ammirarla. Ma alla fine della prima settimana di giugno una nuova nube: lo Czar Alessandro II, reduce con Napoleone dalla rivista magnifica delle truppe a Longchamps, è fatto segno ad un attentato. La palla del revolver del polacco Berezowski ferisce un cavallo della sua scorta d’onore. Le dimostrazioni clamorose dei parigini per la Polonia l’avevan preceduto.... E l’ospite potente e temuto riparte fosco, meditando non si sa che cosa.

L’episodio, tra lo sfilare incessante di nuovi cortei sovrani, è dimenticato; il ritmo inebriante delle danze ripiglia. Ed ecco, alla fine di luglio, il telegrafo reca le notizie fulminee della catastrofe del Messico, la più terribile sconfitta della politica imperiale. Centinaia di vittime francesi sono scomparse, un maresciallo di Francia è stato messo in fuga, e Massimiliano d’Austria è stato fucilato....

Nuova tregua alle pompe ufficiali, poi l’arrivo del Sultano di Turchia col suo harem, fa di nuovo rifluire, frenetica la vita. Le preoccupazioni militari si confondono alle aspirazioni umanitarie; nelle vetrine dei librai del boulevard appare un volume pessimista del generale Trochu — il futuro difensore di Parigi, assediata — che denuncia la debolezza dell’armata francese. Ma i parigini s’arrestano più volentieri innanzi ai manifesti giganteschi con cui s’annunzia, alle cantonate, la prossima convocazione d’un congresso internazionale della pace.

L’arrivo di Francesco Giuseppe, quando la diplomazia francese si volgeva già all’Austria per averla nell’oscuro avvenire, alleata, contribuisce a riaccendere gli ardori festosi. Ma Bismark veglia ed agita le acque. Ora, i preparativi militari della Prussia appaiono più evidenti. Napoleone III corre a Vienna quasi per [p. 181 modifica]affrettare l’alleanza, ed al ritorno pronuncia a Lilla un discorso in cui parla, enigmaticamente, di «punti neri».

Siamo a novembre: Parigi si spopola, e nella capitale, tornata triste, l'Esposizione si chiude. E per le vie attonite, il cannone mostruoso di Krupp ripassa, e valica la frontiera.... Tra le gole dei Vosgi la tempesta scrosciava.

Domenico Russo.

La cappelletta de montagna



Denanz alla mia casa de campagna,
Che la gha a destra i scimm del Resegon,
S’alza su dritta e verda ona montagna
Che la finiss in forma de torrion.
Ghe balla semper sora on nivolin
E i montagnee la ciamen San Martin.

In alt, asquas vesin alla soa vetta,
Se luma on pontin bianch cont on teccett;
Stoo pontin bianch l’è pwu ona cappelletta
Fabbricada intramezz a on bel boschett.
Alla Vergin s’intend l’è dedicada
E per rivagh se fa ona gran sudada.

Mi disi gran sudada perchè on dì
Che pian pianin hoo faa sta ascensionetta,
Me sont trovaa tutt masaraa ancami
Quantunque gh’abbia minga de panscietta,
Ma quand che soni staa su e respirava
Sentiva che quaicoss me consolava.

L’era l’arietta fina dell’altezza?
L’era el silenzi che lassu incombeva?
L’era dell’atmosfera la purezza
O el panorama che denanz ghaveva?
Fatt l’è che stand lassu in contemplazion
Godeva el coeur, godeven i polmon.

Quand hoo poduu capì che i mè quattr’oss
Dopo on quart d’ora de vess staa settaa
Se seren miss a post coni el riposs,
Allora attentamene hoo esaminaa
La costruzion de quella cappelletta,
E l’hoo trovada solida e perfetta.

Sul mur, ona Madonna ma ben fada
D’on pennell de pittor no de sbianchin,
La se vedeva in fond ben ripa rada
Che la tegneva in brasc el so Bambin;
Denanz pendeva giò na lucernetta
Che dondolava ai soffi dell’arietta.

On beviroeu coll’oli e col stoppin
In quella lucernetta saraa dent
Eren assee de mantegnì on lumin
Ben pizz, anca al soffià di gran stravent.
G’hera scritt sul vedrin della lucerna:

«Ave Maria — Requiem eterna».


Intant che s’era lì raccolt e quiett

Mì senti pocch lontan on fracassin
E vedi ona tosetta col gerlett
Che la vegneva da on sentirolin,
Propi on strafui che a giudicalla a spann
Fors la rivava minga ai vundes ann.

Coi pe, coi brasc e coi gambett biottinn
La camminava svelta e con franchezza
Sui sass e sui ortigh senza sentinn
Ne dolor ne spongiud, ne la stanchezza;
La cantava do strof imparaa a scoeula
Cont on vosin grazios de parascioeula.

Vedend sta ravanella inscì soletta
Hoo minga poduu a men d’interrogalla:
Ghe disi donca: «fermett chi tosetta
«E tira giò el gerlett che te ghee in spalla».
Senza guardamm e senza damm all’à
La se mete in genaucc adree a pregà.

Bisognava vedè quell quadrettin
Che forza ch’el ghaveva d’espression.
Vedè l’atteggiament de quell tosin
Con fiss alla Madonna i bei oggion,
Tant che a sentina a di l’Ave Maria
Hoo innalzaa con la soa, l’anima mia.

Quand la finii la bella orazionetta
Ghoo ditt: «ma brava! Toeu stoo palancon».
Lee l’ha ciapaa e la miss in la cassetta
Che la pendeva in mezz a duu pilon,
E la me dis a pian sta pigottina
«L’hoo daa per caritaa alla Madonnina».

E via la va col so gerlett in spalla
Coi so gambett e i so pescitt biottent,
La soa canzon la torna anmò a cantalla
Perchè la gha el corin pussee content.
Commoss hoo diti, guardand la cappelletta:
«Madonna proteg ti quella tosetta».

La cappelletta de montagna o geni
Se a vedella dal bass l’è on pontin bianch
Asquas perduu, che ghe femm nanca meni,
Per quii lassù che sgobben l’è nient manch
Che on delizios ricover, on ristor

Del corp, dell’anima, di so dolor.

Federico Bussi.


Il Cardinale visita le carceri di S. Vittore

L’eminentissimo Cardinale arcivescovo, accompagnato da uno dei suoi segretari, si recò al carcere cellulare in piazza Filangeri per portare ai poveri colpiti dalla umana giustizia la parola del conforto. Alla porta era schierato il picchetto armato, che rese gli onori dovuti all’eminentissimo pastore, il quale fu ricevuto dal [p. 182 modifica]direttore cav. Codebò, dai membri della direzione e dal cappellano, mons. Barbavara.

Com’ebbe dato uno sguardo ai raggi, o corsie, del carcere parati a festa, il Cardinale s’inoltrò verso il centro ove sorge l’altare. Quivi vestiti i sacri indumenti, celebrò il Santo Sacrificio. Intanto un detenuto, avanzatosi, lesse il seguente indirizzo:

«Pastore Eminentissimo,

«In Naim, la piccola città di Galilea dominata dall’Ermon e vigilata dal Tabor sacro e maestoso, nella serena tranquillità di un vespero, passa Gesù coi discepoli, seguito da una gran turba di popolo. Passa, e vicino alla porta della città s’avanza un corteo triste: è l’unico figliuolo d’una vedova che viene portato cadavere a sepoltura. Lo segue disperata e piangente, la misera madre; e il Signore, vedutala e mosso a compassione, le dice: «Non piangere»; poi avvicinatosi alla bara, grida: «Giovinetto, dico a te, levati su!». Ed ecco che il morto si alza, e comincia a parlare. Gesù lo aveva reso a sua madre.

«Oggi questo affettuoso miracolo del Signore voi qui rinnovate, o Pastore eminentissimo. Noi miseri e tristi, fuorviati dal sentiero del bene, andiamo gemendo ore penose: quelle del pentimento e della espiazione; e, mentre aneliamo a quella vita che sotto il peso di una riprovazione, sentiamo ora perduta, noi pure seguono e piangono madri e sorelle e spose e figliuoli, il cui affetto strazia e sospira.

«Or ecco che, in questo doloroso momento, quando il periglio dello sconforto e quello di propositi errati stan contro di noi, Voi, principe eminentissimo, di noi mosso a compassione come un giorno Gesù di quella povera madre piangente, venite qui e, nella silente casa del dolore, con la autorità che vi viene da Cristo, col fascino sublime che emana da ogni atto di carità santa, Vi degnate portarci il conforto ineffabile della parola divina.

«Deh! colla stessa generosità affettuosa del Divino Maestro largiteci ancora un ausilio sicuro: la pastorale benedizione, e invocate grazie celesti sopra di noi, sulle nostre famiglie, su tutti coloro che, in questo luogo, adempiendo una missione difficile e nobilissima, presiedono, guidano, consigliano al bene!

«Oh potessi, come vorrei, riassumere in una parola e in un palpito solo il sentimento di riconoscenza ch’è oggi nel cuore di tutti i miseri che piangono qui, per rivolgerlo a Voi, eminentissimo presule, effuso in un ringraziamento solenne!

«Oh gradite espressione di questo sentimento, Eminenza! Nell’umile grazie che io vi porgo è il pianto, è il pentimento, è l’anelito, son le speranze di mille cuori e di mille pensieri, ai quali oggi siete venuto a dischiudere, in una mirabile visione di cielo, le promesse sicure del Redentore del mondo!»

L’eminentissimo al vangelo, rispondendo all’affettuoso indirizzo letto dal detenuto a nome dei suoi confratelli, si chiamò lieto di essere fra i poveri detenuti, per confortarli, consolarli col pensiero della fede, della speranza, dell’amore. Fece rilevare che anche nel carcere essi possono riabilitarsi verso la società e la famiglia, aspettando la liberazione se innocenti, portando in pace, come espiazione, le dure discipline imposte loro dalla giustizia. Conchiuse ringraziando e congratulandosi col direttore per l’ordine col quale trovò disposti i detenuti.

Il discorso del Cardinale fu ascoltato con edificante raccoglimento dai poveri detenuti, acconciamente preparati con fervore dalla benemerita Suor Pia Manzoni. Alcuni durante la Messa accostaronsi al banchetto Eucaristico e ad altri venne amministrato il sacramento della Cresima.

Finita la religiosa funzione, il Cardinale, accompagnato dal direttore e dagli altri signori addetti alla direzione, passava in parecchie celle per visitarvi i detenuti, ai quali rivolse amorevoli parole di conforto, ciò che egli fece pure inoltrandosi nelle infermerie. Nè tralasciò di salire nella cappella superiore, dove erano raccolte le donne detenute, e per queste parimenti seppe trovare accenti che tornarono per le disgraziate come balsamo ravvivante.

Quindi, ossequiato dal direttore, dal personale della direzione, dal cappellano, partì verso le 10, lasciando un’offerta pei poveri carcerati.

Giubileo Sacerdotale di Mons. Don Bernardino Nogara

All’Asilo di Carità per l’Infanzia Giovanni Bernardo Merini, Piazza Montebello, 13.15, si tenne venerdì 26 una cara e lieta festicciuola in onore di Monsignore Don Bernardino Nogara Ispettore dell’Asilo, nel giorno in cui ricorreva il cinquantesimo anniversario della celebrazione della sua Prima Messa. Dall’Asilo gli venne presentata una pergamena, lavoro, la cornice, dei bambini, con affettuosa dedica d’augurio.

Il Delegato Dott. Federico Legnani, ricordando le benemerenze di Monsignore Nogara, per la sua carità e generosità verso i poveri, e la costante benevolenza alla benefica Istituzione dell’Asilo, gli porgeva, a nome anche delle signore Visitatrici, l’augurio di ogni benedizione.

I bambini diedero saggio di lavori manuali, di poesie, di canto diretto dal maestro sig. Mojoli, eseguendo vari esercizi, la giostra, ed un’azione militare di grande effetto che destarono l’ammirazione degli intervenuti, mostrando con quanto cuore e pazienza siano istruiti dalle brave Educatrici meritevoli d’ogni elogio.

Assistevano alla festicciuola il Presidente degli Asili Ing. Cav. Uff. Enrico Marazzani, le benemerite signore Patronesse dell’Asilo, il Cav. Antonio De Lorenzi Vice Direttore dell’Asilo Infantile d’Intra, il Preposto di S. Francesco da Paola Don Giovanni Schenone, il Prefetto del Santuario di S. Celso Don Achille Farinelli, Cav. Don Giulio Cantù Parroco di Corte, ed altre egregie persone che s’interessano dell’Opera Pia.

Tutti i bambini ebbero da Monsignore Nogara un gentile ricordo. [p. 183 modifica]

Il Marchese ERMES CARLO VISCONTI

A 76 anni, dopo lungo periodo di penosa infermità, è spirato cristianamente il Marchese Carlo Ermes Visconti di S. Vito. Era una nobile e simpatica figura del patriziato milanese. Dotato di mente eletta e di cuore animato dai più generosi sentimenti, largamente istruito e sospinto sempre dal desiderio di giovare colla sua operosità al bene del paese, dedicò tutta la sua vita alle amministrazioni pubbliche e a cospicui istituti scientifici. Fu per molti anni consigliere comunale e assessore per la pubblica istruzione in Milano, non rinnegando mai le nobili tradizioni e lo spirito religioso degli avi suoi. Anche negli ultimi tempi era membro del Consiglio Provinciale per Somma Lombardo, ed era pure presidente della commissione per lo studio del problema ospitaliero. Molti altri uffici tenne e teneva tuttavia: copriva la presidenza della società per la ferrovia Mantova-Cremona, e la vicepresidenza della società storica lombarda, nonchè quella onoraria della scuola tecnica letteraria femminile: era pure console onorario del Portogallo, consigliere dell’Accademia di belle arti, della società numismatica e della scuola superiore d’arte. Dovunque, finchè le forze fisiche e intellettuali gli ressero, portò zelo di lavoro e genialità di vedute.

Ricordiamo con devoto affetto le belle doti del rimpianto Marchese, ma ricordiamo in modo speciale la sua grande bontà, che emergeva in momenti dolorosi come la nota culminante del suo nobile cuore.

All’egregia Marchesa vedova, che ha dedicato le sue migliori energie e il suo spirito di carità ai malati dell’Ospedale Maggiore, ai figli e a tutti i congiunti addolorati, esprimiamo le nostre sincere, affettuose condoglianze.

A. M. Cornelio.


A compimento di questo cenno, pubblichiamo il seguente scritto affettuoso dell’egregia signora Adele Riva, la distinta direttrice delle scuole femminili di via Spiga:

I pochi Milanesi che ancora rimangono in questa nostra città, sono stati profondamente commossi all’annunzio della morte del Marchese Carlo Ermes Visconti, avvenuta il 30 maggio. Per i signori dell’aristocrazia lombarda, è morto uno dei primi tra loro; per gli altri è morto il protettore, il benefattore, il gran signore, parco di parole, sul quale potevano sempre contare per un consiglio, per un aiuto dato silenziosamente, ma sempre efficace.

Il Marchese era il nome che gli si dava e che pareva spettare a lui solo. E quest’uomo, schivo di ogni fasto, di ogni rumore mondano, passò lavorando sempre per il suo paese, per la sua città, offrendo tutto sè stesso, quando c’era da fare, tirandosi in disparte, quando l’opera era compiuta.

Quali fossero la sua cultura, la sua attività, la sua affabilità signorile, la sua bontà profonda, possono dire soltanto coloro che lavorarono con lui o che furono alle sue dipendenze.

Le cariche di cui fu insignito (consigliere provinciale, consigliere comunale, assessore per l’istruzione e molte altre) egli le tenne con scrupolosità grande e non se ne servì mai per salire più in alto, ma solo per giovare agli altri.

I Musei cittadini gli devono moltissimo: fu il Marchese Visconti che iniziò la prima raccolta di oggetti d’arte di memorie patriottiche, raccolta importante che ebbe sede dapprima nel vecchio salone ai Giardini pubblici. E con quale compiacenza, con quale ardore, egli si occupò a trasportare, a riordinare tutti quegli oggetti preziosi nelle sale del Castello Sforzesco, risorto a nuova vita!

Oggetti d’arte, medaglie, memorie storiche, libri attrassero gran parte delle sue cure, talchè egli potè radunare nella sua casa in Milano e più ancora nel Castello di Somma Lombardo, da lui fatto ristaurare, delle raccolte preziose.

L’austerità della vita e degli studi, come non gl’impediva di portare nell’intimità la nota affettuosa, arguta e perfino burlesca, così non riuscì a soffocare in lui la gentile passione pei fiori. Ad essi egli dedicava gran parte del suo tempo e delle sue cure durante i mesi della villeggiatura e, tornato in città, non era raro il caso che se ne assentasse per andare a vedere le sue piante.

E come Milano lo vide adoprar si con ardore per la riuscita di quella prima Esposizione artistica che si tenne nel 1881 ai Giardini pubblici e della quale dura ancora il ricordo, così lo vide dare l’opera sua per la bellezza dei nostri giardini, per la riuscita delle varie esposizioni di floricoltura.

Ma purtroppo da più di un anno egli era, si può dire, scomparso dalla scena del mondo. Colpito fulmineamente da un male che non perdona, il robusto tronco lottò a lungo, continuando a vivere prodigiosamente, aiutato dalle cure intelligenti e affettuosissime di tutti i suoi cari, che volevano disputarlo alla morte.

Tuttavia venne il momento fatale e a piangere il gentiluomo di razza, il cittadino integerrimo, l’uomo colto, generoso, modesto, siamo in molti, perchè molti si sentono legati per sempre alla sua memoria da vincoli di affettuosa deferenza, di profonda gratitudine.

Io vorrei essere l’eco delle molte voci grate nel portare al Marchese Visconti l’estremo riverente saluto, nel dire alla sua famiglia una parola di affettuoso conforto.

Adele Riva.



Ricordatevi di comperare il 29.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI che uscì nella scorsa settimana.