Il buon cuore - Anno X, n. 17 - 22 aprile 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno X, n. 17 - 22 aprile 1911 Religione

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UN SALOTTO

Edoardo Rod ha portato nella tomba un sogno: quello di rifar la storia politica della Francia, durante il secolo XIX, narrando la storia dei salotti della sua capitale. In nessun altro paese, infatti, i grandi movimenti politici ebbero per ispiratrici segrete le donne, e tra le donne quelle che potettero raccogliere intorno a sè una zona d’influenza diretta, un salotto irradiatore... Ed in nessun altro tempo il fenomeno si rivelò così chiaro come nella prima metà del secolo XIX.

Appunto di uno dei più brillanti di quei salotti parigini discorrerà in una eloquente causerie, oggi, Ferdinando Laudet. Il salotto della signora Swetchine è famoso così per le doti della donna che vi regnava, come per gli uomini che vi passarono, e che formarono, sicuramente, l’élite del cattolicismo francese durante mezzo secolo.

Russa d'origine, la signora Swetchine si chiamava da fanciulla Sofia Soymanof. A quattordici anni era stata nominata dama d'’onore dell’imperatrice Maria che, in seconde nozze, aveva sposato lo Czar Paolo I. A diciasette anni, per obbedire a suo padre, accettò la mano del generale russo Swetchine, il quale contava venticinque anni più di lei.

Un giorno, vittima d’un intrigo, suo marito cadde in disgrazia del sovrano; abbandonata la Corte ella continuò a brillare nella società mondana, dedicando, per altro, gran parte del suo tempo allo studio. Ella stessa lo ha confermato in una delle sue lettere: «L’amore del lavoro intenso ha solo confortato le lunghe ore dolorose della mia giovinezza.» La quale fu resa melanconica ancora da una lunga e penosa malattia.

Un uomo esercitò, allora, una grande influenza sullo spirito suo: il conte Giuseppe de Maistre, mandato in Russia come ambasciatore di Carlo Emanuele, re di Sardegna. Natura troppo indipendente per rendersi prigioniera delle sue simpatie, ella si disse conquistata dalla virtù e dall’altezza di pensiero dell’autore del Pape, ma non già dell’intransigenza del suo dommatismo filosofico.

Nel 1815, trascinata dalla vivacità dei suoi sentimenti religiosi, ella abiurava, dopo mature riflessioni, la religione ortodossa e si convertiva al cattolicismo. Qualche anno dopo lasciò la Russia con suo marito per andare a stabilirsi a Parigi. Aveva nella capitale francese larghe amicizie così nel corpo diplomatico come nell’aristocrazia, molti membri della quale, emigrati, in Russia, durante la Rivoluzione, ella aveva accolti generosamente nel loro esilio e che le eran rimasti riconoscenti.

Giuseppe de Maistre l’aveva, del resto, preceduta: scrivendo di lei in una lettera al visconte di Bonald: «Vedrete tra qualche giorno a Parigi, gli diceva, una dama russa che vi raccomando in modo particolare. Sicuramente voi non avrete mai incontrate tante doti di spirito e di coltura unite ad una maggiore bontà.»

Si capisce subito come, con una simile raccomandazione, dell’uomo che ebbe la direzione morale del mondo legittimista in quel primo quarto del secolo XIX, il [p. 130 modifica]salotto che la signora Swetchine aperse, ospitale, in pieno Faubourg Saint-Germain, abbia brillato subito come un centro di vita morale. Inaugurato sotto gli auspici della società legittimista, esso fu il crogiuolo, nel quale si fusero le idee e le tendenze di quel cattolicismo liberale, che durante cinquant’anni fu un elemento preponderante nella storia della Francia. I frequentatori più fedeli di quel salotto furono infatti: Lacordaire, Montalembert, l’abate di Ravignan, il padre Gratry, don Guéranger, Alberto de Broglie, Tocqueville, Falloux, Augusto Cochin.... Ma anche ci vennero sovente, la Récamier, Chateaubriand, Bonald, Cuvier, Victor Cousin, Abel de Rémusat, Molé, Radowitz e quel profetico Donoso Cortès, che merita d’essere dalle nuove generazioni di cattolici militanti, un po’ meglio ricordato.

«Quel salotto, dice Fernand Laudet, era sopratutto un centro d’amici ed un ritrovo di conversazioni. Esso aveva una fisionomia particolare in quanto riuniva persone diversissime tra loro, e per virtù e per ingegno, ma che recavan tutte nelle loro concezioni religiose qualche cosa del loro liberalismo semplice e senza alcuna bigotteria.»

Ma una pagina, gloriosa negli annali del cattolicismo francese, è legata al nome di lei, quella che narra la lotta eroica sostenuta per la conquista della libertà dell’insegnamento. La signora Swetchine ne fu l’ispiratrice tenace. Il suo biografo ne ha narrata la genesi così:

«Quando scoppiò la rivoluzione di luglio, ella, che era legittimista, se ne attristò; ma spirito presago, guardò gli avvenimenti in faccia: previde la potenza che avrebbero assunto le classi inferiori e l’interesse che il clero avrebbe avuto nel cercare il suo punto d’appoggio nel diritto comune e non più nei favori del governo. In tal senso ella incoraggiò e diresse i suoi due grandi amici Montalembert e Lacordaire e tutti quelli che appartenevano alla loro scuola.»

Quale sia stato l’esito della meravigliosa attività spiegata da quei due figli spirituali della signora Swetchine, è noto. Nel 1830 il clero francese pareva vinto; nel 1848, allo scoppiare della nuova rivoluzione, la sua condotta risoluta ed indipendente di fronte alla monarchia orleanista lo aveva circondato di tanta popolarità che un prete e un crocefisso potettero precedere il primo corteo popolare che si recava al palazzo municipale a proclamare il trionfo della repubblica.... e Lacordaire, in abito di domenicano, potette dall’alto degli scalini di Palazzo Borbone, il giorno dell’apertura dell’Assemblea nazionale, benedire alla folla raccolta in nome di Cristo.... Due anni dopo la legge, che assicurava la libertà d’insegnamento alle intelligenze, veniva solennemente promulgata.

Uno degli effetti di quella collaborazione, sconosciuta al gran pubblico, fu la pura amicizia che unì, sino alla morte, la signora Swetchine a Lacordaire. L’epistolario che ne ha immortalato il ricordo, permette d’intendere tutto il valore dell’influenza, esercitata dalla donna generosa, che il suo biografo tratteggia cosi: «Ella non cessò mai di essere una donna dalla pietà illuminata, dalle virtù più attive. Ma la sua mente non era meno larga del suo cuore.... Aveva un senso logico, profondo e sicuro; un erudizione grandissima ed una memoria straordinaria. Amava la metafisica al punto che si è detto che ella vi si tuffava come in un bagno. Ed amava anche la teologia. Sarebbe però errore rappresentarsela come una madre della Chiesa, messa a dirigere un gruppo di fedeli con la severità e rigidezza delle donne che si dedicano agli studi meditativi. Per raffigurarsela così come ella fu, bisogna dimenticare l’intellettuale e pensare solo alla creatura evangelica buona che, quasi inconsciamente, tenne la face delle anime. Queste l’amarono per aver nascosto la sua tempera austera, per aver dissimulata la sua superiorità; l’amarono per la fiducia ch’ella inspirava, per l’esempio che dava, per l’atmosfera che creava, la amarono perchè il suo linguaggio più ovvio rapiva in alto le menti....»

La signora Swetchine mori il 9 settembre 1857; suo marito, vissuto accanto a lei, nell’ombra, era scomparso cinque anni prima. Secondo le sue ultime volontà, il suo corpo fu sepolto in un piccolo cimitero di campagna ad uno dei confini di Parigi, all’ombra della chiesa di San Pietro di Montmartre, nella tomba ch’ella s’era fatta costruire, quando era ancora in vita.

Colà, riposa, in alto, oltre il tumulto della città babilonica, nel piccolo canto della necropoli deserta, abbandonata, dal suolo lastricato di quadrelli spezzati, e di frammenti di pietre sepolcrali, cadute in rovina. Due blocchi di granito, protetti da una balaustrata di ferro irruginito, indicano il luogo dove riposano la signora Swetchine e suo marito. Vi si leggono ancora l’epigrafe del generale, ma quella della signora Swetchine, cancellata dal tempo, è indecifrabile. Ma il culto per la memoria di lei dura ancora; ancora si sgranano, infatti, sulla sua tomba le perle delle corone che, da mezzo secolo, delle anime sconosciute vengono a deporvi; ancora mani ignote fan piovere sulla fredda pietra le corolle multicolori....

Domenico Russo.


ROMA NEL 1871
IMPRESSIONI DI VIAGGIO


......Nel settembre del 1871 si fecero i preparativi d’un viaggio a Roma e Napoli — era la prima volta che mi recavo a vedere quelle città, e ne avevo grande desiderio. — Passati due giorni per riposare a Firenze, si parti per la via di Perugia e Foligno. Quando si cominciò ad attraversare il piano ondulato della campagna romana, provavo un sentimento di attesa, come di qualcosa di straordinario; fra poco avrei visto Roma!... Passando contemplavo i larghi meandri del Tevere, e nei prati i buoi bianchi dalle grandi corna, che ruminavano, a mezzo sepolti nelle erbe. A un certo punto, si dice da qualcuno che si può scorgere San Pietro. [p. 131 modifica]Io mi alzo, ed appare, come una visione, una cupola azzurrognola che spicca sul cielo. E là è Roma!....

La sera dopo il nostro arrivo, andammo in Piazza Colonna dove la musica suonava un concerto; la marcia trionfale dell’Aida di Verdi. Splendeva la luna, e illuminava i bassorilievi della Colonna Antonina; le parole scolpite sul piedestallo dicevano il nome dei popoli vinti; ed io ripensavo alla grandezza di quella stirpe famosa!

......Non rifarò la descrizione delle visite coscienziose alle gallerie del Vaticano, alle Loggie di Rafaello, alle rovine del Foro e del Colosseo. Le memorabili raccolte di capolavori d’arte, le antichità, gli edifici sacri sono il patrimonio del mondo intero, ma l’impressione che ne ricevevo era talvolta minore, talvolta maggiore di quella convenzionale ed imposta, direi, dall’abitudine e dal giudizio altrui. Ad esempio, la Basilica di San Paolo, edificio degno di Roma antica, rifatta nel 1823, a cinque navate, viene da molti paragonata a una grande sala da ballo, e non ritenuta abbastanza raccolta pel culto; a me piacque assai, ed ammirai quella selva di grandiose, bianche colonne che sorreggono il soffitto ricco d’oro, e si riflettono, come in uno specchio d’acqua, nel pavimento lucidissimo di marmo; quel tabernacolo sostenuto da quattro pilastri d’alabastro orientale, quegli altari di malachite, quella magnificenza insuperabile....

......Quando visitammo le Catacombe di S. Calisto, un malinteso spavento mi tolse alla gravità dei pensieri che avrebbero dovuto occuparmi. Si era parlato della paurosa leggenda d’una camerata di seminaristi che avventuratisi senza la guida in quel labirinto, si erano perduti e là entro miseramente periti. Il capo custode che ci accompagnava allo scendere, occupato altrove, consegnò la nostra comitiva ad un giovane, che disse essere suo nipote. Questi pose in mano ad ognuno un moccolo acceso, e dietro a lui ci avviammo per quelle tetre gallerie. A un tratto, mi viene in mente di chiedergli se conosceva bene la strada, ed egli mi risponde serio, senza voltarsi «Non vi sono stato mai!» Io mi sentii gelare, quando egli ridendo riprese «Eh! non farei questo mestiere!» Ebbi torto nel fargli quella domanda, ma l’impressione di paura bastò a disturbare le mie idee, finchè non uscimmo alla luce.

.......Un altro giorno ci recammo alle Terme di Caracalla. Mura e volte alte come montagne, sotto alle quali, fra le macerie, si stanno scoprendo pavimenti a mosaico che sembrano fatti da ieri, e cornicioni elegantissimi, e colonne di marmi preziosi. Queste Terme furono per secoli le cave di pietra dei Principi Romani, che ornavano i loro palazzi di quanto vi trovavano di meglio.....

.....Dopo qualche tempo, per riposare dalle faticose impressioni dell’arte, ci recammo ad Albano. La ferrovia percorre la campagna, sparsa di rovine, gli acquedotti la fiancheggiano per lunghi tratti, e da lontano alla destra si vede il mare, a sinistra s’innalzano i monti della Sabina. Passando sotto la volta di piante secolari, abbiam veduto i solitari laghetti d’Albano e di Nemi, e traversato il grandioso ponte dell’Aricia. Fu una gita poetica e deliziosa.....

(Dai Ricordi di Giulia Carcano Fontana.)


Nota. — Questi frammenti d’un manoscritto inedito della compianta gentildonna, vedova di Giulio Carcano, vengono dalla famiglia dedicati ai parenti ed agli amici, nel quinto anniversario della sua dipartita (22 aprile 1906).

Per l’ordine e il sorriso della casa



«Focolare domestico», «vita di famiglia», «maternità»: parole ricche d’espressioni, risplendenti di verità e di realtà, evocatrici della poesia più umana, più universale e meno chimerica, parole forti e commoventi, che giungono alle nostre orecchie vibranti di una sonorità tradizionale e divina, e che appaiono sempre e sotto tutti i cieli come impregnate di felicità!... Ma che sono esse tuttavia, che diviene della bellezza e della bontà, individuali e sociali, ch’esse indicano ed esprimono, se la donna è una negligente o una ignorante, se non conosce affatto o non conosce più il suo magnifico e difficile mestiere di donna, se il compito che le incombe ad ogni ora del giorno la opprime e l’annoia? Il valore e la virtù della donna non sono solamente la fortezza e la vigilanza, è il saper fare, è il metodo. Organizzatrice della casa, guardiana del focolare, direttrice pratica della famiglia, essa deve toccare un grado sufficiente di perfezione per essere sempre la dispensatrice del benessere e della pace. Essa deve saper compiere con facilità, con arte, con gioia — e insieme con un’alta nobiltà morale — tutto questo insieme di piccoli e di grandi atti quotidianamente ripetuti, incessantemente variati, semplici, delicati e molteplici, che sono la sua vita.... e la vita degli altri.

Lavori modesti, che recano forse meno di noia e che sono senza dubbio meno facili di quanto non si sopponga! La vita della massaia è un’opera scelta, che è fatta d’amore e di arte. Tutti i minimi atti sono, per così dire, incolori: ma sono le loro tonalità monotone e grigie che si sovrappongono e si mescolano per creare la tinta armoniosa delle buone giornate, e per dare altresì un certo risalto alle annate felici!

Molte donne dedicarono i loro sforzi e talora tutta la loro vita per sviluppare la scienza razionale e la pedagogia teorica e concreta dell’attività domestica, delle quali riconoscevano tutta l’importanza teorica e pratica. La donna infatti può essere la migliore collaboratrice dell’opera intrapresa dagli igienisti contro l’alcoolismo, la tubercolosi e la mortalità infantile. È la donna che trattiene a casa quando lo voglia, il marito e i figli, creando loro un ambiente piacevole e gradito [p. 132 modifica]al loro ritorno dal lavoro. Eh! come! cucina e rattoppo avranno dunque una così meravigliosa e intellettuale influenza? Certo, l’insegnamento domestico è destinato a esercitare uno dei compiti più importanti e attivi. Qualora esso fosse diffuso nelle nostre scuole elementari e adattato ai vari centri, dandogli carattere di volgarizzazione, semplice, pratico, guadagnerebbe le famiglie pei servizi resi ai fanciulli. Nè si conosce ancora abbastanza, a questo riguardo, come l’introduzione dell’insegnamento in questione può contribuire a fortificare l’influenza della scuola, dell’istitutrice. La cucina, associandosi alla scuola, le assicura influenza ed espansione. La clientela s’accresce colà dove l’insegnamento domestico s’organizza. La clientela verrà là dove si saprà che la scolara impara a divenire padrona di casa, riceve lezioni d’igiene, d’economia domestica, s’inizia alla scelta e alla preparazione degli alimenti. Centri operai e centri rurali, sono presto guadagnati a questa propaganda, perchè si prova così che nella scuola laica si sa sposare l’educazione all’istruzione.

La scenza della massaia è, invero, una di quelle la cui conoscenza s’impone alla donna che vuol compiere i suoi doveri di sposa e di madre, cioè i suoi doveri di stato per eccellenza. Essa deve essere, agli occhi dei cristiani, una seconda ragione — sufficiente da sè sola — per lavorare alla diffusione dell’insegnamento domestico. Tale diffusione nei centri operai potrà essere un rimedio efficace contro l’alcoolismo e, in una certa misura, contro la miseria e la demoralizzazione; perchè il cattivo modo di tenere la casa, invero, incammina il più delle volte l’operaio verso la depravazione.

Lo studio del mestiere di madre e sposa costituisce l’insegnamento domestico, che non è lo stesso dell’arte culinaria. La scienza domestica comprende tutti gli elementi che hanno delle funzioni nella vita quotidiana e nell’economia domestica. Per dire che ci s’intende della cosa non basta solamente saper preparare un piatto di carne o qualche dolce, ma occorre altresì conoscere i principî dell’igiene, saper curare i feriti e i malati, saper tenere i propri conti, essere abbastanza esperti nel bucato, nel rammendo, nel cucito, e in quelle mille piccole cosine, che si pagano talora assai care a chi le confeziona.

La contessa R. de Diesbach ebbe il coraggio, senza falsi pregiudizi mondani, di mettere le mani in pasta — mai l’espressione sarà così esatta, perchè si trattava d’insegnare la cucina. Essa andò nel Belgio, dove tale insegnamento è bene organizzato, come in Svizzera — e come tutte le allieve prese parte agli esercizi pratici facendo il bucato e rigovernando gli utensili di cucina. Esempio d’una vera devozione, degno d’esser proposto alle persone il cui maximum di sforzi fa capo all’organizzazione d’una festa di carità. Questa gentildonna ha dato due lezioni di cose: che se si vuole esercitare un’influenza, bisogna render dei servigi, e in secondo luogo, per pretendere una funzione dirigente, non basta più il nome, ci vuole la competenza.

Tornata a Parigi, dopo aver seguito il corso governativo belga di Wavre (1901), che dà diplomi di maestre ménagères (su 5o allieve, vi erano 22 religiose), essa creò a Parigi un corso normale di scienza delle massaie, all’uso belga; esso dura un mese e mezzo. Per l’ammissione non occorre che il diploma elementare; le allieve lavorano dalle 8 alle 17, quattro giorni su sei della settimana, e ricevono 160-170 lezioni al dì. Dopo sei settimane, le allieve-maestre ritornano nel loro antico centro e cercano d’applicare ciò che fu loro insegnato. Esse rimangono però in relazione col centro intellettuale; delle composizioni mensili sono inviate loro per mezzo della rivista l’Enseignement ménager, che fa giunger loro con un nuovo tema di studii la correzione dei precedenti. Gli esami hanno luogo sei o otto mesi dopo la fine del corso normale, e sono perciò assai difficili.

L’insegnamento domestico si può dare isolatamente nei patronati, o in iscuole apposite. Si utilizza, nel primo caso, qualunque fatto, spiegando prima il lavoro che si deve fare, perchè l’azione meccanica delle dita sia l’applicazione d’un pensiero suggerito. Così si sviluppa nelle fanciulle il gusto delle cose domestiche. Invece nelle scuole ménagères, si cerca di far comprendere, prima della pratica, i principi teorici della scienza omonima.

Ma, si obietta: volendo fare quanto ci suggerite (e badiamo che l’inverno e la primavera sono le epoche migliori), incontriamo certamente delle spese non indifferenti e allora.... eccoci al solito problema.

Ritengo, per qualche esperienza, che le spese non siano così gravi. Anzitutto il locale, che dev’essere semplice come è la casa dell’operaio. Poi il materiale; niente di più di quanto non si trovi nella casa paterna. Un fondo di quattrini, che dev’essere poco considerevole. Si calcola 30 centesimi a testa al massimo: minestra con legumi, carne fritta o allessa, e legumi.

La scuola ha numerose succursali a Parigi e nella Francia. In Germania, le scuole più celebri sono Grosshesshole, presso Munich; a Limbourg, a Schwetzingen, a Marienfeld presso Berlino, a Strasbourg. In Svizzera l’insegnamento domestico deve il suo rapido sviluppo alla Sociétè d’utilité pubblique des Femmes Suisses che nel 1895 accordò un sussidio a queste scuole.

Le scuole d’economia domestica, propriamente dette, durano 5 mesi; la tassa è piccola, e vi sono posti gratuiti per le più povere. L’insegnamento è sopratutto pratico di cucina e di faccende domestiche. I lavori sono divisi fra le allieve in due squadre alternate, e ad ogni lavoro precede l’insegnamento teorico. Le allieve devono prendere i loro appunti.

Le scuole di donne di servizio furono create in Isvizzera e ottennero un grande successo. Sotto la diligente ispirazione di Georges Pithon, nel Canton di Friburgo, l’insegnamento domestico è obbligatorio. Il programma è assai esteso e comprende l’economia domestica, l’igiene e la cucina pratica. I posti devono essere continuati dalle allieve. Le maestre sono laiche e talora religiose. Molti istituti privati (conventi) hanno tali scuole. Ed è il governo cattolico di Friburgo, che, alla pari di quello belga, fece tutto ciò! Codesto depone per l’oscurantismo clericale....

Nel 1908 si ebbe a Friburgo (27-30 settembre) il [p. 133 modifica]primo congresso internazionale dell’insegnamento domestico. E congresso riconobbe che esso è un’arma contro la tubercolosi; una buona massaia, conoscerà il pericolo che minaccia il suo focolare e i mezzi per combatterlo e allontanarlo; essa conoscerà l’ufficio di una alimentazione razionale, l’influenza dell’aria, del sole, della nettezza. Esso è pure un’arma contro la mortalità infantile. I fanciulli muoiono a milioni durante i loro primi anni, cifra terribile, enorme, se si pensa che si tratta di piccoli esseri venuti al mondo in condizioni normali di costituzione, che non domandano che di vivere. Perchè essi muoiono? Il più spesso per l’ignoranza della madre, che non conosce le regole dell’igiene infantile e materna.

«Noi abbiamo la pretesa e la sicurezza — disse M.me de Diesbach, appropriandosi le parole di Rombaut — che sia possibile di risolvere il problema sociale solo per mezzo della donna divenuta la vera madre di famiglia, economa, ordinata, premurosa dei propri doveri.»

Parole che io, femminista convinto, sottoscrivo di tutto cuore, sussurandole timidamente alle nostre buone signore, che, con noi credono all’efficacia e al valore del Cristianesimo, quale elemento di rinnovazione sociale.

Paolo Cesare Rinaudo.


CARITA’ VERSO IL PROSSIMO



Sotto il mantello della caritate
Si debbono celar gli altrui difetti;
Ma di portare in questa nostra etate
Un tal mantel, non v’è chi si diletti.
Prima di mormorare, esaminate
Voi stessi; e se i giudizi sono retti,
Troverete che immuni voi non siete
De’ vizi che negli altri riprendete.

(Dal «Cicerone», c. X).


Per l’Asilo Convitto Luigi Vitali pei bambini ciechi


Per la festa delle ova di Pasqua


Offerte in denaro.

Signorina Adelina Demarchi |||
 L. 20 —
Signora Gigina Viganoni Benaglig |||
   » 20 —
Donna Maria Venturi |||
   » 10 —
Signor Francesco Pasini |||
   » 5 —


Signorina Matelda Cajrati, n. 30 borsette per riporvi le ova.
Signora Maria Pirelli Sormani, n. 115 ova alluminio e cartone.



La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.




ISTRUZIONE PROFESSIONALE AGRARIA


(Continuazione, vedi numero 16).



Tuttavia, è logico, e lo ammettiamo di tutto cuore, che si debba passare alla seconda parte dell’istruzione professionale agricola, al tirocinio rurale, propriamente detto, perchè, nell’ambiente famigliare, il fanciullo sarà sovente esposto a non ricevere altro che lezioni basate sulla tradizione.

Il maestro, il Sindacato agricolo, le opere locali interverranno qui opportunamente per correggere i difetti di codesto insegnamento ritardatario, per mezzo di corsi pratici e di lezioni delle cose: giardino scolastico, campi sperimentali serviranno di cattedra alle lezioni. Per una schiera scelta, si potranno aprire le scuole professionali agricole, che resero già dei grandi servizi.

L’iniziativa privata tende a moltiplicarsi. Dei circoli di studi, bene adattati ai bisogni locali, susciteranno delle iniziative agricole e svilupperanno l’educazione professionale.

Restiamo contadini! grida I. Graindorge; il circolo rurale deve mantenersi sul terreno rurale sotto pena di deviare, vivere della sua propria vita e non della vita fittizia di centri urbani. Tolto il programma religioso e morale, che dev’essere identico in città e in campagna, all’infuori di lievi sfumature, gli studi e i lavori del Circolo rurale dovranno differenziarsi specificatamente dagli studi e dai lavori del Circolo urbano. Si deve evitare di far, dei nostri contadini, dei nostalgici, sdegnosi della terra e col perpetuo malessere morboso dell’esodo verso le città surpopolate.

E sopratutto il Circolo deve sviluppare nei contadini lo spirito di osservazione, avvezzarli a guardare attorno a sè stessi. Non si immagina il numero delle scoperte che essi faranno, anche negli oggetti usuali di tutti i giorni. Metodo pratico è il distribuire dei rapporti, che i soci dovranno presentare per iscritto e su ciascuno dei quali la discussione avverrà al Circolo di studi.

All’uno si può domandare di studiar la divisione della proprietà nel suo Comune: quanti mezzi d’impiego hanno uno, due, cinque bovine? Uno, due o più cavalli? A che si darebbe la preferenza e perchè?

A un altro si può proporre un quesito sull’emigrazione: Quante persone sono partite dal Comune nell’anno decorso? Perchè? Per dove? Che fanno? Sono contenti? Ritorneranno? L’interrogato metterà cifre precise e novererà fatti di sua conoscenza. Un terzo s’occuperà della servitù: Donde escono i servi campagnuoli? A che età entrano in servizio? Quanto guadagnano? A che’età si aumenta il salario? Sono contenti? Risparmiano?

E così analogamente, si può far portare la loro osservazione sui cibi, sulle derrate, sugli ingrassi, sulle culture, sui salari giornalieri per le varie professioni rurali, secondo le epoche, ecc.

In questo modo e con questo metodo, si riesce a far amare la propria sorte, tanto più quanto meglio sarà conosciuta, e dopo averla paragonata con altre, si è giudicata non troppo cattiva. [p. 134 modifica]Ma non basta: la Scuola professionale nel vero senso della parola è altresì neccessaria, l’abbiamo detto; ma ad essa bisogna ammettere i migliori. Il Ministero dovrebbe, e il Consiglio Superiore d’Agricoltura ne stu• dierà il metodo migliore, curate il sorgere e il diffondersi di questi corsi professionali rurali. Per tutte le professioni rurali, intendiamoci, dal maniscalco, all’ortolano, al vignaiolo, al coltivatore dei campi, all’operaio forestale, secondo le esigenze locali, sorgerà una scuola piuttosto che un’altra, rispondente alle esigenze della maggioranza.

(Continua). P. C. R.

MISERERE



Misereré di me, dolce Signore,
Che salisti del Golgota la via,
Portando colla croce il tuo dolore,
Che patisti gli affanni di agonia!


Miserere di me, gran Dio d’amore,
Che fra gl’insulti d’una turba ria,
Della morte provasti il crudo orrore,
Sotto gli sguardi di tua Madre pia!


Miserere d’un cor, che nel rimpianto
Dei dì perduti, dal rimorso rôso,
E geme e langue in suo cordoglio affranto!


Le lacrime tu vedi del mio pianto....
Miserere di me, Gesù pietoso:
Salvami, deh! tu che sofferto hai tanto.

Contessa Rosa di San Marco.


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