Il buon cuore - Anno IX, n. 43 - 22 ottobre 1910/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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AMOR VERO


RACCONTO


(Continuazione, vedi n. 42).


Innanzi a una tal donna stava Rodolfo, e, benchè il cenno avuto testè da Clotilde lo disponesse assai male, parvegli ben fatto non guastare da principio le cose sue; ond’è che in tuono franco a un tempo e cortese salutando, disse così:

— La prego perdonarmi, signora, se mi presento in un’ora meno opportuna.

— Egli è infatti prestino per una visita; ma siccome ella cerca, credo, di mio figlio, così....

— Scusi, non al figlio, ma ai genitori, ai tutori di Clotilde Nelli desidero parlare, anzi la mia visita propriamente è per quest’ultima.

La signora fece un’aria stupefatta da ingannar chicchessia, non Rodolfo, che continuò:

— Nè ciò deve arrecarle meraviglia, perchè insomma io vengo a far valere un mio diritto.

— Non so di che diritto ella intenda parlare, signor mio, e l’avverto che le sue espressioni mi hanno dello strano in modo....

— Se la signora lo ignora, ripigliò fremendo Rodolfo, io l’informerò. Io amava Clotilde e la chiesi a sua madre. Questa assentì e rimise la celebrazione delle nozze a quel giorno in cui io fossi nominato luogotenente di vascello. Or questa nomina io l’ottenni da ben tre mesi; la morte della signora Nelli fu per noi una gran perdita, ma ciò non toglie che, essendosi avverata la condizione, io venga a reclamare l’adempimento della promessa.

— Ma lei, signor mio, va di galoppo! a quel che pare, le dà volta il cervello.

— Signora!

— Le gira la testa, ripeto. Una povera figliuola che piange tuttora la madre, stiamo a vedere se si lascerà trarre all’altare dal primo venuto. Mi scusi, egli ha un fare troppo buon mercato della sua sensibilità e, dico anche, delle convenienze più volgari. D’altra parte io non so quel che possano valere questi suoi diritti. Lo so che lei corteggiava Clotilde, e udii pure parlare di certi disegni in aria; ma non furono mai che disegni, o piuttosto castelli, e non credo che Clotilde stessa tenga d’aver contratto veruna obbligazione.

— Quel che pensi Clotilde lo dirà ella.

La fanciulla entrava in quel punto accompagnata dal tutore. Rodolfo si levò in piedi e pallido per l’interna commozione, risolutamente le domandò:

— Clotilde, conoscete ancora il vostro Rodolfo? Io ho mantenuta la mia promessa, volete voi tenermi la vostra? Il vostro cuore detti una libera risposta: volete essermi sposa?

— Tale fu la volontà di mia madre e tale è pure la mia, rispos’ella abbassando le sue lunghe palpebre.

In quel momento, in quell’atto che, minacciati nei più legittimi affetti, rinnovavano il patto del loro amore, i due fidanzati erano a vedere veramente mirabili. L’uno colla fronte alta e lo sguardo sicuro, quasi in atto di sfida; l’altra, colla fronte inchina, la voce commossa, vestita di modestia e di grazia.

— Ha ella inteso, signora? ripigliò tosto Rodolfo. Ora dunque io mi volgo a coloro che a Clotilde tengono luogo della madre perduta, e chieggo formalmente che le sia lasciata la libertà di mantenere la data fede.

— La si contenti, signore, rispose ironicamente la signora, che prima di rispondere ci si pensi un pochino. Se ella vuol far dei romanzi, sappia che noi abbiamo il capo ad altro, e che un tutore non può in coscienza trattare così leggermente gli interessi della sua pupilla.

E poichè Rodolfo apriva la bocca per protestare, la signora si alzò e con un certo agrume gli disse:

— Insistere per ora sarebbe tempo perduto, Signore, a giorni le si farà sapere la nostra risposta e quella meglio pensata della nostra pupilla.

A uno sguardo espressivo di Clotilde, che ritraevasi per una porta interna alle sue stanze, Rodolfo, mordendo le labbra, salutò ed uscì.

La bella coppia, rimasta sola nel salottino, continuò liberamente la conversazione.

— Questi due ragazzi, fece il tutore scotendo il capo, mi han l’aria di volersi bene davvero, e volerli disunire è tardi. Lasciamoli sposare; per Augusto non mancheranno ragazze.

— Sì, ma una dote, una fortuna bell’e fatta come questa, ripigliava la moglie, dove vuoi tu trovarla in paese?

— Certo, sarebbe un bel colpo; ma al modo che la ragazza è presa dal suo uffiziale....

— Chi sa? Augusto è un bel ragazzo, è giovane, è innamorato e le è sempre ai fianchi. L’uffiziale al primo ordine de’ superiori s’imbarcherà e non sarà la prima volta che gli assenti abbian perduta la lite. Tientelo dunque per detto: rifiuteremo il nostro assenso a Rodolfo allegando la sua professione girovaga, pericolosa, e il manco di fortuna che troppo lo dispaia dalla condizione della ragazza. Clotilde a principio strillerà, me l’aspetto; ma vista la cosa impossibile, s’arrenderà alle carezze d’Augusto.

— Ma lui?

— Chi lui?

— Rodolfo.

— Oh! sta pur tranquillo, che non vuol morire per così poco. Voi altri maschi siete ben lungi dall’avere la sensibilità di noi donne; e a un modo o all’altro vi consolate.

Davvero, nessuno avrebbe detto al mondo che la Delrio fosse una donna sensibile; ma bisogna dirlo, ognuno è sensibile a modo suo.


II.


— Signore, signor luogotenente, favorisca, si fermi, m’ascolti.

— Chi mi vuole? domandò Rodolfo rivolgendosi alla voce che gli facea tanta calca dietro le spalle. La voce [p. 341 modifica] era d’un giovine alto, biondo, elegante, ma in quel momento affannato, costernato, d’Augusto insomma il quale ripigliò:

— Venga, s’affretti; ella domanda di lei.

— Che vuol dire questa nuova commedia? disse Rodolfo indignato. E le basta ancora il coraggio di venirmi innanzi? E osa invitarmi a casa sua?

— Mel creda, signore: ella sta male, male assai e domanda di lei.

A queste parole Rodolfo finalmente capì; senz’altro cercare prese frettoloso la via che metteva a casa Delrio, pur camminando mormorava sordo fra denti:

— Scellerati! Se me l’hanno ammazzata, guai, guai a loro!

Mentre egli fa questo breve tragitto, gioverà dare un cenno delle novità che da un anno e più erano intervenute. La vecchia, sperando sempre nell’allontanamento di Rodolfo, nell’assiduità d’Augusto e nelle arti sue proprie, avea divisato di pigliare la pupilla alle buone, lasciando perfino sperare che, fornito il tempo della tutela, avrebbe potuto disporre liberamente di sè. Clotilde intanto continuava nel suo sistema di resistenza passiva, e Rodolfo, rassegnato ad aspettare, fermo però di non disertare il campo di battaglia, era riuscito a farsi nominar professore al collegio di marina. La Delrio, perduta ogni speranza d’allontanare il nemico, visto cadere a vuoto ogni suo artifizio, cangiata tattica, gittò via la maschera. A Rodolfo fe’ chiudere la porta in faccia, e a Clotilde dinunziò risolutamente che se lo dovesse levare dal cuore.

Le scene che allora incominciarono a succedere in casa Delrio sono più facili a immaginare che a descrivere. La vecchia, deposto ogni riguardo, diceva di tutto onde screditare Rodolfo; Augusto faceva la parte dell’amante tradito, disperato: la povera fanciulla era posta quasi ogni giorno a un vero supplizio. Tempestata dai rimbrotti dell’una, nauseata dalle smancerie dell’altro, desolata di non poter sostenere in nessun modo la fede del suo Rodolfo, costretta di celare a tutti il martirio che da dentro pativa, cadde in una specie di marasmo, che ben presto minacciò in quell’organismo delicato le sorgenti della vita. Soffriva e taceva; ma il pallore del volto, la macilenza, la fiacchezza della persona la tradirono. Erano tre mesi che Rodolfo non l’avea più veduta; tre mesi che la sapeva leggermente indisposta, ma non guarita. Certi sintomi inquietanti, certe parole del medico, aprirono finalmente gli occhi a’ carcerieri di quella innocente, i quali temettero di diventarne i carnefici. Il tutore, che in fondo non era cattivo, fu lui che osò proporre di appagare i voti di Clotilde, se mai questo mezzo potesse riaverla. La megera non osò far contro, e il figlio ubbidì alla ispirazione di farsi egli stesso messaggero di Clotilde a Rodolfo.

Questi giungeva sulla soglia di casa Delrio con un misto di disperazione e di furore nell’anima, che ad ogni istante minacciava di traboccare. Entrò in quella casa che pareva l’uragano; additategli dalla fante le stanze di Clotilde, vi si precipitò come cieco, urtando e stramazzando a terra, senza vederla, la vecchia Delrio, che si era a caso trovata sul suo passaggio. Passò oltre

senza badarvi, e giunto alla camera sospirata si fermò, spinse lievemente l’uscio ed entrò. Clotilde avea voluto per aspettarlo scendere di letto, e stavasene presso la finestra, piuttosto sdraiata che assisa nella sua poltrona, guardando il cielo. Rodolfo al primo vederla, s’arrestò fulminato e pensò: — Quest’ombra, questo spettro vivente è proprio lei?....

L’esile persona cadente per debolezza, il volto scarno, assottigliato, perduto quasi entro il ricco volume dei capelli, il giallore proprio della malattia di cui era tocca... la povera Clotilde non era che un’ombra di se medesima. Su quella faccia pallida, scarna, non c’era più di vivo che gli occhi, due occhi grandi, espressivi, amanti, sulla cui bellezza il male non avea potuto ancor nulla. La malattia stenta a trionfare della gioventù, sua naturale nemica; la gioventù lotta lungamente e sotto lo spietato artiglio del morbo rimane ancor bella.

Rodolfo signoreggiando se stesso, fece alcuni passi verso di lei che gli tendeva due mani trasparenti e dolcemente gli sorrideva. La guardava muto e pieni gli occhi di lagrime.

(Continua).

Educazione dei figli


A credere si dan d’aver finito
Ogni dovere ed ogni grattacapo
Molte femmine quando han partorito,
Le quali han voto stranamente il capo;
Ma costoro s’ingannano a partito,
E non san ben che allora son da capo,
O, per dir meglio, allor comincia il buono
Nè han da lasciare i figli in abbandono.


Hanno da far co’ propri figli quello
Che fa co’ suoi pulcini la gallina,
Che li difende da ogni tristo uccello,
E per loro s’affanna e si tapina;
Han da improntare in essi il bel suggello
Della religion santa e divina;
E non passar, come oggi far si suole,
Il tempo in giochi, in veglie, in ciance, in fole.


Han da educar per legge naturale
Le femmine volgari e le matrone
I loro figli; e a lettre di speziale
Quest’obbligo il Signore ad esse impone;
E dice un santo Padre che, del male
Che per mancanza d’educazione
In questo mondo i figli avranno fatto
Renderanno le madri un conto esatto.


Se nomino le madri, io non escludo
Per questo i padri; anch’essi han da vegliare
Sopra la loro prole; ond’io conchiudo
Che chi ha figliuoli, ha molto da pensare;
E ben mi raccapriccio, agghiaccio e sudo
Quando ripenso a quel che si suol fare
Da’ genitori, o per dir meglio, quando
Quel che non fassi vo considerando. [p. 342 modifica]
Non basta consegnarli ad una serva
Credendo scaricare il grave peso;
La qual talvolta, libera e proterva,
Gli alleva molto mal, per quanto ho inteso;
Quel ch’essi fan -non cura e non osserva,
E da ignoranza ha il cervel guasto e offeso,
E a un tenuo fanciullo spesso nuoce
Coll’esempio non men che colla voce.


Ma sia pur savia, e sia dabbene assai;
Lo sperar che de’ figli abbia ad avere
Quella cura che tu di Ior non hai,
È una vana speranza, a mio parere;
Se avessi figli, io non vorrei giammai
Sperar ch’altri facesse il mio dovere;
E s’usa cosi, l’usanza è ladra,
E, a dir la verità, poco mi squadra.

(c. V).

LA SCUOLA DEGLI ANIMALI


La storia dei fenomeni, che presenta l’istinto degli animali, più che una pagina di curiosità dilettevole è un insegnamento, una scuola perenne per l’umanità. È una cattedra donde professori irragionevoli insegnano a discepoli ragionevoli.

Eliano racconta che gli Egiziani appresero la virtù ermetico-catartica del succo del leontodonte tarassaco, dal cane.

Cicerone nella sua opera sulla Natura degli Dei riferisce che gli Egiziani impararono a cavar sangue, ossia l’uso del salasso, dall’esempio dell’ippopotamo. 11 quale quando si sente soffocare, si squarcia con qualche punta aguzza una vena, e fatta sgorgare una certa quantità di sangue, a seconda del bisogno che sente, vi si corica poi sopra per arrestare l’emorragia e mediante la compressione rimarginare la ferita.

Secondo che scrive Galeno, l’uomo apprese l’uso del clistere dall’ibis, uccello che per rinfrescarsi e vincere la stitichezza, beve acqua a larghi sorsi e quindi se la immette col becco sotto la coda.

Lo stesso Eliano ci informa che i cani nel leccare le loro ulceri colla lingua, insegnarono all’uomo l’efficacia della saliva in moltissimi casi salutarissima.

I montoni, che sono travagliati dai vermini del fegato vanno a lambire colla lingua le pietre coperte di sale, deposti nelle orine degli altri animali.

Molti altri animali, quando sono afflitti da idropisia, vanno in cerca di terre ferruginose.

I cervi e le capre insegnarono agli antichi Cretesi la virtù vulneraria del dittamo. Lo dice Plutarco.

I1 più volte citato Eliano assicura che i serpenti ci additarono l’uso benefico del finocchio, come eccitante carminativo potentissimo.

Van-Helmont dice che noi abbiamo imparato a conoscere la virtù stringente della piantaggine dal rospo.

Kempfer e Garcias riferiscono che nelle Indie la mangosta si preserva dal veleno del serpente naja, mediante la radice di una pianta denominata ophior-rhaza mungos.

La donnola si preserva dal veleno degli aspidi colla ruta, e la cicogna coll’origano.

Il cinghiale medica le sue ferite coll’ellera, che vi si. applica masticata.

L’orso nella primavera si purga colla radice dell’aro.

Noi abbiamo preso dal cervo la bontà del cardo e del carciofo.

I cani, i gatti, e molti altri animali c’insegnano l’efficacia dell’astinenza e della dieta. Essi, quando hanno male, bevono molt’acqua e si astengono dal cibo animale specialmente, di cui sono ghiotti. Cosa che spesso non facciamo noi.

Stedmann vide le scimmie d’America ed i sapa jous della Guajana, quando sono feriti, andare in cerca di piante astringenti, masticarla ed applicarsele alle ferite per fare in tal modo stagnare il sangue, ed arrestarne la perdita.

Tralasciamo mille e mille altri curiosi fenomeni dell’istinto delle bestie, che riuscirono in ogni tempo di utilità grandissima all’osservatore, per tirare dai pochi che abbiamo citato una sola conclusione.

E la conclusione è un consiglio: impariamo dalle bestie. Molto abbiamo già imparato, ma molto ancora ci resta ad imparare da esse. Questo consiglio noi non facciamo che ricordarlo soltanto, perchè lo troviamo già registrato nelle Sacre Carte e lo sappiamo uscito dalla bocca del Divino Maestro, là dove ci ammonisce di essere prudenti come i serpenti, e semplici come le colombe. Estote prudentes sicut serpentes el simplices sicut columbce. (S. Matt. X, 16).

Lettere di A. Stoppani al P. Maggioni


Il Bene — l’ottimo confratello dovunque diffuso come voce fatidica del Pio Istituto pei Figli della Provvidenza e d’ogni opera bella e buona — ha pubblicato il seguente articoletto:

Coi tipi Oliva e Somaschi è uscito il volume: ANTONIO STOPPANI — nel XX anniversario della morte. (Lettere di A. Stoppani al P. Cesare Maggioni).

Una raccolta di lettere dell’indimenticabile abate Stoppani è una cosa preziosa. Queste lettere oltre al pregio peculiare di essere uscite da quel cuore e da quella penna, ne hanno un altro grandissimo, di essere dirette a un santo uomo come fu il P. Maggioni degli oblati di Rho. Esse sono gioielli di spontaneità, dove l’animo e il carattere dell’illustre geologo, si trovano specchiati come il cielo in limpida fonte.

Il volume — un elegante volume — esce per cura del nipote dello Stoppani, Angelo Maria Cornelio, che vi ha atteso con quell’amore diligente con cui già ha curato l’edizione postuma dell’Exemeron e con cui ha dettata la vita dell’illustre zio del quale fu compagno e segretario devoto e amatissimo. Il Cornelio fa precedere alle lettere i cenni biografici dello Stoppani e del P. [p. 343 modifica] Maggioni, illustrandoli coi ritratti di ambedue, e fa seguire una lettera dello Stoppani al Cardinale Alimonda e uno scritto sull’amore che lo Stoppani nutriva per il luogo nativo.

Oltre a tanti e così cospicui pregi questa pubblicazione ne ha un altro ancora: l’utile di essa andrà a beneficio dell’Opera di Assistenza degli Operai Emigranti Italiani e dell’«Italica Gens».

Non possiamo non augurare che questo utile sia abbondantissimo, poichè è destinato con generoso pensiero a un’opera così buona e bella; e ci affrettiamo ad avvertire i nostri lettori che il volume di circa 160 pagine, costa L. 3, e che per commissioni e pagamenti bisogna rivolgersi al sig. A. M. Cornelio (8, Via Gesù, o II, Via Castelfidardo), oppure all’Ufficio dell’Opera di Assistenza degli Emigranti (44, Via S. Damiano).