Il buon cuore - Anno IX, n. 35 - 27 agosto 1910/Educazione ed Istruzione

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L’ELEZIONE DEL NUOVO RETTOR MAGGIORE

della Congregazione Salesiana


Nel giorno preciso in cui si compiono 95 anni dalla nascita del fondatore della Società salesiana, presso la sua tomba a Valsalice si sono riuniti i membri del Consiglio superiore e gli ispettori delle varie case salesiane per procedere alla nomina del secondo successore di don Bosco, carica rimasta vacante per la morte di don Rua.


Il Congresso elettorale.

Il Congresso elettorale, se così lo si può chiamare, era già stato convocato da don Rua stesso per il 24 luglio scorso, scadendo appunto quest’anno, per compiuto sessennio, tutte le alte cariche del Capitolo Superiore, compresa quella del Rettore maggiore; ma, intervenuta la sua morte, il Congresso venne dal prefetto generale rinviato ai giorni 15 e 16 agosto.

Gli elettori, in numero di 73, convennero a Torino da ogni parte del mondo e parecchi dall’America, come mons. Costamagna, vicario apostolico di Mendez e Gualquiza, e mons. Fagnano, prefetto apostolico della Terra del Fuoco.

Fin dalla sera precedente dopo una breve funzione religiosa, celebrata nella chiesa del Seminario delle missioni estere di Valsalice, una Commissione appositamente nominata, procedeva alla verifica dei titoli di ciascun elettore. In seguito il pro-rettore maggiore don Filippo Rinaldi dava lettura delle norme statutarie che regolano i lavori del Consiglio generale, leggendo inoltre un autografo di Pio X, col quale il Santo Padre mandava la sua benedizione, esprimendo voti per il felice esito delle elezioni. Anche il cardinale Rampolla, protettore dei Salesiani, aveva mandato una lettera d’augurio di cui si diede pure lettura.

Terminate queste pratiche preliminari i lavori vennero sospesi e rinviati al giorno successivo.

La prima funzione del mattino fu un solenne funerale in suffragio di don Rua, celebrato da mons. Fagnano nella chiesa delle missioni estere. Vi assistettero tutti i membri del Consiglio generale e gli ispettori che, a cerimonia compiuta, si raccolsero nuovamente in seduta plenaria per procedere alla nomina del rettore maggiore col metodo della scheda segreta.


Il responso dell’urna.

Due correnti di aspirazioni e di preferenze si erano andate delineando fra gli appartenenti alla Società salesiana fin dalla morte di don Rua; una facente capo a don Filippo Rinaldi, prefetto generale della Congregazione da molti anni, e l’altra a don Paolo Albera, direttore spirituale di tutta l’Opera salesiana dal 1892 sino ad oggi ininterrottamente; in questi ultimi tempi però i fautori di don Albera erano andati aumentando sì che si prevedeva ormai la sua elezione a grande maggioranza.

L’elezione, incominciata alle ore 10.30, alle 10.55 era già compiuta. Si iniziò subito lo scrutinio e fin dalle prime schede apparve infatti palese la preminenza di don Albera. Infatti su 73 votanti, egli ottenne 46 voti, mentre erano sufficienti 38 per essere eletto, cioè la metà più uno dei votanti. Gli altri 33 voti andarono divisi fra don Rinaldi, don Cerruti, don Bertello e altri. Alla proclamazione dell’esito scoppiò un applauso fragoroso nella sala. Don Albera è il nuovo rettore maggiore dei Salesiani e tutti i delegati si alzano in piedi per rendere il primo omaggio al secondo successore di don Bosco.

Il momento è veramente solenne. L’eletto vorrebbe dire un grazie ai suoi elettori, ma non riesce ad articolare parola per la grande commozione. E l’applauso si ripete più lungo e insistente.

La notizia venne immediatamente telegrafata al Pontefice e al cardinale Rampolla e, più tardi, comunicata al cardinale arcivescovo, al prefetto e al sindaco di Torino.


La nomina del Capitolo.

Nel pomeriggio i delegati si riunirono nuovamente per procedere alla nomina del Capitolo superiore. Riuscirono eletti: don Rinaldi, prefetto generale; don Bertello, economo; don Barberis, catechista; don Cerruti, don Piscetta e don Vespignani, consiglieri.

La nomina di don Albera a rettore maggiore e la riconferma dei membri del Capitolo superiore, per quanto non inattese, sono state apprese con vivo compiacimento dalla Società salesiana.

L’eletto d’oggi è, in ordine di tempo, come si è detto, il terzo superiore generale della Congregazione salesiana. Don Bosco, il fondatore, in virtù di uno speciale decreto della Santa Sede la governò fino alla sua morte. Il secondo superiore generale fu don Rua, nominato da don Bosco suo vicario generale con diritto di successione fin dall’8 dicembre 1885. Morto don Bosco, Leone XIII confermò don Rua nella carica di rettore maggiore, nel quale ufficio venne riconfermato nel 1898, reggendo così le sorti della pia Società salesiana sino alla sua morte per circa 22 anni.

Don Paolo Albera è uno dei più antichi allievi salesiani ed è stato tra i più apprezzati da don Bosco. Si dice che il fondatore dei salesiani lo avesse pronosticato suo successore in un convegno avvenuto a Borgo [p. 277 modifica] San Martino, presso Casale. Nato a None, presso Torino, il 6 giugno 1845, don Albera entrò nell’Oratorio di don Bosco l’8 agosto 1858. Fu prima direttore del Collegio salesiano di Sampierdarena, indi per molti anni ispettore delle opere salesiane di tutta la Francia, e poscia per tre anni visitatore delle case esistenti in America.

Nel Consiglio generale del 1892 venne eletto direttore spirituale di tutta la Società salesiana, carica in cui venne quindi sempre riconfermato. È uomo di larghe e moderne vedute, di statura media e dal volto d’asceta.

Noi che abbiamo avuto la bella ventura di avvicinare il degno successore di don Bosco e don Rua, esprimiamo il più vivo compiacimento.

LA CADUTA DI UN ANGELO


(Continuazione e fine, vedi n. 34).

Fu messo subito a letto e sottoposto ad una cura medica rigorosa per strapparlo, se ancora si era in tempo, ad una fine precoce, che anche una non pessimistica previsione temeva.

Dopo questo avvenimento, era naturale che la fisonomia del castello dovesse mutare, e i bei progetti di vita indisturbata e tutta dedita al misticismo quali li accarezzava Daisy, dovettero ricevere un’altra modificazione.

Là malattia ebbe un corso ben lungo: mai un segno decisivo che finalmente il male fosse domato; mai una crisi definitiva che portasse al cominciamento della guarigione.

Era uno strazio, uno schianto vedere quella giovane vita consumarsi lentamente in una stazionarietà stagnante, ribelle ad ogni tentativo della scienza salutare. La misera madre, gli occhi fissi su quelle rovine d’una già cosi florida esuberante giovinezza, pareva volesse trasfondere nell’esausto corpo di Cecil Lionel, il suo sangue, la sua vita; e spiava un segno di miglioramento che non veniva, e voleva leggere nel figlio un cambiamento che purtroppo non era che nel suo cuore illuso da mendaci speranze. Daisy era commossa, impietosita essa pure, malgrado le sue teorie di insensibilità, e il suo programma di vita d’angeli, ignari delle leggi o delle sfrenatezze della carne e del sangue. Il più della giornata la passava colla Baronessa nella camera dell’ammalato, dove le due donne avevano portato il loro quartiere generale. Dove il continuo spettacolo di quello sventurato giovane sempre alle prese col male, della sua vigoria così brutalmente fiaccata, della sua resa alle ragioni del più forte, del suo abbandono, come di un ragazzo, nelle mani della madre, bisognoso di tutto, implorante con due occhioni pieni di una dolcezza soave, di umiltà e rassegnazione direi quasi infantile, cento piccoli servigi, non potevano a meno di esercitare una misteriosa influenza sul cuore non in guardia della fanciulla, che mai più sospettava o temeva un pericolo là dove tutto era estrema debolezza, la negazione di un’insidia, di un nemico.

Finalmente, dopo lunghi mesi di cura, un bel giorno il medico annunciava che il caro ammalato aveva superato la crisi definitiva e si avviava felicemente verso la convalescenza e la piena guarigione. Nel tribolato cuore della Baronessa, la gioia, la luce, la felicità, tornavano un’altra volta a mettervi il loro soggiorno; l’aria tetra del vetusto castello pareva illuminarsi ai riflessi di una contentezza traboccante, alleggerirsi, assumere una trasparenza d’un cielo orientale.

Di lì a pochi giorni Cecil Lionel cominciò a lasciar per qualche ora il letto: poi per delle mezze giornate; e progredendo sempre il miglioramento, finì per star alzato fino a sera e anche ad uscire di camera, per pochi passi, reggendosi sulle braccia nerborute dei domestici. Lo sforzo dapprima lo annientava; tutto ansimante, contraendosi in espressioni di stanchezza e di dolore invocava subito d’arrestarsi a sedere; e anche l’aria primaverile, non ancora scaldata dai raggi poderosi del sole estivo, gli provocava dei brividi di freddo intollerabili. Ma la ripetizione di questi esercizii, il progressivo rinvigorirsi sotto un’attiva nutrizione, e lo spiegamento completo della primavera che in quell’anno fu di una normalità insolita, fecero scomparire in breve le ultime paure e sensibilità del caro convalescente.

A maggio inoltrato Cecil Lionel già poteva camminare da sè e in lunghi giri nei giardini che stendevansi lussureggianti dietro il castello; più tardi si spingeva anche tra gli interminabili ombrosi viali dell’immenso parco, raggiante d’una gioia piena di candore infantile. Beveva a larghi sorsi la vita fremente, impetuosa, festosa che natura versava a fiotti, a torrenti, nei calici dei fiori, nei tessuti delle piante, sopra tutta una lussurreggiante vegetazione che faceva pompa superba del suo rigolio, quasi una vegetazione tropicale trasportata nei giardini che stendevansi a perdita di vista innanzi al castello somiglianti a campi fatati su cui era scesa una pioggia di fiori. Con questa rinascita di cose, armonizzava all’unisono la sua risurrezione; gli stessi sobbalzi e fremiti sotto la irrompente onda di linfa rinnovata; gli istessi tripudii irrefrenati; l’istesso irraggiare tutt’attorno in immenso giro d’accese faville di fuoco sacro, di fluidi elettrizzanti; l’istessa festa tutta gioconda e innocente.

Ma rinasceva simultaneamente anche la vita del cuore, in una visione più serena e fiduciosa dell’avvenire, in un godimento più acuto del presente, in una espansione più larga di sè — che tradivasi con palpiti più liberi, più poderosi, più arditi, quasi a voler raggiungere un essere invisibile che inutilmente cercava fra tante cose belle ma incapaci di comprenderlo, d’appagarlo.

Gli spettacoli di natura che svolgevansi sotto l’attonito suo sguardo e gli strappavano gridi d’ammirazione quasi li vedesse per la prima volta, la moltiforme bellezza, che è il rinnovato sorriso di Dio posatosi sulle create cose, la magnifica veste della flora, le svariate forme artistiche di esseri viventi, le magnifiche linee di infiniti panorami sceneggiati in lontananza, lo commovevano; però nulla rispondeva ai misteriosi bisogni del cuore. Si sentiva disperatamente sitibondo d’affetto, e il suo martirio era appunto qui: nessun altro affetto non rispondeva alla sua chiamata. Era divenuto così tenero, che una dimostrazione qualunque di gentilezza lo commoveva fino al pianto. Il pianto gli era facile, [p. 278 modifica] frequente, tinto d’una leggera voluttuosità morbosa; piangeva per nulla.

E fu un gran giorno per lui quel radioso giorno di maggio inoltrato, quando credette di aver scoperto la sua felicità.

Il sole era già alto sull’orizzonte, e versava sulla desta natura in giubilo tutta la gloria dei suoi raggi e le vampe del suo fuoco, quasi a destare altri fuochi, per fondersi assieme nella più poderosa sinfonia di amore. L’aria pareva investita di luci piene di sorriso e di malie; e tutto fremeva sotto le carezze e i baci appassionati e ardenti dell’astro maggiore, suscitatori di sensualità. Cecil Lionel si sentiva penetrare nelle ossa, ondate di energia, di coraggio, di audacia e un invito insinuante e suggestivo, di unire la sua ancor debole voce al concerto sublime che echeggiava, saliva in alto come un inno glorioso; ed espresse alla madre la voglia irresistibile di una gita sul vasto lago che quel mattino magico, giaceva più liscio e tranquillo e seducente nell’immenso parco di Blackbird.

Il progetto fu accolto con un coro d’approvazioni; la baronessa però non sarebbe entrata in barca perchè estremamente paurosa e diffidente del suo lago; l’idea della possibilità di cadere in acqua e di morire affogata, le inspirava un ribrezzo invincibile che nessuna ragione valeva a superare. E allora fu convenuto che Daisy sola l’avrebbe accompagnato, mentre la Baronessa sarebbe rimasta ad aspettarli alla riva. Così Cecil e Daisy, entrati in barca, si collocarono sotto un elegante baldacchino che li avrebbe protetti dal sole, quasi a prora della signorile gondoletta, sul tipo di quelle della veneta laguna; e due servi si misero ai remi, vogando alacremente verso un’isoletta che sorgeva quasi alla estremità opposta, tutta verde e fresca e piena di inviti e promesse come paese romantico, fatto solo di incanti e di sogni.

A misura che il fragile palischermo si avanzava maestoso, quasi vascello fantasma, tra una profusione di fiori olezzanti che il sole accendeva come multicolori lampadine fatate, senza urti, cullandosi come su una soffice, elastica massa di bambagia, il panorama circostante offriva le più svariate scene; colpi di vista inattesi, sfondi rnaravigiiosi, un’animazione insolita, poderosi palpiti di vita, come il respirare d’un gigante, e una festa di trilli e gorgheggi di cento uccelli d’ogni specie che tormentavansi il capo per emettere le note più lieti. Era naturale che il giovane si volgesse ripetutamente a Daisy ogni volta che una scena più imponente lo colpiva, come per leggere sul di lei volto rapito e soffuso di amabile pallore, le emozioni che dovevano provocare; come per interrogarla del suo parere, constatare che essa fosse come lui impressionata. Le poche parole di Cecil Lionel, non sempre coraggiose e che tradivano, attraverso un tremito singolare e inflessioni d’infinita dolcezza, un sentimento misterioso per quanto non spiegato totalmente, lo sguardo soave e timido che si indugiava nella contemplazione degli splendidi occhi della fanciulla, un non so che di fascinatore che sprigionavasi come un fluido penetrante, da cui non era possibile difendersi, in

quell’ora ebbero sull’animo di Daisy un’azione disastrosa, definitiva. La fanciulla quando si fu di ritorno al castello, si svegliò come da un sogno di leggenda, notò vagamente e con una specie di terrore, di provare per Cecil Lionel qualcosa di più di un sentimento generico di cristiana carità nella forma più stretta quale è dovuta a parenti; si pentì, si accusò, ebbe lampi di decisa volontà di respingere da sè ad ogni costo quel sentimento che la insudiciava. Ma all’atto pratico trovò che il nemico si era a sua insaputa avanzato di troppo, e preso sul suo cuore un imperio ben difficile da sopprimere. Quando i migliori propositi formulati nel segreto della sua cameretta parevano assicurarla che non era vero che avesse provato delle simpatie pel suo parente; ritrovandosi con Cecil, alla vista di quel giovane amai pienamente ristabilito, dalla figura maschia, robusta, trasfigurata attraverso una terribile malattia in un essere senza confronto più bello di prima, più seducente, più irresistibile, tutto sfumava; un’onda di prepotente passione l’avvolgeva, come il vento si impadronisce e stringe nelle sue spire un fuscello. E allora addio propositi, addio rinuncie; e una resa a discrezione di tutte le sue potenze alla imperante seduzione, era la più evidente riprova che ornai potevasi credere perduta.

L’alternativa di debolezze e di energiche risoluzioni si protraeva già troppo. Daisy un giorno che Cecil Lionel erasi assentato dal castello con alcuni amici per un’interessante partita di caccia, sola nella sua stanza, dopo un esame di coscienza senza vane difese del proprio torto, vergognosa di sè, amaramente pentita di essere per sua colpa iscapitata fino a quel punto nella vita dello spirito, era risoluta davvero di troncare quel mondano idillio e restituirsi a casa sua; tanto la Baronessa ormai non aveva più bisogno di lei dacchè aveva due volte fatto riacquisto del figlio benamato. In giornata comunicò alla sua parente il proposito fatto.

Quando Cecil Lionel tornò da caccia e seppe dalla madre la risoluzione di Daisy, senza porre tempo in mezzo, volò su alla stanza della cugina tutto ansimante ancora e in uno stato da far pietà, chiedendole di tornare sulla sua decisione, di nulla precipitare, che non credeva le avessero mancato di riguardo al castello, che lui sarebbe stato inconsolabile se mai potesse averle dato un motivo anche lontano di dispiacere; e nella voce v’era tanta sincerità e un tono così dolente, blando, carezzevole, di così desolata mestizia, che Daisy un’altra volta fu vinta, e tornò ad abbandonarsi alle attrazioni del vortice che dovea inghiottirla in una suprema rovina.

Cecil Lionel comprese che aveva vinto definitiva mente la lotta che si combatteva in modo coperto da tanto tempo. Comprese di essere il prevalente, il più forte; dimenticò d’altra parte d’essere cavaliere come lo era stato sempre. Anche lui travolto da una passione dapprima non notata, non vigilata, non tenuta a freno, forse distratto come era dalle imperiose necessità di convergere tutti i pensieri su un punto solo — riacquistare la salute perduta — riuscì ad essere un vinto. Non solo dimenticò di essere cavaliere; da qui innanzi anche ritirò la stima già spinta fino alla venerazione, ad una giovane che non opponeva più resistenze; fece di più, [p. 279 modifica] non ebbe altro in mira quind’innanzi che un abbietto egoismo a cui soddisfare, una indegna passione da accontentare ad ogni costo.

Daisy ornai convinta di non poter più sottrarsi all’imperio d’una passione dichiarata, e conscia dal canto suo di essere un carattere tutt’altro che adamantino, si andava famigliarizzando a quello stato irregolare di cose, al vile tradimento di se stessa e di Colui che cento volte aveva protestato sarebbe stato l’unico suo diletto e sposo. Ogni giorno era un nuovo strappo alla sua antica coscienza, una nuova concessione al suo presente tiranno. Non mancava che Cecil Lionel una volta o l’altra, perduto ogni senso di moralità e di galantomismo, in un impeto di indomita audacia, si slanciasse a fare scempio d’una verginità ornai troppo in pericolo, perchè quel dramma avesse il suo naturale epilogo. E l’occasione venne; e Daisy un giorno, innanzi ad una seduzione che faceva gli ultimi disperati sforzi per prevalere su lei, stordita, inebriata, non trovò in sè la forza di vincere; e purtroppo la caduta fu miseramente consumata.... Ahi! il più bel fiore della corona gloriosa che cingevale la fronte, allora le veniva brutalmente strappato, calpestato sotto i piedi, gettato nel fango!

Il risveglio della coscienza dopo un fallo di questa natura, è subitaneo, amaro, brutale, seguito da un altro risveglio, da quello di lacerante rimorso, da gridi strazianti, da insensata disperazione, dai più insani propositi, non escluso quello di sopprimersi per sfuggire al disonore, all’esecrazione dell’opinione pubblica.

Daisy provò tutto questo; ma una riserva di energie morali; ma forse un segno di eccezionale riguardo e misericordia da parte di Colui che per tanti anni aveva pur servito lealmente e che, solo in un’ora di imprudenze inqualificabili, di rilascio non mai abbastanza condannabile di vigilanza, di riserbo, di preghiera, tradì, presa in mezzo e inebriata dai funesti veleni d’una atmosfera di sensualità, tutto questo la trattenne dall’aggiungere una colpa maggiore a quella già enorme commessa poc’anzi, la strappò al suicidio per vivere ancora, ma allontanandosi subito dall’infausto teatro del suo peccato, ma per darsi ad una troppo giusta penitenza ed espiazione.

Si può intanto immaginare come anche la Baronessa, come i genitori di Daisy, i soli che coi colpevoli e con Dio erano al fatto della caduta del loro angelo restarono sorpresi, costernati di quel fatto che gettava di riverbero tanta vergogna e tanta responsabilità anche su loro. Segretamente, purtroppo, trovarono delle attenuanti alla loro parte di colpa. Non avrebbero mai sospettato una tal fine, eransi anzi lusingati che la vicinanza dei due giovani, le nate simpatie, la passione che divampò come un incendio, avrebbero potuto, dovuto condurli all’ideale tanto accarezzato da ambo le parti — al matrimonio regolare....

Questa è la favola; ma affrettiamoci a soggiungere che non ha morale. Il fallo da noi narrato si ripeterà altre volte perchè l’esperienza degli altri non ci persuade; ognuno di noi vuol far su se stesso la propria esperienza dando luogo al circolo infinito degli stessi

errori sempre ripetuti, colla sola differenza della forma più o meno grossolana o raffinata o romantica.

Però sarebbe contro verità e giustizia il tacere che almeno i protagonisti approfittarono della dura lezione che scaturiva dal loro fallo. Sì, entrambi, in diverso modo, impararono qualche cosa.

Daisy immediatamente lasciò il castello e si restituì alla casa paterna per cominciare l’aspra penitenza che meditò potesse essere adeguata riparazione del suo peccato. E fu rigorosa, spaventevole, cosicchè presto quella sua superba giovinezza sfiorì per risolversi in una pallida ombra, in una forma vana, spettrale. Costantemente chiusa, volontaria prigioniera, nel segreto della sua casa, invisibile a tutti, macerava quel corpo, puniva quella sciagurata bellezza che le era stata così fatale. Una sol volta all’anno rompeva il ferreo sequestro, per andare pellegrina, il giorno anniversario della sua caduta, al castello di Blackbird tutta chiusa in negri veli, a rivedere il teatro odioso della sua colpa e la scena della sua caduta innanzi al quadro che il barone Cecil Lionel aveva fatto eseguire. Il rinnovato martirio di questo strano pellegrinaggio dovea far parte del programma di penitenza tracciata con tanta raffinata crudeltà. S’intende che nessuno dovea trovarsi presente a quella visita, molto meno il complice del suo peccato, che, sulla parola, dovea sparire ed assentarsi dal castello per tutto il giorno. Ma gli abitanti dei dintorni sospettarono la ragione di quella apparizione, e riconobbero sotto le gramaglie del più doloroso lutto quella che essi chiamavano la Maddalena di Blackbird.

Cecil Lionel si sottopose esso pure alla sua penitenza.

Si obbligo volontariamente a non sposare nessuna donna, e a vivere nella solitudine tutta la vita. Chi si era macchiato d’una viltà così odiosa, abusando d’una fanciulla inesperta nel calcolato momento di ebbrezza del cuore e dei sensi, e le aveva rapito ciò che ha di più prezioso non lasciandole che il disonore, non era più degno della stima e dell’affetto di nessun’altra donna.

Inoltre si fece dipingere quel quadro votivo di cui è parola più sopra, perchè il ricordo sensibile del male indescrivibile che avea fatto gli stesse ognora innanzi. Da ultimo fondò in Londra una istituzione pia, all’intento di venir in aiuto in tutti i modi possibili a fanciulle restate vittima d’un fallo come quello di Daisy. Il lascito che ammontava a qualche milioncino, fruttava un bel rotolo di sterline; e queste passavano o a formar doti per facilitare il matrimonio a fanciulle bisognose, oppure a rendere possibile e decorosa l’esistenza ad aspiranti a vita religiosa o a vita ritirata in famiglia. Il barone Cecil Lionel, sempre vestito a lutto pesante, come lo era Daisy, sempre preoccupato da un pensiero tiranno, sempre accigliato, non aveva altro svago, nella sua forzata vedovanza, che i libri. E trascinava la vita così; lui che, nelle sue condizioni finanziarie, e se fosse stato più galantuomo, avrebbe potuto passare un’esistenza felice.

Possa così terribile penitenza, quasi di due esseri maledetti, venir presa in conto anche per la vita d’oltre tomba, e computata a pieno saldo del debito.

Augusta Maxwel-Hutton.