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IL BUON CUORE 277


San Martino, presso Casale. Nato a None, presso Torino, il 6 giugno 1845, don Albera entrò nell’Oratorio di don Bosco l’8 agosto 1858. Fu prima direttore del Collegio salesiano di Sampierdarena, indi per molti anni ispettore delle opere salesiane di tutta la Francia, e poscia per tre anni visitatore delle case esistenti in America.

Nel Consiglio generale del 1892 venne eletto direttore spirituale di tutta la Società salesiana, carica in cui venne quindi sempre riconfermato. È uomo di larghe e moderne vedute, di statura media e dal volto d’asceta.

Noi che abbiamo avuto la bella ventura di avvicinare il degno successore di don Bosco e don Rua, esprimiamo il più vivo compiacimento.

LA CADUTA DI UN ANGELO


(Continuazione e fine, vedi n. 34).

Fu messo subito a letto e sottoposto ad una cura medica rigorosa per strapparlo, se ancora si era in tempo, ad una fine precoce, che anche una non pessimistica previsione temeva.

Dopo questo avvenimento, era naturale che la fisonomia del castello dovesse mutare, e i bei progetti di vita indisturbata e tutta dedita al misticismo quali li accarezzava Daisy, dovettero ricevere un’altra modificazione.

Là malattia ebbe un corso ben lungo: mai un segno decisivo che finalmente il male fosse domato; mai una crisi definitiva che portasse al cominciamento della guarigione.

Era uno strazio, uno schianto vedere quella giovane vita consumarsi lentamente in una stazionarietà stagnante, ribelle ad ogni tentativo della scienza salutare. La misera madre, gli occhi fissi su quelle rovine d’una già cosi florida esuberante giovinezza, pareva volesse trasfondere nell’esausto corpo di Cecil Lionel, il suo sangue, la sua vita; e spiava un segno di miglioramento che non veniva, e voleva leggere nel figlio un cambiamento che purtroppo non era che nel suo cuore illuso da mendaci speranze. Daisy era commossa, impietosita essa pure, malgrado le sue teorie di insensibilità, e il suo programma di vita d’angeli, ignari delle leggi o delle sfrenatezze della carne e del sangue. Il più della giornata la passava colla Baronessa nella camera dell’ammalato, dove le due donne avevano portato il loro quartiere generale. Dove il continuo spettacolo di quello sventurato giovane sempre alle prese col male, della sua vigoria così brutalmente fiaccata, della sua resa alle ragioni del più forte, del suo abbandono, come di un ragazzo, nelle mani della madre, bisognoso di tutto, implorante con due occhioni pieni di una dolcezza soave, di umiltà e rassegnazione direi quasi infantile, cento piccoli servigi, non potevano a meno di esercitare una misteriosa influenza sul cuore non in guardia della fanciulla, che mai più sospettava o temeva un pericolo là dove tutto era estrema debolezza, la negazione di un’insidia, di un nemico.

Finalmente, dopo lunghi mesi di cura, un bel giorno il medico annunciava che il caro ammalato aveva superato la crisi definitiva e si avviava felicemente verso
la convalescenza e la piena guarigione. Nel tribolato cuore della Baronessa, la gioia, la luce, la felicità, tornavano un’altra volta a mettervi il loro soggiorno; l’aria tetra del vetusto castello pareva illuminarsi ai riflessi di una contentezza traboccante, alleggerirsi, assumere una trasparenza d’un cielo orientale.

Di lì a pochi giorni Cecil Lionel cominciò a lasciar per qualche ora il letto: poi per delle mezze giornate; e progredendo sempre il miglioramento, finì per star alzato fino a sera e anche ad uscire di camera, per pochi passi, reggendosi sulle braccia nerborute dei domestici. Lo sforzo dapprima lo annientava; tutto ansimante, contraendosi in espressioni di stanchezza e di dolore invocava subito d’arrestarsi a sedere; e anche l’aria primaverile, non ancora scaldata dai raggi poderosi del sole estivo, gli provocava dei brividi di freddo intollerabili. Ma la ripetizione di questi esercizii, il progressivo rinvigorirsi sotto un’attiva nutrizione, e lo spiegamento completo della primavera che in quell’anno fu di una normalità insolita, fecero scomparire in breve le ultime paure e sensibilità del caro convalescente.

A maggio inoltrato Cecil Lionel già poteva camminare da sè e in lunghi giri nei giardini che stendevansi lussureggianti dietro il castello; più tardi si spingeva anche tra gli interminabili ombrosi viali dell’immenso parco, raggiante d’una gioia piena di candore infantile. Beveva a larghi sorsi la vita fremente, impetuosa, festosa che natura versava a fiotti, a torrenti, nei calici dei fiori, nei tessuti delle piante, sopra tutta una lussurreggiante vegetazione che faceva pompa superba del suo rigolio, quasi una vegetazione tropicale trasportata nei giardini che stendevansi a perdita di vista innanzi al castello somiglianti a campi fatati su cui era scesa una pioggia di fiori. Con questa rinascita di cose, armonizzava all’unisono la sua risurrezione; gli stessi sobbalzi e fremiti sotto la irrompente onda di linfa rinnovata; gli istessi tripudii irrefrenati; l’istesso irraggiare tutt’attorno in immenso giro d’accese faville di fuoco sacro, di fluidi elettrizzanti; l’istessa festa tutta gioconda e innocente.

Ma rinasceva simultaneamente anche la vita del cuore, in una visione più serena e fiduciosa dell’avvenire, in un godimento più acuto del presente, in una espansione più larga di sè — che tradivasi con palpiti più liberi, più poderosi, più arditi, quasi a voler raggiungere un essere invisibile che inutilmente cercava fra tante cose belle ma incapaci di comprenderlo, d’appagarlo.

Gli spettacoli di natura che svolgevansi sotto l’attonito suo sguardo e gli strappavano gridi d’ammirazione quasi li vedesse per la prima volta, la moltiforme bellezza, che è il rinnovato sorriso di Dio posatosi sulle create cose, la magnifica veste della flora, le svariate forme artistiche di esseri viventi, le magnifiche linee di infiniti panorami sceneggiati in lontananza, lo commovevano; però nulla rispondeva ai misteriosi bisogni del cuore. Si sentiva disperatamente sitibondo d’affetto, e il suo martirio era appunto qui: nessun altro affetto non rispondeva alla sua chiamata. Era divenuto così tenero, che una dimostrazione qualunque di gentilezza lo commoveva fino al pianto. Il pianto gli era facile,